La vita di un ossessionato di calcio, ma anche di qualsiasi altra cosa, è scandita da momenti ben definiti.

Attimi indelebili che vanno da eventi oggettivamente rilevanti come la prima partita allo stadio, la prima trasferta, uno scudetto vinto dalla propria squadra, a istantanee di momenti che qualsiasi persona normale riterrebbe trascurabili, come una traversa colpita da un giocatore anni prima in una partita insignificante, lo strambo gesto di un tifoso in un determinato momento – vidi un signore di una certa età spalmarsi in testa un Cornetto Algida per festeggiare un gol – o la formazione della propria squadra in una specifica partita di molti anni prima.

Aver visto dal vivo una partita del Celtic, al Celtic Park, appartiene senza dubbio alla categoria ‘A’, e fa parte di quella lista di desideri reconditi propri di molti amanti del pallone. L’occasione è una sfida piuttosto affascinante a livello di campo, l’andata di un preliminare di Champions League, e un po’ meno per quanto riguarda la tifoseria ospite, in questo caso una cinquantina di kazaki, per lo più bambini, che hanno raggiunto Glasgow per seguire le gesta dell’Astana.

A rendere tutto più complicato c’è il motivo per cui mi trovo in Scozia, ovvero una vacanza con la mia fidanzata che ignora con fermezza tutto ciò che riguarda anche solo lontanamente il calcio, e si trova coinvolta a tradimento – e sotto la pioggia battente – in questa gita nei sobborghi di Glasgow. A dire il vero ero prevenuto in senso positivo rispetto a questa esperienza. Da sempre, infatti, sono attratto magneticamente dagli Hoops, e da che ho memoria calcistica ricordo di aver voluto seguirli dal vivo. La realtà, però, ha superato di gran lunga ogni più rosea aspettativa e cercherò in questo racconto di non tralasciare neanche un’emozione delle tante che ho provato prima e durante lo sfavillante 5-0 degli uomini di Rodgers.

Per motivi che non meritano spiegazione tra queste righe, decido di raggiungere la lontana Scozia via treno, partendo da Roma Termini. Da lì un Frecciarossa per Milano e poi una cuccetta da quattro per raggiungere Parigi. Proprio a Gare De Lyon, aspettando di imbarcarmi per il Parigi-Londra che di lì a poco avrebbe solcato l’Eurotunnel che perfora la Manica, distrattamente apro Diretta.it (un must per i calciofili) per dare un’occhiata al programma delle partite della settimana e lì, come una benedizione, adocchio un’andata di preliminare di Coppa Campioni in programma al Celtic Park l’indomani. Senza illudermi troppo, ero quasi certo che lo stadio fosse sold out, mi fiondo sul sito del Celtic e dopo un paio di click la scoperta: si può fare. Pare che in un cantuccio accanto al settore ospiti sia avanzato qualche posto, quindi inizio la procedura on line per comprare due biglietti.

Ora, un’avvertenza. Questo articolo è scritto da un tifoso di calcio italiano e verrà letto, probabilmente, da altri tifosi di calcio italiani. Non è fantascienza ciò che state per leggere, non vi è alcuna esagerazione ed è tutto assolutamente vero. Credetemi. E disperatevi per come siamo ridotti nel nostro bel Paese, io l’ho fatto.

Il sito della squadra è molto intuitivo e in 7 minuti e 44 secondi (sette e quarantaquattro!), senza dover faxare, inviare o scannerizzare alcun documento, concludo l’acquisto di due tagliandi e nel giro di due minuti ancora trovo nella mail il pdf con i due biglietti. In dieci minuti scarsi, quindi, da una stazione di Parigi, ho portato a termine un’operazione che per una partita all’Olimpico di Roma potrebbe impegnarmi per giorni, far grandinare bestemmie e spedirmi alla ricerca di una stampante con scanner funzionante.

Felice come un bambino salgo sul treno per Londra, e da King’s Cross mi imbarco in un regionale che in poco più di quattro ore mi porta a Glasgow. La città è molto britannica, certamente meno bella di Edimburgo ma con una sua logica. Da ossessionato, ovviamente, cerco di scorgere segnali di football in ogni singolo luogo che visito ma rimango deluso. Gli scozzesi, a quanto pare, sembrano addirittura occuparsi dei loro lavori e, con mio sommo e ridicolo stupore, mi rendo conto che a nove ore dalla partita le persone riescono ancora a pensare ad altro. L’unico segnale lo trovo nel pub dove pranzo; un cartello che recita “no football colours allowed” – non è permesso entrare con i colori di alcuna squadra – sovrasta il bancone del bar e la dice lunga su come, in città, il clima tra biancoverdi e lealisti in blu sia eternamente teso.

La giornata scorre tranquilla e, verso le 18 locali, sotto ad un diluvio torrenziale, prendiamo un taxi che dalla stazione di Charing Cross ci porta allo stadio. Il Celtic Park si trova nella zona ovest della città ed è la più classica delle cattedrali nel deserto. Nelle vicinanze si nota una schiera infinita di villette e un Mc Donald’s, oltre ai classici porchettari (chiedo scusa, non riesco a definirli in altro modo).

Il clima è sempre più impervio e il taxi ci scarica nelle vicinanze della tribuna più costosa, per intenderci la Monte Mario dello Stadio Olimpico. In questo esatto momento, l’immagine della mia ragazza che, avvolta nel suo impermeabile, cerca di ripararsi dalle folate di vento che arrivano impietose, rannicchiandosi su se stessa, avrebbe potuto, anzi, dovuto impietosirmi ma, con enorme vergogna, l’entusiasmo è troppo grande e sta raggiungendo livelli inesplorati.

Nonostante il mio “io” bambino avesse ormai preso il sopravvento ho iniziato a cercare un punto coperto dove trascorrere l’ora che ci separa dalla partita. Dopo pochi metri, un signore di una certa età in giacca e cravatta mi fa un cenno e, dopo essermi avvicinato, mi indica una fila composta da una ventina di persone la cui testa si affaccia a pochi centimetri da un luminoso, caldo, salone che ha tutta l’aria di essere un lounge riservato a chissà quale ospite d’onore.

Dopo pochi minuti di fila, arrivati davanti ad un inesorabile rifiuto, la sorpresa: il Celtic mette a disposizione dei tifosi in possesso del biglietto della gara – di qualsiasi settore e prezzo – un enorme salone dotato di una serie di bar e una miriade di tavoli da dieci posti, dove gli appassionati possono bere – e lo fanno, senza dubbio – nell’attesa della partita. La moquette è un trionfo di stemmi della squadra e le pareti sono rese verdi da un numero indefinito di riflettori. Il clima nella sala è esaltante. Un cantante scandisce i versi di canzoni della tradizione irlandese e i tifosi cantano, ballano, si abbracciano, mentre sui vari schermi scorrono le immagini del riscaldamento della squadra. Non vi sono steward né poliziotti; la famiglia biancoverde sa gestire la sua gente, e lo fa nel migliore dei modi.

Tante sono, infatti, le famiglie al completo, dai nonni ai nipotini, impegnate solo nel godersi il momento e nel brindare agli amati Celtic, il che suona ironico se pensiamo agli slogan, tutti i italiani, con cui gli opinionisti del mondo del pallone si riempiono continuamente la bocca, perché per “riportare le famiglie allo stadio” i club dovrebbero cambiare completamente il loro approccio agli eventi e il loro comportamento nei confronti di quelli che, alla fin fine, sono i loro clienti. Io nel frattempo sono completamente ubriaco di questo ambiente: il salone è letteralmente accogliente, i tavoli sono belli così come lo sono le sedie. I muri verdi sono affascinanti e i tanti bar ti ricordano che sei nel Regno Unito. I tifosi di calcio, quando vengono trattati da essere umani, sono belli.

Allo stadio Olimpico di Roma esiste un salone analogo, o per meglio dire un lounge freddo ed elegante dove la società ospitante – Roma o Lazio, a seconda delle domeniche – organizza il buffet che viene servito nell’intervallo e al quale possono accedervi solo gli invitati. Mi è capitato di frequentarlo in un paio di occasioni e la cosa più interessante che ricordo è l’aver visto l’attuale presidente della Sampdoria masticare a bocca aperta un tozzo di non ricordo cosa. Uno spettacolo edificante. È tutta qui la differenza: a Roma, come probabilmente nel resto d’Italia, devi essere un personaggio pubblico o avere un invito ufficiale della società per poter pisciare in un bagno attrezzato per far sì che chi lo utilizzi non perda la propria dignità, e chi rientra nelle categorie succitate può anche mangiare un piatto di pasta tra un gol e l’altro. I restanti 40 mila spettatori – paganti, loro – possono anche fottersi e utilizzare tuguri che solo con enorme fantasia possono essere chiamati bagni.

Qui in Scozia, invece, ogni tifoso è trattato come un membro della famiglia, che abbia speso 300 sterline per il suo biglietto o che l’abbia ottenuto raschiando il fondo del portafoglio. In tutto ciò, il gentilissimo personale presente mi ha spiegato che è la società stessa a farsi carico della sicurezza all’interno di questa sala e che, ad oggi, non è mai successo nulla di sgradevole nonostante gigantesche quantità di birra scorrano a fiumi prima di ogni partita. A dieci minuti dall’inizio della gara abbandoniamo questo posto magico e ci dirigiamo verso l’ingresso.

Al tornello c’è una steward stipendiata dal Celtic, mentre la polizia osserva da lontano le operazioni di ingresso. Nessun controllo dei documenti e nessuna perquisizione, per un totale di due minuti spesi tra fila, tornello e ingresso allo stadio. Un’iniezione di civiltà che renderà terribile il ritorno alle abitudini italiche. A cinque minuti dall’inizio delle ostilità prendiamo posto nel settore accanto ai gitanti kazaki, all’altezza della bandierina del corner per intenderci. La visuale è ottima e si vede discretamente bene anche la porta posta sul lato opposto del campo. Il prezzo del biglietto, 33 sterline, è alto, ma non se commisurato agli standard britannici. Come sono solito fare in Gran Bretagna, mi sposto più volte dal mio seggiolino per testare l’elasticità dei controllori in giallo e, come mi è sempre accaduto, riesco a vedere la partita da tre diversi posti a sedere, due dei quali in altri settori rispetto a quello indicato sul mio biglietto.

Uno steward mi avvisa con gentilezza che nel caso fosse arrivato il legittimo proprietario del posto mi sarei dovuto spostare, e con una pacca sulla spalla si allontana verso la sua postazione. L’unica nota stonata, se così si può dire, riguarda lo ‘You’ll never walk alone’, che si rivela meno impressionante di quanto pensassi. In tutti i settori si segue la partita seduti, fatta eccezione per lo spicchio, di circa 900 posti, occupato dalle Green Brigade, che tornano allo stadio dopo le polemiche e il ‘ban’ per due partite inflittogli a seguito dello stendardo raffigurante un soldato dell’IRA, esposto durante la partita contro il Linfield. Gli ultras di casa tifano in modo costante per tutta la gara e spesso riescono a coinvolgere il resto dello stadio. A farla da padrone è il coro sulle note di “Just Can’t Get Enough” dei Depeche Mode, di cui si possono vedere degli interessanti estratti su YouTube.

All’ingresso delle squadre in campo i ragazzi della curva danno prova di una certa abilità coreografica, mostrando una scenografia semplice ma di impatto (nonostante sia limitata dalle esigue dimensioni del settore dedicato agli ultras). La partita scorre piacevolmente, con il Celtic che schiaccia sin dal primo minuto gli avversari in tenuta gialla. Il quinto gol, festeggiato con una mini invasione di campo, chiude il discorso qualificazione ancor prima del ritorno in terra asiatica. Una ‘meet pie’, invece, decreta la fine questa fantastica esperienza, nonostante cerchi in tutti i modi di ritardare l’uscita dall’impianto. Da queste parti, uscire dallo stadio gratificati è un’abitudine, a prescindere dall’esito della gara. È l’equivalente di un massaggio thai rilassante per una donna, seguito da un bicchiere di champagne e un acquisto costoso da Chanel o Louis Vuitton.

Il tifoso è al centro dello spettacolo, viene coccolato e rispettato e chiunque ami questo sport dovrebbe, almeno una volta nella vita, vedere una partita degli uomini in verde. O comunque entrare in uno stadio non italiano.

Niccolò Mastrapasqua