La mia condanna è stata l’altezza.
Se fossi stato qualche centimetro più basso mi sarei abituato a saltare di più e sarei stato di certo un portiere migliore.
Sulla mia carriera sportiva invece conviene stendere un velo pietoso.
La storia di un portiere di provincia sovrappeso più incline all’errore che al miracolo, con la sola variante di essere un rigorista.
Di certo, ma solo in parte, tra i motivi c’è quello di aver sempre giocato in squadre scarse.
Ricordo un anno, io ne avevo 16, in cui ogni trasferta era una lacrima.
Ci era capitato l’esotico girone Allievi Bergamo, noi piccoli milanesi di confine.
Mai una volta che trovassimo il campo giusto quelle freddissime domeniche mattina. Mai una volta che arrivassimo tutti interi.
Quando giocavamo in casa però era un’altra storia.
Noi rimanevamo gli stessi scarponi di sempre ma qualcosa nel nostro modo di fare cambiava.
Il nostro campo era casa nostra e nessuno veniva a passeggiare.
Un po’ per gli spogliatoi, gli stessi dal 1958, un po’ per i sassi sparsi qua e là nella terra interrotta di tanto in tanto da radi ciuffi d’erba.
Sopratutto per l’ambiente che si creava.
La vecchia tribuna in legno piena, o almeno piena ai miei occhi di ragazzo, e aggrappati alle reti tutt’intorno tanta gente pronta ad aiutarci, a dirci qualcosa di buono. O a gridare dietro all’avversario.
Quando sono arrivato in Laguna, per Venezia-Milano, non mi aspettavo di trovare quello che ho trovato.
Per quaranta minuti il Taliercio è stato un palazzetto ostile e lo è stato senza vomitare insulti.
Fischi, cori potenti, tutti i tremilacinquecento attivi e partecipi.
E l’impressione era quella che, ogni volta che Milano si trovava con la palla in mano, non avrebbe segnato.
E in fondo così è stato.
I Panthers sono ai miei occhi una realtà in forte crescita. Li ho visti con costanza negli ultimi anni nei palazzetti ma mai compatti e rumorosi come quest’anno.
E dopo questa semifinale credo di aver capito perché.
È l’intera piazza ad essere legata alla propria squadra, alla propria realtà, al proprio palazzetto come casa e simbolo di questo legame.
Diventa allora naturale, per gli ospiti, la sensazione di sentirsi indesiderati. Di essere comprimari di una festa che non è la loro e che, alla fine, avrà un solo festeggiato.
Anche se questo non è il più forte, non è il favorito.
È il fattore campo.
E a Venezia, in gara3, l’ho toccato con mano.

Gianluca Pirovano.