La stagione volge al termine. Il caldo comincia a far sul serio. Le ultime emozioni che ruotano attorno al pallone stanno per calare il sipario, ma saranno quelle più forti. In grado di far sobbalzare anche i più freddi calcolatori e i cuori più aridi.

Benevento è la meta di questo giovedì di giugno. Il solito carro bestiame su rotaia mi accompagna fin oltre il Garigliano per poi cambiare ad Aversa e inerpicarmi dentro la radura boschiva della Valle Caudina. Viaggiare in questo periodo sui fetidi regionali Trenitalia equivale a fare un salto all’indietro di almeno vent’anni. Tutti sono muniti di giornale o ventaglio per cercare di allontanare l’afa che si crea all’interno di questi mezzi privi di aria condizionata e spesso dotati di finestrini rotti. Vere e proprie trappole per topi.

Eppur si muove. Eppur mi muovo, per meglio dire.

Benevento sembra assistere silente a questo pomeriggio pre gara. Le sue vie sono in parte già imbandierate e quasi tutti percorrono le strade con magliette e sciarpe giallorosse. Ma senza proferire verbo. Senza parlare di calcio o di Serie A. La scaramanzia è un valore profondamente infuso nella mente dei tifosi, per questo osservo con una certa sorpresa i “necrologi” che annunciano la morte sportiva del Carpi. Ricordo quanto odiassi simili cose prima di una gara decisiva e quanto – in caso di disfatta – le ritenessi fondamentalmente complici della stessa.

È curiosa la genesi di una città che ha visto sconfitte ripetute, quasi sistematiche, nei momenti cruciali del proprio calcio e ora, come d’incanto, si trova a un passo dalla massima categoria dopo un solo anno di Serie B. Quella cadetteria agognata, sfiorata numerose volte e persa nelle maniere più sconsiderate e dolorose oggi rischia di essere un semplice punto di passaggio per un approdo che neanche il più ottimista dei tifosi sanniti avrebbe immagino fino a pochi mesi fa.

Attraversato il ponte sul Calore raggiungere il centro storico è un gioco da ragazzi. Laggiù la frenesia di ragazzi e ragazze adornati con vessilli giallorossi si manifesta ancor più palese. Si tenta di esorcizzare la tensione cantando, benevndo e ascoltando musica. Ma il pathos si avverte chiaro e con il passare del tempo diviene come una coltre di nubi sempre più opprimente, in grado di togliere l’aria e asfissiare Benevento tutta. Anche chi non segue il calcio. Persino chi lo odia.

Li chiamiamo occasionali, ma devo dire che in questi casi anche loro sono parte integrante di un meccanismo che tramuta un mero sport di squadra in una liturgia popolare.

Ore 17, è il momento di avviarsi verso il Santa Colomba. Ad ogni metro percorso la folla di gente si fa sempre più fitta, fino ad arrivare ai cancelli dove una fila chilometrica attende l’apertura programmata per le 17.30. Sono stati venduti circa 15.000 tagliandi, vale a dire tutti quelli a disposizione (anche grazie alla riapertura della Curva Nord) mentre ufficialmente a Carpi i tagliandi staccati sono 220. Anche se a occhio nudo mi permetto di dire che i supporter emiliani saranno qualcosa in meno.

Fa caldo e, come avviene sempre in queste occasioni, chi attende sotto il sole cocente gronda sudore da ogni poro, maledicendo tutto e tutti. Ciononostante – per una volta devo dirlo – l’afflusso viene gestito in maniera molto intelligente. Non ci sono superuomini a controllare con troppa meticolosità e invadenza gli spettatori e di tanto in tanto la gente viene fatta passare a blocchi. L’apertura anticipata dei cancelli, poi, fa sì che in un’oretta si smaltisca praticamente tutta la ressa, permettendo a chiunque di entrare senza grandi problemi problemi dalle 18.30 in poi (vale a dire la maggior parte dei tifosi, essendo un giorno lavorativo).

I tifosi seduti sulle gradinate, quelli che passeggiano ansiosamente avanti e indietro nell’antistadio e le bandiere che sventolano già due ore e mezza prima del fischio d’inizio rimandano indietro di qualche anno. Ripenso a quando una partita importante, cruciale per la storia e la stagione di un club, assumeva un significato omnicomprensivo. In grado di avvolgere tutto e tutti. Il pallone ha perso talmente tanto di quel suo fascino magnetico che avevo persino dimenticato come fosse possibile e bello usare uno stadio come un bar dove svolgere il proprio, personale, “Sabato del villaggio”. In attesa di una domenica che potrebbe essere ricordata da generazioni e generazioni.

Bambini che mangiano, signori che parlano tra loro, ragazzi che scherzano. Il tutto mentre qualcun altro è impegnato a preparare la coreografia, disponendo barattoli di fumogeni gialli e rossi in tutta la curva. Un grande centro d’aggregazione a cielo aperto: fondamentalmente questo è lo stadio.

E attenzione signori miei, non parlo di ultras. Sebbene di fondo siano loro il collante di tutto ciò. Ma parlo di qualcosa di ancor più grande: l’aggregazione spontanea sulle gradinate. In realtà non è mai morta o scomparsa. È come il germoglio di una pianta sotto alla città industrializzata. Provate a lasciare uno spazio urbano incustodito o in balia degli eventi: a breve giro di quadrante rivedrete sorgere alberi e piantagioni. È la natura. Esattamente come la natura dell’essere umano è quella di stare assieme, interagire e brindare in nome del proprio senso di appartenenza.

Rientriamo nei ranghi e poniamo l’accento sulla partita che si fa prossima. Con il Santa Colomba praticamente già pieno un’ora e mezza prima della partita, partono i primi cori. Qua e là spuntano torce e fumogeni, a segnale che oggi un po’ tutto sarà tollerato.

Certo, sempre per essere sinceri, il pubblico beneventano ci ha spesso abituato a numeri ben al di sotto di questi e spesso, anche nei momenti cruciali, ci si è trovati al cospetto di una tifoseria che non è riuscita ad esprimere un potenziale ragguardevole. Così come va detto che se in generale l’ambiente di questa serata merita un plauso, a livello prettamente di tifo si sarebbe potuto/dovuto fare molto meglio.

È altresì vero che questo doppio balzo in avanti consentirà di acquisire tanti tifosi, i quali magari si affezioneranno ancor più alla squadra della propria città, portandone avanti il nome e i colori anche negli anni a venire. Perché i risultati nello sport non sono tutto – è vero – ma al di fuori della concezione ultras (tifare ed esserci al di là del risultato e della categoria) contano eccome, per formare una comunità assidua e allargarne le fila.

Vi pongo una domanda, per rispondere alla quale ovviamente c’è bisogno di contestualizzare i momenti storici e i cambiamenti sociali del nostro Paese: se negli anni settanta e ottanta squadre come Catanzaro, Cesena, Pisa, Ascoli e via dicendo, non fossero state costantemente in A, raggiungendo anche ottimi risultati, siamo sicuri che oggi avrebbero quel seguito massiccio e cospicuo che tutti gli riconosciamo? Forse sì, ma forse no.

E qua entriamo nella complessa spirale ultras. L’ho già detto altre volte in cui mi sono trovato a queste latitudini: una realtà come quella giallorossa dovrebbe sicuramente trovare la quadratura del cerchio unendosi. Il proliferare di gruppi e gruppetti in ogni angolo dello stadio non aiuta certo al tifo e alla compattezza e spesso il risultato è sotto gli occhi di tutti. Basti pensare alla Curva Sud di questa sera: maestosa e bellissima nella fumogenata di inizio gara e nella torciata del secondo tempo, ma troppo frammentata e sterile nel tifo complessivo dei 90′. I gruppi posti sui due anelli spesso si sovrastano con i cori e la gente posta più ai lati credo che rimanga un pochino interdetta su chi e cosa seguire, finendo così per non cantare o cantare a tratti.

Con un simile stadio (che in Serie A farà la sua figurona, basti pensare ad altri impianti della massima categoria) e l’ottimo, oltreché prosperoso, progetto sportivo di Vigorito, un tifo organizzato capillare e omogeneo sarebbe senza dubbio la ciliegina sulla torta. Con il rispetto di quei 40/50 che costantemente hanno seguito la Strega ovunque e che oggi – più di tutti – meritano questo traguardo.

Per affrontare la A ci sarà bisogno di crescere come club e come tifoseria. Questo è ovvio, soprattutto se non si vuol diventare una meteora di passaggio come ormai succede sovente in questa epoca contemporanea, che regala gioie e sogni con la stessa facilità con cui dispensa fallimenti e delusioni. Oltre che radiazioni e retrocessioni arbitrarie.

È cambiata la geopolitica del calcio probabilmente e in queste annate stiamo assistendo a promozioni di club che tradizionalmente siamo stati abituati a vedere in altri palcoscenici. Tifoserie che spesso – non me ne voglia nessuno – trovano una certa idiosincrasia con la massima categoria. Sia come bacini d’utenza che come approccio. Lungi da me fare il Lotito della situazione, chi mi conosce sa bene che nel mio calcio preferito la provincia supera di gran lunga le metropoli. Però c’è anche da chiedersi quanto sia salutare che i grandi blasoni del nostro pallone vengano spesso lasciati morire e agonizzare in un angoletto remoto, senza che nessuno se ne prenda cura.

Se poi tutto ciò avviene ad appannaggio di club artefatti che giocano in stadi al di fuori della propria città, hanno una media spettatori da Eccellenza e puntano tutto sulla mistificazione delle notizie e dei dati sull’affluenza allora dobbiamo davvero farci il segno della croce ed osservare il tutto in silenzio.

Beninteso che il mio discorso non è riferito nello specifico al Benevento. Anzi, almeno a livello di mezzi e, potenzialmente, di pubblico, i sanniti possono affrontare senza problemi l’attuale Serie A.

Magari qualche riserva in più ce l’avrei avuta sul Carpi. E pure qua non mi riservino rancore i biancorossi. Ho per anni apprezzato e stimato la loro tifoseria (e stimo ancor chi ha avuto il coraggio e la passioni di portar avanti la carretta anche nei peggiori momenti). Me li ricordo in D e in C, sempre e comunque in prima linea a tifare e presenziare per difendere una tradizione ultras che – nel loro piccolo – merita soltanto rispetto. Me li ricordo a Pianura, qualche anno fa, in una clamorosa semifinale Playoff di Serie D dove i campani riuscirono a ribaltare il 5-0 dell’andata vincendo per 8-2. In quella giornata segnata da un incredibile diluvio, dall’Emilia giunsero un’ottantina di tifosi: orgogliosi e cazzuti. Diremmo per completezza.

Sempre per completezza c’è da dire che i numeri portati in questi Playoff per andare in A sono proporzionalmente più bassi rispetto a quella strana partita di Serie D. I 68 di Frosinone, i 170/180 di Benevento: mi sia consentito, ma non sono numeri giustificabili. È vero che la partita si è disputata in mezzo alla settimana, ma è pur vero che Carpi – nel suo essere un centro di provincia – conta pur sempre 71.000 abitanti e nella normalità delle cose, una promozione in A, un campionato disputato dignitosamente in massima serie e questi spareggi per tornarci nuovamente, dovrebbero creare entusiasmo. Chiaro che nessuno si aspettava mille supporter biancorossi, ma la cosa di cui sono rimasto stupito è che al di fuori dei gruppi ultras, i carpigiani sembrano non poter contare sul seguito di quel tifoso medio che, generalmente, è pronto a muoversi e sacrificarsi in occasioni storiche come queste.

Questo è un mio personalissimo parere. Posto che a livello di tifo c’è davvero ben poco da rimproverare ai tifosi ospiti di questa sera, che sin dall’ingresso hanno fatto ampio sfoggio delle proprie bandierine a scacchi, dando vita a un supporto canoro costante e praticamente mai statico, mettendosi poi in mostra nel finale – quando il risultato era ormai compromesso – con una bella sciarpata, protrattasi anche dopo il fischio finale. Quando il Santa Colomba stava ormai ampiamente festeggiando.

E con questo ritorno proprio sui tifosi giallorossi. Le prime fasi di gioco mettono i brividi, con gli uomini di Castori che sembrano intenzionati e in possibilità di tirare un brutto scherzo. Al Benevento tremano le gambe. Ma ci pensa Puscas, uno degli eroi di questa stagione, a mettere le cose in chiaro siglando il gol dell’1-0. Che sarà anche il risultato definitivo.

Al triplice fischio scoppia la festa. Benché questi malefici marchingegni del calcio moderno tentino in tutti i modi di rovinarla: musica sparata in alto e premiazione forzata smorzano un po’ il grido liberatorio del pubblico. Ma nulla possono contro l’invasione finale che – sarà pure anti estetica, sarà pure troppo folkloristica – ma rimane una delle cose più bella di questi momenti, a mio modo di vedere. Bambini e ragazzetti che premono per entrare sul manto verde; perché per loro è come toccare per qualche secondo i propri idoli. È come realizzare il sogno di essere per qualche minuto Ceravolo o Puscas.

Buon senso vuol dire anche questo: non lasciar tramortire i sogni a chi spesso, nella vita di tutti i giorni, li deve riporre in un cassetto per far spazio alla triste realtà lavorativa e a volte sociale dell’Italia.

L’invasione del Santa Colomba non è che il prologo ai bagordi che da lì a poco si consumeranno per le strade fino all’alba. Torce, fumogeni, fuochi d’artificio, balli e canti in tutte le piazze. Non solo nella tipica Piazza Risorgimento. Anche capitan Lucioni non si farà sfuggire l’occasione di aprire 3/4 bottiglie di champagne nei locali del centro, braccato come una divinità dai tifosi.

Lascio una Benevento che è ancora ampiamente in tilt. Ci vorranno giorni, forse mesi, a smaltire la sbornia. Mi sa che per una volta la domenica che è venuta dopo “Il sabato del villaggio” è stata più soddisfacente e bella dell’attesa.

Testo di Simone Meloni.
Foto di Salvatore Izzo e Simone Meloni.

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