Se volessimo astrarci da qualsiasi discorso calcistico che coinvolge il popolo, nella sua completa accezione – dal primo dei nobili principi della famiglia Torlonia all’ultimo degli scaricatori del vecchio porto fluviale di Ripetta – imboccheremmo un vicolo cieco dal quale sarebbe impossibile uscire. In questo secolo e mezzo di esistenza del pallone sono tanti quelli che hanno provato a spiegare il perché la mente umana sia così affascinata e trasportata da quel gioco semplice, che si avvale di un pallone, due porte e un rettangolo di gioco. Qualcuno c’è riuscito, qualcun’altro ci è andato vicino, altri sono partiti dalle loro posizioni di preconcetto, intercorrendo in figuracce cosmiche o posizioni spocchiose. Insomma, proprio le componenti che il ginepraio calcistico ripudia di sua natura.

Non voglio soffermarmi su quell’anima contradaiola che, soprattutto nel nostro Paese, sospinge intere folle a “battersi” le une contro le altre, in nome della propria città, delle proprie tradizioni, del proprio “campanile”. La stessa anima che qualcuno vorrebbe sopire in nome di un’omologazione ricercata, volta a distruggere le proprie identità. Ma anche in nome di quel perbenismo che sempre più attanaglia i nostri centri urbani e la nostra opinione pubblica. Fare festa, anche in nome di una squadra, è ritenuto da sommi personaggi “uno schifo” o peggio ancora “una cosa da plebei”. E su quest’ultima fatevene una ragione: la plebe se volesse potrebbe distruggere tanti castelli in aria creati da menti talmente povere da esser diaboliche.

Non lo voglio fare perché è un passaggio affrontato numerose volte e forse servirebbe soltanto a soppiantare questo velo di apatia che in dato momento storico costeggia molte parti della mia vita. Calcio compreso. Mi si perdoni poi se magari si evincerà da questo pezzo la mia fede calcistica. Non me ne voglia nessuno, ma spesse volte capita di dover prendere in mano la penna anteponendo i sentimenti e uscendo dalla fredda e mera cronaca. Magari non sarà tanto giornalistico, ma il cruccio di fronte cui mi pongo quotidianamente è: il lettore vuol sempre e solo sentirsi informato con la fredda cronaca, oppure vuol anche vivere delle emozioni attraverso la lettura?

Venerdì 21 luglio 2017 è una data importante. Che ho atteso con fervore già da qualche giorno prima. Non mi interessa entrare nella polemica sulla corretta anagrafe della Roma. Non mi interessa mettere in dito in una piaga creata gratuitamente. Quando si fanno ricerche e approfondimenti su un calcio giocato, costruito e vissuto quasi cent’anni fa è facile dover rimettere mano a tante ufficialità. Sarebbe solo il caso di comunicarlo nel modo corretto. Sarebbe stato opportuno, da parte della società (che comunque ha soltanto ripreso e fatto proprio ciò che la precedente presidenza aveva annunziato affidandosi agli studi dello storico Massimo Izzi, vale a dire lo spostamento della data di fondazione dal 22 luglio al 7 giugno) dire: “Il 22 luglio rimane comunque una data importante nella nostra storia. E siccome i tifosi, che sono il cuore della Roma, lo hanno sempre festeggiato, noi vi restiamo comunque fedeli”. Il che non vuol dire rinnegare né l’uno né l’altro.

Uno dei problemi endemici di questa Roma americana è certamente quello della comunicazione. E in una città come la mia, in un’epoca come quella contemporanea, questo rischia di essere un boomerang pesantissimo. Io sono dell’idea che quando si importa una “novità” nel mondo del pallone dietro ci debba sempre essere un’oculata e logica spiegazione. Anche perché nel 2017 tutti hanno l’opportunità di leggere e informarsi, ma al contempo c’è anche il rischio che ciò avvenga in maniera grossolana ed errata. Andando a creare ulteriore confusione.

I tifosi, fortunatamente, conservano ancora un forte senso di identità e quando vedono questa intaccata tendono loro stessi a spaccarsi. Il tifo della Roma – purtroppo per lui – è maestro in ciò. Un difetto che ha spesso tarpato le ali a un ambiente dalle potenzialità mostruose. Per questo una società forte, intelligente e lungimirante deve capirlo e fare di tutto per esser collante anziché forbice. Spiegarsi con il dialogo, anziché imporsi con la forza.

Le luci di una Roma sempre meno romana risplendono vive, tra gli zampilli d’acqua sempre più razionati a causa della crisi idrica che ha colpito la Capitale. Amo follemente la mia città, il suo centro, le sue stradine e la sua storia visibile persino su un anonimo tombino o in un palazzo defilato. Eppure non riesco più a tollerarne la perdita della propria anima. Mi dico: “Questa sera sarà una delle poche volte nell’anno in cui i romani riprendono possesso del proprio centro cittadino”. Anche per qualche ora, ma è così. Non siamo ai livelli di Venezia. Ma siamo ormai una città museo. Peraltro tenuta in pessime condizioni. Dove tutto è commercializzato e quindi portato al ribasso per quanto riguarda la qualità e al rialzo per quanto riguarda i prezzi. Tutto è plastificato e ogni cosa ha perso la forma originale. Noi profondamente – e ingiustificatamente – imborghesiti. Diciamocelo chiaramente.

Io quelle strade sono solito percorrerle in bicicletta. Dovendo fare lo slalom tra i posti di blocco di Via Fori Imperiali e Via del Corso e mal tollerare i turisti che – essendo trattati esclusivamente come Euro che camminano, bisogna dirlo – sempre più senza rispetto affollano quelle strade. Sia chiaro, una buona parte di colpevolezza la recitano pure i romani stessi. Quando si ha sotto mano una bellezza tanto impareggiabile e unica forse non ci si rende conto di come ci si debba comportare per mantenerla decorosa e viva. 

Sapere che i colori della squadra che tifo da bambino potranno marciare per tutti questi luoghi mi riempie il cuore di gioia. E pensare che il raduno di Via degli Uffici del Vicario partì quasi in sordina. Con pochi presenti. Ormai tanti anni fa. Credo che la perdita di molti spazi sociali sugli spalti, per colpa della repressione, e la continua trasformazione della nostra società in luogo di individualismo massimo, abbia pian piano accentuato la partecipazione. Ma anche la sola data ha aiutato. Il 22 luglio i campionati sono fermi. E Roma ha fame di calcio, di stadio e di tifo. Come invitare un assetato in un’oasi adombrata e fresca.

Sebbene in questa data di fresco ci sia sempre ben poco.

E tutti sono coscienti di quanto questo 22 luglio sia un po’ più importante degli altri. Novant’anni di AS Roma sono un qualcosa che hanno segnato, cresciuto e forgiato intere generazioni. Si sono tramandati modi di dire, di esultare e di affrontare le sofferenze. Il mantra del tifoso romanista è stato sicuramente fotografato da Giorgetto, poco prima di andarsene: “Abbiamo vinto pocoperò è bastato vincere una volta per dire che avevamo vinto più di tutti!”. Passionale, spesso sbruffone e spaccone (come da indole della città), visceralmente attaccato ai propri colori e talmente polemico da riuscire a creare centomila fazioni pure su un argomento di terziaria importanza. Ma micidiale in quella poche volte in cui ha avuto qualcosa da festeggiare. Profondamente meridionale, nel suo modo di fare più spontaneo.

Scendendo da Via del Tritone metro dopo metro si moltiplicano i vessilli giallorossi che vanno in direzione Pantheon. Questo è il più corposo dei due appuntamenti che celebreranno la serata. L’altro sarà al Circo Massimo, luogo legato alla Roma, oltre che per i festeggiamenti degli ultimi due scudetti, per una delle sedi storicamente più importanti ivi ubicate. Dico la mia, sinceramente: sono uno a cui piace sempre l’unità nelle cose. Proprio per non disperdere il potenziale di cui sopra. Sarebbe stato bello vedere l’intero popolo romanista assieme. Oltre le divisioni e oltre qualsiasi malinteso. Perché di fondo, come si diceva quando scoppiava qualche litigio nel nostro tempio – la Curva Sud – “semo tutti da’ Roma” e questa per me è forse la frase più bella che si possa sentire da tifoso. Nonché la base che rende il calcio uno sport unico e diverso dagli altri: quella che mette sullo stesso piano i Torlonia e i portuali di Ripetta. Per l’appunto.

Detto ciò, le scelte vanno comunque rispettate ed è senza dubbio bello constatare come nello stesso momento alcuni tra i luoghi più significativi dell’Urbe si siano vestiti a festa per lo stesso motivo. Sapere che torce, fumogeni e striscioni si sono issati al Pantheon, in Via degli Uffici del Vicario, al Campidoglio, allo stadio Olimpico e al Circo Massimo resta una prova di quanto sarebbe bello se questa città – al di là del pallone – riuscisse a riprendersi gli spazi comuni.

E non bastano i post infamanti di “Roma fa schifo”, che con la sua becera e infame linea editoriale continua ad offendere e ingiuriare buona parte della città per il gusto di farlo e per la necessità di incamerare facili like, per sminuire una serata che ha attirato l’attenzione di passanti e turisti. Il prode “Roma fa schifo” che si lamenta perché “non si può bere una birra all’aperto per l’arrivo dei selvaggi” non ha visto gli occhi estasiati dei bambini che – purtroppo – si sono precipitati a tirar fuori dalle tasche gli smartphone per riprendere lo spettacolo, oppure le domande incuriosite dei turisti.

Il prode “Roma fa schifo”, come molti di questi tempi, vorrebbe una città che implode su se stessa, chiudendosi dentro casa impaurita persino da qualche centinaia di ragazzi che sfilano allegri per il centro, con cori e bandiere. Il prode “Roma fa schifo” è il prototipo della società futura: quella del vicino di banco che svela alla professoressa le tue malefatte – spesso inventandole per dar sfogo alla propria frustrazione o ai propri complessi di inferiorità – e ti pugnala alle spalle, cercando sempre di apparire lindo e pinto per avere un voto in più. Malgrado la sua povertà mentale ed esistenziale. Loro sono quelli che sputano merda sulla città e suoi suoi problemi. Perché cercare di risolverli richiede intelligenze e probabilmente porterebbe alla chiusura di un blog e una pagina Facebook tra i più vergognosi della rete.

Un piccolo appunto lo voglio fare proprio sulla versione 2.0 di molte genti. Come succede durante le partite o i concerti (persino durante i matrimoni e i battesimi) ormai spesso si bada più a tirar fuori il cellulare per riprendere l’evento invece di pensare a esser parte integrante dell’evento. E questa cosa un pochino spaventa, dà l’idea di quanto questi aggeggi ci abbiano resi un po’ tutti automi. Ed è anche difficile contrastare tale tendenza. Ce la faremo mai a fare un passo indietro e a educare le prossime generazioni al “fare” e non alla virtualità?

Alla mezzanotte il corteo si è spostato dal Pantheon a Via degli Uffici del Vicario, con il fumo di torce e fumogeni che ha – come di consueto – invaso la storica gelateria Giolitti. Partono anche dei fuochi d’artificio verso il cielo, mentre i tanti presenti trattengono il fiato per non inalare la dolce e romantica polvere della pirotecnica. In questi ultime settimane a Roma di diossina e fumi tossici ne abbiamo respirati a iosa, con i roghi che “casualmente” sono scoppiati nelle parti più periferiche della città (la lotta tra poveri è un’esigenza, mettiamocelo in testa). E allora se devo morire per questi, almeno respiro quelli che sin da bambino invece di soffocarmi mi esaltano. E poi ci sono le bandiere spazzarli lentamente via.

Mentre uomini, ragazzi, donne e bambini si abbracciano cantando un coro. E si emozionano ancora per un’idea, una fede, una sensazione di appartenere a qualcosa. I tifosi sono l’ultimo avamposto di aggregazione sociale in questi anni bui.

Nello stesso tempo anche i ragazzi del Circo Massimo si producono in una maxi torciata che forma un grande “90” ed è correlata dallo striscione “Dal 1927 illumini la nostra passione”. Chissà che effetto farebbe vedere Roma dall’altro in questo momento.

L’ultimo atto di una serata lunga e passionale si svolge sulle scale del Campidoglio, dove alla spicciolata giungono quelli presenti a Via degli Uffici del Vicario. Ci sono ancora torce e fumogeni e uno striscione che recita: “Roma è romanista”. 

Ecco, al cospetto di cotanto attaccamento e partecipazione sarebbe bello se anche la società organizzasse un qualcosa per celebrare questa ricorrenza. Perché, come dicevamo, per far incontrare i Torlonia e i portuali di Ripetta, c’è bisogno di un collante. Chi meglio della “casa madre” può fare ciò? Le spaccature che segnano l’ambiente romanista in ogni sua sfaccettatura sono probabilmente la più grande piaga che possa colpire, sminuire e disperdere tutta una base fatta di elementi positivi, grandi e belli. Basta poco, basterebbero dei piccoli passi indietro. O anche dei piccoli passi in avanti. Basta far sentire i tifosi parte integrante di quello che sostengono e per cui vivono. Basterebbe, per esempio, chiedergli se davvero gli va bene quello stemma. O se ritengono consoni i prezzi dei biglietti. Perché quando un’opera si realizza con una plurale partecipazione viene sicuramente meglio.

Ognuno ha sicuramente il suo ruolo. Ma la salvaguardia della fede, delle tradizioni e della storia deve rimanere nelle mani di chi questa l’ha resa possibile e in gran parte scritta. Non ci sono principi o portuali in tali situazioni: ci sono i sostenitori di una causa al di là di ogni differenza.

Simone Meloni