“Cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. Diceva il Perozzi, al secolo Philippe Noiret, nel celebre “Amici miei”. Dov’è la genialità nel raggiungere Barcellona passandro per Londra e tornando a Roma via Milano, concedendosi ovviamente anche sette ore di Intercity, il tutto concentrato in 72 ore? Beh, forse non c’è nulla di geniale, ma certamente il marchingegno che ti porta ad organizzare un tale spostamento non può esser attribuito a una mente normale. E questa non normalità non ha per forza un’accezione positiva, sia ben chiaro.

Ore quattro del lunedi mattina. Ecco suonare la mia sveglia. Le note di “Non son degno di te”, dell’onnipresente Gianni Nazionale, mi buttano giù dal letto ricordandomi che sta iniziando l’ennesimo tour de force di questa stagione. E lo dico francamente, spiegandolo più avanti, Barcellona non rappresenta esattamente la città, lo stadio, la squadra e la tifoseria che avrei sognato di avere al cospetto. Ma quando una cosa non ti piace, cerca almeno di renderla appetibile. Una volta una mia parente, di cui non faccio il nome, visto che ultimamente anche loro hanno preso il vizio di leggere le mie farneticazioni sportpeopoliane, mi cucinò un piatto di pasta davvero insulso. Non sapeva di nulla. Dai a buttarci su pecorino e una spruzzata di pepe. Almeno per renderla mangiabile. Diciamo che su questa trasferta cerco di buttarci su più pecorino possibile.

Per l’occasione sarò accompagnato da due sommi cugini, con tutta l’intenzione di fargli rimpiangere a vita la scelta di viaggiare con me. Diciamo che non è il periodo migliore per prendere aerei e frequentare luoghi sovraffollati. O meglio, la collettività lo pensa. Io credo, forse con fare diluviano, che siamo davvero dei piccoli escrementini insignificanti per presumere di sapere dove, quando e se attenteranno alla nostra vita. E allora vivo la mia, senza troppe ansie, senza rinchiudermi in casa al soldo dei Giletti di turno (al massimo sbavo di fronte a Giancarlone Magalli).

In realtà, la virata londinese è procurata da due ragioni: il costo assolutamente più basso dei biglietti aerei per raggiungere la Catalogna e la presenza di mio fratello in Gran Bretagna. E’ ovvio che ad una simile trasferta vogliano partecipare tutti, anche brucaccioni che fino a una settimana fa non sapevano neanche dell’esistenza del calcio e pensavano che Messi altro non fosse che la prima persona plurale del trapassato remoto del verbo mettere. Ma è così che va la vita, a tanta gente interessa più la grammatica che il pallone. Punti di vista. Sbagliati (i loro), ovviamente.

Dopo la giornata nella capitale inglese, il martedi mattina siamo pronti a partire alla volta della Spagna. Non pago dell’acqua presa copiosamente il sabato precedente in quel di Bologna, nel tragitto dall’ostello alla fermata del pullman vengo ovviamente investito da una fitta pioggia che mi bagna senza ritegno. Improperi e blasfemia tengono banco, soprattutto quando mi accorgo di aver sbagliato strada, rischiando di bucare clamorosamente l’appuntamento con fratello e cugini, ma riuscendo a riprendermi con una scorciatoia suggerita da Google Maps. Direi che la stanchezza già comincia a farsi sentire, e manco siamo partiti praticamente. Il pullman che viaggia fino a Stansted sarà solo uno dei tanti mezzi pubblici su cui dormiremo da veri zingaroni in questi due giorni.

Quanto meno l’arrivo all’aeroporto di El Prat è contraddistinto dalla presenza del sole che illumina il cielo azzurro. Almeno su questo siamo sicuri di non beccare più acqua e di veder definitivamente chiusi i rubinetti di Giove Pluvio. Dicevo, all’inizio, del mio rapporto con questa città. Era il 2004 quando venni la prima volta, si trattava di un campo scuola. Sapete, quelli dove vomiti come un canarino intossicato perché ti sei gonfiato di sangria oppure dove da grande uomo vissuto vuoi fare il fico acquistando il fumo sulla Rambla, salvo poi scoprire in hotel che ti hanno fregato rifilandoti un pezzo di gomma nero. Però devo dire che non rimasi colpito dalla città, nonostante la foto davanti a un sexy shop (di Rufoliana memoria) con la sciarpa del mio gruppo e quella di un manipolo di ragazzi della Curva Ovest di Lucca incontrati in loco.

Con gli anni poi ho maturato una sincera antipatia per il calcio spagnolo e in particolar modo per il Barcellona. Se la vediamo dal punto di vista prettamente calcistico sarò pure impopolare, ma io la penso così: detesto il modo di giocare dei blaugrana. Sono la squadra più forte al mondo, non ci piove. Ma li trovo davvero noiosi e strazianti. Se poi analizziamo cosa rappresenta il Barça, allora entriamo in un vortice davvero infinito. Lasciamo stare il passato e l’immagine di squadra anti-potere, che nell’immaginario collettivo si è sempre schierata contro il centralismo madrileno o la dittatura Franchista (e qui comunque bisognerebbe fare un altro approfondimento, quello sulla Catalogna, ricchissima regione della Spagna che forse troppo spesso ha avanzato pretese di autonomia in virtù di presunte diversità culturali e tradizionali, che assomigliano molto più a quelle regionali italiane, soprattutto se confrontate con i Paesi Baschi, ad esempio, dove esiste una lingua diversa a tutti gli effetti).

Guardiamo al presente. L’FC Barcellona, assieme al Real Madrid, è la principale causa della morte del movimento calcistico spagnolo. Una vera e propria macchina mangia tutto, dai tifosi ai diritti televisivi, che ha tolto qualsiasi interesse a un torneo come la Liga. Questo mi sembra un dato di fatto alquanto ineluttabile. Ecco, quando si parla di “calcio moderno” preferisco sempre defilarmi dal discorso, perché in fondo chi decide quando inizia il calcio moderno? Per i tifosi dell’Andrea Doria, della Sampierdarenese, dell’Alba, del Roman o dell’Internazionale di Torino quello successivo alle fusioni delle proprie squadre sarà stato calcio moderno, o sbaglio? Però se vogliamo proprio accostare questo termine a qualcosa o qualcuno, io mi sento di farlo con il Barcellona: dai suoi giocatori impomatati e sempre precisi davanti alle telecamere, al suo tifo “politically correct” (ottenuto con una repressione degna del miglior Prefetto Gabrielli), al suo strapotere economico.

Così come una triste riflessione va fatta sul target di tifosi che segue le sorti del club. Sin dall’aeroporto di Stansted ho modo di vedere orde di inglesi e polacchi con sciarpe e maglie blaugrana addosso. Mi chiedo sempre come si faccia a tifare una squadra che, non solo non è della propria città, ma è persino localizzata in un altro Paese? Per me il calcio è identità, vanto della propria terra e sanò sfottò campanilistico. Troppo facile poi andare dietro a chi vince sempre. Ma del resto questo è soltanto un assaggio di ciò che tristemente vedranno i miei occhi all’interno del Camp Nou.

Accompagnato mio fratello in hotel ci dirigiamo prima a mangiare. Ovviamente non ci facciamo mancare le “tapas”, una sorta di antipasto misto con diversi piatti della cucina iberica, in un locale “che è uno schifo, poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo”, dove alloggiano beati diversi disagiati locali che davanti a numerose birre Estrella rimirano la loro vita ripensando forse ai dì che furono.

Non può mancare ovviamente il classico giro alla Sagrada Familia e poi a Plaza di Catalunya, dove sono già raggruppati tantissimi tifosi romanisti. Fa strano notare come in una città potenzialmente pericolosa nessuno osi neanche provocare i tifosi ospiti. Sì, è vero che per strada un ragazzotto ha abbassato il finestrino gridandomi “Cabron, cabron, Barça campeon!”, ma si tratta davvero di un’inezia. La città, dal punto di vista del tifo, è letteralmente morta. In giro si notano più esponenti nipponici o forestieri con maglie blaugrana che gente del posto. Davvero una tristezza infinita. Certo, anche su sponda romanista, come detto, si sono uniti un po’ tutti e, come sempre in queste occasioni, quantità farà rima con poca, pochissima, qualità.

Altro fatto che mi sorprende, questo in positivo, è la presenza tutto sommato contenuta di polizia e agenti in tenuta anti sommossa. Sappiamo un po’ tutti che la Spagna non è esattamente il Paese da tenere in esempio se si parla di buon senso e civiltà dei propri gendarmi (un po’ come da noi), e in un periodo come questo dove la psicosi da attentato la fa un po’ ovunque da padrona, mi sarei aspettato una città molto più militarizzata. Ma evidentemente sono abituato male a Roma, forse (e ripeto forse) qua l’intelligence agisce in altro modo e anziché dare in pasto all’opinione pubblica l’immaginetta linda e folkloristica dell’Alpino sotto la metro, lavora dietro le quinte per scongiurare guai peggiori.

Quando l’orologio segna le 18,30 decidiamo di incamminarci verso lo stadio. Non mi sfuggono però le indicazioni per il quartiere Sarrià. Non dovrebbero sfuggire a nessun italiano amante del pallone. Qua Paolo Rossi scrisse la storia, nel vecchio stadio dell’Espanyol, impallinando ben tre volte in fenomenale Brasile dei Falcao e dei Socrates, e trascinando gli Azzurri alla semifinale (disputata al Camp Nou e vinta contro la Polonia di bomber Lato) di quei mondiali di Spagna ’82 che alla fine ci videro vittoriosi. Nota a margine: oggi al posto di quello storico impianto, demolito nel 1997 per vendere il terreno e risanare pesanti debiti del club, sorge un asettico centro commerciale, eretto dalla ditta di costruzioni Nunez Y Navarro, di proprietà dell’ex presidente del Barcellona (strana coincidenza eh?).

Scendiamo nel sottosuolo barcellonese, dovo ognuno supera i tornelli della metro come meglio crede. Chi zompettando a mo’ di cavalletta e chi abbracciando l’amico fraterno. Il viaggio dura poco meno di mezz’ora, ed una volta usciti siamo a pochi passi dallo stadio. Il quartiere dove sorge appare abbastanza tranquillo e mi ricorda, per certi tratti, quello che ospita il “Barbera” di Palermo. Ci incamminiamo verso il Camp Nou che, non posso negarlo, suscita la mia curiosità. Sebbene, come avrete capito, non abbia in simpatia tante, troppe, cose del Barcellona, stiamo pur sempre parlando di uno degli stadi più storici e importanti del Vecchio Continente. Con i suoi 99.354 posti, detiene il record di grandezza in Europa e fa abbastanza impressione pensare che durante i mondiali del 1982 la sua capacità venne ampliata a ben 121.000 .

Inaugurato nel 1957, sostituì lo stadio di Les Cortes, vecchia casa del Barça. Nonostante dal punto di vista del fascino sia sicuramente attraente, c’è anche da dire che oggi, con i suoi prezzi esorbitanti non offre assolutamente servizi consoni. Un esempio su tutti: per il settore ospiti i tifosi della Roma hanno pagato oltre 50 Euro, venendo schiaffati al quarto anello con il campo visibile soltanto con il binocolo. E se avesse piovuto, si sarebbero sorbiti anche l’acquazzone senza colpo ferire, visto e considerato che, salvo la tribuna stampa, tutto il resto dell’impianto non è provvisto di copertura. Diciamo che se venisse gestito genuinamente e gli fosse concesso di conservare passione, tifo e calore come un tempo, mi piacerebbe anche, visto i suoi tratti vetusti e decadenti, ma dato che viene gestito e venduto come un gioiellino, quando di fatto è una comune pietra grezza in mezzo a tante altre, allora il mio punto di vista è differente.

Un siparietto da segnalare è quello che mi accade prima di entrare. Per giocare con mio cugino intono alcuni cori di una nota tifoseria italiana, fin quando un ragazzo con la sciarpa blaugrana mi ferma chiedendomi se davvero appartenga alla curva in questione. Io ovviamente annuisco e lui mi dice: “Grande, allora siamo gemellati!”. Mi limito a guardarlo perplesso e andarmene, pensando a quanto sia triste andare allo stadio con i colori di un club che non ti appartiene minimamente e per nessuna ragione.

E’ arrivato il momento di ritirare l’accredito ed entrare. Mancano 45′ al fischio d’inizio e intuisco che per salire in tribuna stampa ci vorrà un po’ di tempo, vista la grandezza dello stadio e soprattutto il posizionamento della stessa: all’ultimo anello. Passato il primo prefiltraggio, con tanto di metal detector ma perquisizione tutto sommato blanda, supero anche una sorta di tornello più avanti. Prima della gara avevano annunciato imponenti misure di sicurezza, devo dire che ho visto di peggio. Soprattutto a Roma. Mi è sembrato tutto nella norma di un qualsiasi stadio italiano, il che dovrebbe far riflettere in tanti. Qua non hanno frapposto barriere e divisori pericolosissimi in caso di evacuazione. Ma del resto non c’è neanche bisogno di dirlo, mi rendo conto che soltanto da noi l’idiozia di alcuni automi preposti a prendere tali decisioni è un punto inarrivabile per chiunque, anche per i colleghi spagnoli che certo non scherzano in fatto di durezza e repressione.

Più vado avanti e più risalta ai miei occhi il vecchiume tipico dei nostri stadi sovrastato da impalcature, insegne e strutture nuove messe là probabilmente nell’ultimo decennio. Arrivo finalmente a destinazione. Anche per me il campo è abbastanza lontano, mentre lo stadio a pochi minuti dal fischio d’inizio è semivuoto, come da tipica usanza dei tifosi spagnoli che fanno il proprio ingresso proprio a ridosso dell’inizio (c’è bisogno che dica cosa penso di questa usanza? Non mi fate essere cattivi, altrimenti debbo scrivere male anche della panolada, della “ola” e di altri usi e costumi iberici). Davanti a me ci sono i circa 3.500 tifosi della Roma, mentre alla mia destra, in basso, la curva di casa, dove spiccano gli striscioni degli Almogarves e dei Supporters Barcelona.

Ora, concedetemi un pensiero solo sulla curva e su quello che dovrebbe essere il settore degli ultras. Prima di fare qualsiasi ironia, bisogna dire che lo storico gruppo al seguito del Barça, i Boixos, è stato letteralmente cacciato dalla dirigenza La Porta. Rappresaglie, colpi bassi e comportamenti che non si augurano a nessuno, come le perquisizioni squadriste dei Mossos d’Esquadra (la polizia catalana) e la classica strumentalizzazione di ogni singolo episodio compiuto dagli ultras. Mettiamoci poi che il movimento ultras spagnolo non è certo dei più forti e longevi, ed è facile capire come per la presidenza sia stato facile fare piazza pulita. Trattandosi di società ad azionariato (evito il termine “popolare”, perché qui di popolare non c’è manco l’aria che respiri) è un qualcosa che da una parte si può fare (ovviamente con la maggioranza), basti vedere la situazione, per certi versi analoga, sorta a Madrid, sponda Real.

Quando le due squadre stanno per entrare in campo tutto lo scenario cimiteriale del Camp Nou mi si prospetta sovente. Il gruppetto in basso che tenta di fare tifo è composto all’incirca da 150 persone, con qualche tamburo e delle bandiere. E’ paradossale appurare come uno dei club più titolati del mondo possa contare su una curva che numericamente è ai livelli di tifoserie che da noi girano in Serie D ma anche in Eccellenza. Nonostante la nostra decadenza conclamata, posso tranquillamente affermare che da queste parti sono ancora indietro anni luce. Ma la cosa che davvero mi fa più impressione è la passività con la quale l’intero stadio segue la partita. Non un sussulto, non un fischio (salvo quelli all’inno della Champions, causato da presunti divieti di ingresso per bandiere Catalane voluto dalla Uefa), non un gesto di vita. Di tanto in tanto qualche coro per Messi e innumerevoli, quelli sempre attivi e pimpanti, smartphone accesi per fotografare i giocatori e farsi selfie da postare su Instagram.

Sul 6-0 per i padroni di casa sembra quasi che il Barcellona stia perdendo, senza contare i numerosi spettatori che già sul 4-0 decidono di abbandonare lo stadio per non trovare traffico. Davvero tutto molto triste. Un ambiente che secondo me è anche sbagliato paragonare al teatro, luogo dove comunque ci si diverte, si applaude e si scambia quattro chiacchiere con il vicino. Se questo deve essere lo stadio del futuro, beh permettetemi di dire che nel futuro il calcio se lo potranno seguire giusto i sofisti o i radical chic da quattro soldi, perché perderà l’intera essenza del suo essere. Insomma, vincere è bello, ma vincere in questo mortorio…che senso ha? Se posso dare una definizione: il più brutto ambiente mai vissuto in uno stadio di calcio.

Ovviamente gli unici cori che si sentono per tutta la gara, se si fa eccezione per i pittoreschi sussulti della curva di casa, sono quelli dei tifosi romanisti. E si badi bene, non stiamo certo parlando di una prestazione maiuscola. Come accennato in precedenza, la presenza di tanti gitanti che mai hanno messo piede in un settore ospiti, ha inficiato e non poco il compito di lanciacori e coordinatori del tifo. Così è la parte centrale ad orchestrare il sostegno all’undici di Garcia, aiutata di tanto in tanto dai gruppi posti più alle estremità.

Di certo neanche il risultato è clemente con i tifosi capitolini. Se alla vigilia si poteva prospettare una probabile vittoria catalana, altrettanto non si può dire per la svogliatezza e l’evanescenza con cui la Roma scende in campo. E chiaramente, avendo di fronte dei veri e proprio extraterrestri, la sconfitta non si limita a una semplice battuta d’arresto, ma a una vera e propria debacle. Un 6-1 che, anche considerata la forza dell’avversario, suona come l’ennesima umiliazione in campo europeo per i giallorossi. E allora sì, in questo caso, da salvare ci sono soltanto i tifosi che, malgrado tutto, si fanno sentire per tutti i 90′ esultando goliardicamente nel finale all’inutile gol di Dzeko.

Quando arriva il triplice fischio del direttore di gara, buona parte dello stadio ha già sfollato. Io attendo qualche minuto e poi scendo al secondo anello, per fotografare il Camp Nou vuoto, in un’immagine certamente suggestiva. E’ l’ultima della mia permanenza al suo interno. Arrivano gli steward e cordialmente mi dicono che stanno chiudendo, invitandomi ad uscire.

La mia giornata barcellonese sta per arrivare al termine. Dell’ambiente, dell’atmosfera e delle sensazioni spero di avervi dato conto e spero di non esser stato troppo critico e settario. Se così fosse stato cercate di capirmi. Tutto quello che ho visto e provato viaggia esattamente in direzione contrario alla mia concezione di calcio e di stadio.

Recupero i miei familiari e ci portiamo di nuovo in metropolitana. Eccezion fatta per mio fratello, a me e i miei cugini attende una nottatina niente male. Prima bus notturno per l’aeroporto e poi attesa del volo per Milano la mattina successiva, con ultimo spostamento verso Roma da effettuare in treno. Ma non c’è problema, tutto questo fortifica il sangue ed abitua al viaggio perpetuo. Quello a cui dovrebbe aspirare ogni tifoso. Ma è anche vero che oggi si è perso quell’essere nomadi che oltre a farti spostare senza problemi, ti faceva sognare ad occhi aperti mentre il treno o il pullman viaggiavano spensierati.

Nel 2004, sempre ai tempi di quel famoso campo scuola, tornai in Italia esclusivamente con materiale dell’Espanyol, mosso solo dalla volontà di non emulare tutto quello che facevano i miei compagni di classe. Oggi torno a Roma attendendo di sedermi sull’Intercity per aprire un paio di Tennet’s con i miei compagni di viaggio e cazzeggiare allegramente per altri 600 chilometri. Perché questa è la storia da raccontare, chiara nella mia mente sin da subito. Non c’è viaggio senza ricordi e senza frammenti da tenere per sempre nella mente. Alla prossima.

Simone Meloni