C’è una cassetta VHS che conservo con assoluta gelosia nel primo vano del carrello su cui poggia la televisione nella mia camera. È una di quelle che vendevano allegate al Corriere dello Sport. Tanti anni fa. In un momento di assoluta solitudine posso ancora sentirne l’odore di quando scartai la plastica e il pungente odore dell’inchiostro si fuse a quello piacevole della carta nuova.

Nella sua etichetta, posta ovviamente al centro, c’è scritto “Roma Scudetto 1982/1983”. Ed è il riassunto di quella stagione attraverso i servizi di 90′ minuto. È innanzitutto un sogno. Quello del ragazzino che sa di esser cresciuto dopo una generazione – forse l’unica dal 1927 a oggi – che la Roma l’ha vista grande fuori e dentro dal campo. Che ha sentito il sapore delle vittorie e ha forgiato un sentimento già di suo invasivo e prepotente. In cui ovviamente la musica ha giocato un ruolo fondamentale. Sia quella proveniente dagli spalti che quella irrorata dagli altoparlanti.

È vero, la Roma è ormai da anni assimilata ai due inni scritti da Venditti. Partono prima e dopo la partita, con la sciarpata iniziale che – si può tranquillamente dire – ha scandito regolarmente tante mie domeniche. Ma Roma spesso viene assimilata e assoggettata a quello che è più superficiale e appariscente. Senza voler conoscere, senza voler approfondire, senza voler scandagliare nell’anima della sua gente.

In quella cassetta famosa, che abbiamo lasciato qualche riga più in su, a ogni partita giocata nel vecchio Olimpico si udiva una musica diversa da quelle cui la contemporaneità espone: “Semo romani, ma romanisti de più…”. Non potei far a meno di chiedere lumi a mio padre, scoprendo che quello, durante l’annata del secondo tricolore, fu l’inno divulgato all’ingresso delle squadre. L’inno di Lando Fiorini.

La stessa voce che allietava i miei viaggi in macchina con mamma e da cui ho sentito per la prima volta le parole di tante canzoni popolari romanesche.

In pochi, a mio avviso, hanno il diritto di interpretare una canzone popolare. Perché è uno dei simboli distintivi e identitari per una comunità intera. E chi ne prende temporaneamente possesso ne deve esser cosciente.

Lando Fiorni lo è stato. È stato il tipo di romano che ha preferito non eccedere nelle apparizioni e, a differenza di altri, non si è mai dimesso dal ruolo di tifoso in concomitanza con periodi critici della squadra. Era un combattivo e un tifoso vero, e non perché con qualche canzone poteva vendere qualche cassetta in più. Come quella volta che da squattrinato stagista per una nota agenzia mi mandarono a intervistarlo, a pochi metri dalla redazione, nella sua Trastevere immersa in uno di quegli infiniti pomeriggi di ottobre, col sole ancora a splendere alto. Lui a un certo punto si disse stanco e ridendo esclamo: “Ma dimme ‘n po’, de che squadra sei?”. Ecco, la chiacchierata virò precipitosamente sulla Roma.

Quindi mi si perdoni se ho voluto occupare questa mia lunga introduzione con aneddoti e ricordi personali, ma quando sugli spalti del Bentegodi ho sentito cantare i suoi stornelli da tutti i presenti, li ho sentiti rimbombare e urlare con il cuore dalla gente, non ho potuto far a meno di ricordare come noi tutti, in fondo, abbiamo bisogno di punti di riferimento. Magari pure effimeri. Ma in grado di rappresentarci. Che si tratti di calcio o di cose più importanti. E questi punti di riferimento non possono essere certo beceri opportunisti che attendono scudetti per 30 anni per poi sfregarsi le mani e preparare lauti incassi dopo milionari concerti al Circo Massimo.

Queste figure parlano poco. Soffrono tanto per le tue stesse ragioni. E ti regalano sempre un qualcosa per vedere diversamente ciò che hai sotto gli occhi. E se ti sanno interpretare magistralmente “Lella” – quella serie di solfeggi che mette a nudo tutta la crudezza capitolina, mischiandola a una tragica storia di femminicidio – e mettere nelle loro canzoni una strofa che dice “lo stadio è pieno, la Curva Sud è pe’ voi” allora capisci che il connubio con le tue radici è saldo. E quando se ne vanno, come in questo caso, ti dispiace profondamente perché hai perso un pezzo, anche infinitesimale, della tua quotidianità. Come se staccassero un mattone del Colosseo o coprissero per sempre una delle chiese di Piazza del Popolo.

Chi ha saputo interpretare Roma per il gusto di farlo merita l’eternità. E a dirlo, fuori dal discorso del tifo e del calcio, è uno che le radici le cerca costantemente e che sa quanto sia difficile mantenerle per una città del genere. Una parte della città, una parte a cui lui teneva, lo ha omaggiato in maniera impeccabile. Col cuore.

Se mi chiedessero cosa è stata questo Chievo-Roma risponderei semplicemente: “Una canzone di Lando Fiorini”. Struggente nel sostegno continuo e di pancia, partito dalla Sud in formato trasferta per tutti i 90′, e cinico nello scegliere i suoi idoli e i suoi nemici.

Chievo-Roma, in realtà, è stata anche altro. E volendo proiettare quest’ora e mezza di gelo (temperatura a -1) su un palcoscenico di portata nazionale, bisogna allargare gli orizzonti e personalmente ripartire dalla stagione 2009/2010, quando oltre 20.000 cuori giallorossi invasero il Bentegodi speranzosi di uno scudetto che non arriverà mai. Era maggio e l’impianto scaligero ribolliva di caldo e passione. Vidi gente piangere a dirotto alla fine di quella partita; due settimane prima la doppietta di Pazzini all’Olimpico aveva stoppato un’epica rincorsa al titolo che aveva portato la Roma di Ranieri dalle zone centrali della classifica alla vetta.

Quella fu la mia prima – e fino a oggi unica – volta a Verona contro il Chievo. Ma quella odierna è una sfida totalmente diversa e se agli ospiti è riservato tutto il terzo anello della Curva Sud, il resto dello stadio registra davvero pochi spettatori.

Il tifo organizzato di casa si è spostato ormai da qualche tempo in Curva Nord con North Side, Gate 7 e 1929 in prima linea a organizzare il tifo. Devo essere sincero, mi sarei aspettato qualcosa in più da loro. Ok, i numeri non sono certo idilliaci, ma lo zoccolo duro è tutto sommato accettabile e considerando la continuità che ha nel seguito non capisco davvero perché si sia limitato a pochi cori durante l’arco dei 90′.

Sugli ospiti, come accennato, il sostegno di oggi è davvero di ottima fattura. Molto bella la disposizione delle pezze, che ricopre tutta la balconata, e l’apporto corale è praticamente mai domo, con particolari picchi nel primo tempo. Nella ripresa, con la Roma che non riesce a sbloccare il risultato, aumenta la paura di non vincere una partita che permetterebbe agli uomini di Di Francesco un importante salto in avanti, visti i pareggi delle dirette concorrenti. E nel finale il tifo cala un pochino di intensità.

In campo finisce 0-0, con l’esultanza del pubblico clivense, conscio di aver conquistato un punto difficile contro un’avversaria di rango. Del resto il Chievo è forse la più forte delle squadre di seconda fascia. E non solo per l’organico ma per il modo in cui approccia al campo.

Il freddo continua a scendere inesorabile e qualche fiocco di neve comincia a cadere in terra. Schizzo via dallo stadio per prendere il primo treno disponibile, mentre attorno allo stadio già si sono riversati i tanti tifosi giunti dalla Capitale.

Probabilmente stanno ancora defluendo quando il mio treno si immerge nelle tenebre della nebbia padana, sfrecciando tra Poggio Rusco e Bologna. Mentre elaboro il racconto di questa altra domenica del pallone.

Simone Meloni