In un girone che non spicca certo per tifoserie blasonate e interessanti da vedere, per i tifosi romanisti la trasferta di Londra col Chelsea conserva forse una piccola aurea di fascino rispetto alle altre due (sebbene quella col Qarabag sia stata spettacolare per la sua unicità e la sua particolare ubicazione geografica). Se non altro perché Stamford Bridge, a differenza dell’Emirates Stadium ad esempio, non è un impianto ultra moderno nella sua concezione e la tifoseria blues si porta dietro un’ormai anacronistica fama. Insomma, niente per cui stropicciarsi gli occhi, ma varcare la Manica dà sempre una motivazione in più.

I tagliandi riservati ai sostenitori capitolini sono 2.300 e, come immaginabile, sono stati velocemente esauriti in prevendita.

Non mi soffermerò per scelta su tutti i rumor che hanno preceduto e seguito questa gara. Fantasticando, descrivendo, blaterando e, perché no, anche ricamando su presunti incontri tra romanisti e napoletani. Non lo farò innanzitutto perché da sempre mi è impossibile descrivere un qualcosa che non vedo (e questo dovrebbe essere comune a tutti quei giornaletti da quattro soldi che per tre giorni consecutivi hanno tentato di spammare la notizia per ingrossare del 50 percento il proprio misero traffico).

Ma non lo farò soprattutto perché una delle poche regole del movimento ultras a cui ancora credo – e a cui crederò fermamente per tutta la mia vita – è quella del silenzio e della discrezione. Dispiace sapere che molti, oggigiorno, si siano fatti plagiare dalla tecnologia e utilizzino social, whatsapp e quant’altro senza comprenderne la potenza e, giocoforza, la pericolosità. Lo sviluppo multimediale è un bene prezioso per tutti. Diventa a dir poco mortale quando se ne fa uso improprio.

E qui chiudo.

Manco a dirlo è una giornata fredda e piovosa ad accogliermi una volta arrivato all’aeroporto di Stansted. Per me che porto ancora addosso i 26 gradi di Roma e la relativa maglietta a maniche corte è un colpo duro da digerire. Figuriamoci poi se ciò si concilia con un periodo della mia esistenza in cui ho iniziato a odiare il freddo e la pioggia manco fossero i miei nemici giurati.

Mentre l’autobus della National Express si immerge nel classico caos che preannuncia l’ingesso nella capitale inglese, cerco di pensare a quello che ho sempre invidiato a questa città: la moltitudine di squadre disseminate in ogni quartiere. Ognuna con la sua identità e il suo seguito. Ognuna col suo stadio e i suoi particolarismi. C’è chi viene a Londra per ammirare l’Arsenal, il Tottenham e il Chelsea. C’è stato un periodo della mia vita in cui ogni volta che vi ho messo piede ho velatamente sognato di rivedere giocare il Wimbledon risorto dalle ceneri di quel fetido mostro chiamato Milton Keynes o fare una puntatina allo stadio del Brentford.

Eppure, a differenza di altri miei desideri calcistici, questi non li ho mai assecondati fino in fondo. Chissà, forse manca quella spinta propulsiva che mi fa passare due o tre notti fuori casa, dormendo poco e vivendo alla giornata, per vedere un Dinamo Zagabria-Hajduk Spalato o uno dei tanti derby italiani. Mancano gli ultras da queste parti. E per me è una discriminante fondamentale. Sebbene ammiri la passione che i sudditi di Sua Maestà ripongano attorno alla sfera di cuoio. Del resto “l’hanno inventata loro” e, anche se di vittorie – almeno a livello di Nazionale – ne hanno viste proprio poche da (e pure dubbie, gol di Hurst docet), l’amore paterno che le riservano è innegabile.

Da Paddington a King’s Cross, passando accidentalmente per Piccadilly Circus, sono tante le sciarpe sangue e oro che sin dalle prime ore del pomeriggio sfilano all’impazzata. Se volessimo paragonare le trasferte europee a quelle italiane potremmo inserire Londra nella classica scampagnata a cui un po’ tutti vogliono partecipare. I prezzi più che accessibili per raggiungerla e l’impostazione mentale ormai abituata al viaggio dentro al continente hanno fatto il resto. Oltre a quello che accennavo in precedenza: il mito che resiste (almeno per me inspiegabilmente) attorno al pubblico britannico.

La Tube si inerpica lentamente fino a Fulham Broadway. La District Line è quanto di peggio ti possa capitare a Londra. “Sembra la Linea B!” sussurro tra il serio e il faceto a mio fratello. Effettivamente non ci va molto lontana in quanto a efficienza. Ovviamente è un’eccezione a un sistema di trasporti che fa impallidire quello romano, ma è un’imperfezione che fa piacere sottolineare. Solo per il gusto di smontare, a ogni minima occasione, questo alone di perfezione con cui molti italiani descrivono tutto quello che avviene da queste parti.

Più lo stadio si avvicina e più l’assembramento di steward si fa massiccio. A breve capirò che qua, ancor più di altri stadi visti Oltremanica, sono veramente loro a gestire il tutto. Nel bene e nel male.

Un commento voglio riservarlo all’ubicazione di Stamford Bridge: letteralmente incastonato tra i palazzi. Nel nostro Paese spesso si alzano polveroni e si creano problemi facendo riferimento alla difficoltà nel gestire l’ordine pubblico in stadi simili. Ecco, se vogliamo confrontare i due modelli e smentire le tante dicerie esistenti su quello inglese, potremmo cominciare proprio da qui: penso che finora a nessuno sia venuto in mente di smantellare la casa del Chelsea per un simile motivo. Ma, ancor meno, a nessuno è venuto in mente di vietare una trasferta o limitare l’accesso ai tifosi ospiti per carenze strutturali (in Italia avrebbero partorito anche questo lampo di genio, stiamone certi).

Mentre a destare la mia sorpresa è anche il prezzo applicato dalla società londinese agli ospiti: 35 pounds. Circa 40 Euro. Un passo indietro che rispecchia gli ultimi anni di contestazione serrata portata avanti dai tifosi locali contro il caro biglietti. Negli ultimi mesi, infatti, la Federazione ha imposto un tetto massimo di 40 pounds per i tifosi ospiti. Una scelta saggia, che arriva dopo anni caratterizzati da un progressivo ma inesorabile allontanamento della working class dalle gradinate. Una decisione che è praticamente opposta a quanto succede da noi in questo periodo storico. Basti pensare ai 40/50 Euro richiesti per tanti settori ospiti della Serie A. Senza dimenticare, ovviamente, che quando parliamo di Inghilterra dobbiamo tener conto di salari e costi della vita differenti. 35 Sterline per un biglietto  potrebbero esser paragonate ai nostri 20/25 Euro richiesti in settori ospiti come quelli dell’Olimpico di Torino. Anche facendo un rapido rapporto qualità prezzo/qualità stadio. Ognuno tragga le proprie conclusioni.

Prima della partita c’è da registrare qualche problemino tra tifosi giallorossi e polizia in zona Kensington. Ne farà le spese un supporter italiano, arrestato dai bobbies.

Tornando sulla petulanza degli steward, invece, segnalo diversi problemi a far entrare alcune pezze, ritenute da loro “non conformi alle misure consentite”. Mentre appare ormai ai limiti del ridicolo il messaggio presente sui biglietti: “Persistent standing is not allowed” (non è permesso stare in piedi continuamente). Basta guardare la Matthew Harding Stand e buona parte dello Shed End riservato ai londinesi per capire come ormai tale prescrizione non sia rispettata nemmeno più dagli inglesi. Del resto quella del ripristino delle standing area è una delle richieste più discusse da queste parti. Club e istituzioni sembrano essere pienamente favorevoli e l’ufficializzazione di questi spazi sembra sempre più prossima. Intanto lo Shrewsbury Town ha adibito una zona del proprio stadio a stending area e ciò fa ben sperare per le altre tifoserie, che auspicano un veloce effetto domino. Del resto anche la ferrea mentalità britannica conosce la logica. Che in questo caso è sicuramente quella del business (stadi più caldi costituiscono senza dubbio un maggiore spettacolo). Ma sempre meglio ciò che imposizioni assurde e bigotte. Stare in piedi non c’entra un bel nulla con la violenza. Sarebbe quasi superfluo ribadirlo, ma in questo mondo di moralizzatori e tuttologi mai entrati in uno stadio, val bene ricordarlo.

La casa del Chelsea al suo interno risponde alle classiche caratteristiche degli stadi inglesi. Ed è ovviamente molto bella a vedersi proprio perché – come accennavo in precedenza – è un impianto funzionale e perfetto per il calcio ma non scade nel pacchiano e nell’artefatto tipico degli stadi moderni. Ha una sua anima e una sua conformazione. Quanto basta per renderlo simbolo di un’identità. Lo sanno bene a pochi chilometri da qua quanto perdere questo sia deleterio e controproducente. Ovviamente mi riferisco al West Ham e al suo insensato e pessimo passaggio dallo storico Upton Park al dispersivo e inanimato stadio Olimpico.

I tifosi della Roma cominciano a farsi sentire già in fase di riscaldamento mentre quelli di casa sin da subito mostrano tutta la propria pacatezza/apatia. A tal merito evado immediatamente il commento su di loro: difficile giudicare un silenzio di almeno 87 minuti su 90. Veramente un ambiente inesistente, non me ne voglia nessuno. Ogni volta che metto piede in uno stadio inglese ne esco forgiato e rinfrancato pensando alle tifoserie italiane. Spesso ci lamentiamo (giustamente) del calo di passione e spettatori. Ma paradossalmente anche un nostro stadio mezzo vuoto produce più rumore di questi silenziosi templi. È vero che in Inghilterra non è mai esistito un qualcosa di simile al movimento ultras (hooligans è assai differente e a mio avviso non paragonabile al nostro tifo organizzato) e non c’è mai stata una vera e propria entità in grado di concepire un tifo continuativo e non spontaneo. Ma qua parliamo proprio di 40.000 manichini. Se qualcuno ancora osa parlare di “maestri inglesi” ne rimango davvero sconcertato. Se questi sono i maestri preferisco rimanere analfabeta a vita!

Di contro, ovviamente, sono gli ospiti a recitare il ruolo dei leoni. In uno stadio dove anche un sussurrio genera rumore amplificato è facilmente immaginabile come canti, manate e cori a rispondere possano rimbombare veementi. Volendo dare un giudizio più “tecnico” c’è da dire che il settore ospiti parte un pochino a rilento, impiegando un po’ di tempo per sistemarsi e prendere le misure del proprio spazio. Forse, mi permetto di dire, il posizionamento dei gruppi nell’anello superiore avrebbe giovato di più alla coordinazione del tifo (se non altro perché il secondo anello era occupato da più persone). Di certo l’avvio catastrofico della Roma non aiuta molto. I giallorossi dopo 37 minuti sono già sotto per 2-0 grazie alle reti di Hazard e David Luiz. Ci pensa un gran gol di Kolarov prima dell’intervallo a riaccendere le speranze e far mettere definitivamente in moto il settore ospiti.

Nella ripresa è infatti un monologo romanista. In campo e sugli spalti. Una Roma autoritaria riesce addirittura a ribaltare il risultato con una doppietta di Dzeko, provocando due tra le più belle esultanze viste negli ultimi anni. Hazard pareggia nel finale, stabilendo il risultato sul 3-3. Ma ormai il sostegno vocale dei supporter capitolini è lanciatissimo e non ne risente. Si vede che la conformazione dello stadio fomenta e inietta nelle vene la voglia di cantare e urlare. Si percepisce che lo stare attaccati al terreno di gioco può influire ancor più sull’andamento della partita. E non ci si fa sfuggire l’occasione.

A fine gara gli applausi sono tutti per la squadra allenata da Eusebio Di Francesco, che va a raccogliere i complimenti dai propri tifosi ancora impegnati nell’esecuzione di “Don’t take me home”, hit del momento per la Curva Sud.

Tempo di respirare le ultime sensazioni, mentre lo stadio si è completamente svuotato e i giardinieri sistemano meticolosamente le zolle, e anche per me è tempo di lasciare Stamford Bridge. 

Mi imbatto in una coda infinita davanti all’entrata dell’Underground. Tanto da optare per un autobus. Ci sono ancora tanti tifosi italiani in giro sebbene la pioggia abbia iniziato a bagnare copiosamente Londra. Devo attendere l’alt di Giove Pluvio per potermi incamminare verso Finchley Road e riprendere un autobus in direzione aeroporto. È notte fonda e per le strade ormai non v’è anima. Posso soltanto frazionare il mio sonno tra pullman e aereo prima di rimettere piede sul suolo patrio. Dove fortunatamente mi accolgono sole e caldo.

Simone Meloni.