Nel batti e ribatti di opinioni scaturite dal post Salernitana-Nocerina in poi, raccogliamo e condividiamo quest’altra pertinente riflessione. Si può essere d’accordo o meno, con le opinioni, ma il dato di fatto è che chi parla ha cognizione di causa: ecco, questo è lecito attendersi e chiedere a chi ha la pretesa (spesso presuntuosa) di fare informazione su fatti di cui spesso non ne sa una beneamata. Cosa che in questi giorni convulsi è stata una costante: anche i metereologi e le massaie si sono arrogati il diritto di parlare di stadio. Questo paese aveva davvero bisogno di un po’ di sana distrazione…
Bando alle ciance, buona lettura: il pezzo merita. 

La noia domenicale e la voglia di dire la mia sul pezzo dei futbologicihttp://blog.futbologia.org/2013/11/neoromantici-e-premoderni/#comment-15427

E’ solo una osservazione da tifoso che frequenta gli stadi da almeno 30 anni:

E se la smettessimo con la retorica del “calcio moderno”?
E se la smettessimo di pretendere dagli ultras di essere quello che vorremmo che fossero?
E se facessimo tutti un passo indietro e guardassimo il calcio da un’ottica diversa?

Sarò breve, per quanto è impossibile essere bravi quando c’è così tanta carne al fuoco.
Una cosa però va precisata: basta di ragionare e parlare degli ultras con gli stessi stereotipi di 30, 20 o 10 anni fa.
Il mondo ultras è cambiato. Per colpa dei Pisanu e dei Maroni, certo, ma anche per colpa degli ultras stessi.
Anzi per colpa, a volte, tanto quanto per scelta degli ultras stessi.
Perché i ragionamenti, di un fenomeno sociale così importante, non possono essere scevri dalla realtà quotidiana che si vive.

Ma procedo per punti:
Basta col “calcio moderno”. Sono almeno 25 anni che il calcio si è trasformato. Il passaggio ad essere Spa e poi l’avvento delle pay-tv hanno dato il colpo finale a una trasformazione che probabilmente era inevitabile.
Ma la cosa grave, insopportabile, che i primi a farne le spese e ad adeguarsi alla trasformazione sono stati gli stessi tifosi.
Alla maggioranza piace avere la maglia col numero e nome personalizzato, il poter vedere ogni partita, tutte le partite, fino alla nausea. La telecamera negli spogliatoi, il canale della propria squadra del cuore, siti internet, radio h24, giornali sportivi. Amano vivere il calcio sempre e dappertutto. Sfiorano il voyeurismo. Se pensate che in una curva, come la sud romanista, dove non si vede un cazzo dove stai stai, c’è gente che si lamenta al grido di “abbassa quella bandiera, famme vede la partita!”. Famme vede che? La partita? E da quando dalla curva si vede la partita?
I tifosi sono quelli che affollano gli store, che hanno subito la tessera del tifoso e spesso anche gradito “perché noi non abbiamo niente da nascondere”, non battono ciglio davanti alla fila dei tornelli. Al massimo sbuffano. Ma loro sono tifosi e quindi pensano che sia “il sacrificio” per la propria squadra.
O vogliamo parlare delle derive ultras che ha trasformato il “movimento” (soprattutto negli anni 90 fino a inizi duemila) in un gigantesco affare per piccoli capetti, a volte legati alla criminalità, altre volte no.
Ora tutto questo non c’è più. Inutile continuare a parlarne. Probabile che ci sia ancora chi lucra vendendo biglietti omaggio ricevuti dalla società oppure organizzando qualche trasferta. Ma sono casi isolati.
Le leggi Pisanu/Maroni hanno sciolto i gruppi ultras come neve al sole. Probabile che fosse anche inevitabile. D’altronde i gruppi ultras nascono negli anni 70 quando la società era completamente diversa. Quando ci si organizzava ed autorganizzava a scuola, a lavoro, nei quartieri. E quindi perché no allo stadio? E ora chi si organizza più?
E quindi, l’onda del casualismo, nata negli anni 80 in UK (a dire il vero anche un po’ prima) ha travolto anche l’Italia e non solo. E’ la nuova realtà del tifo moderno. Una realtà che si confà perfettamente alla società che viviamo.
E quindi se la piazza contagiava lo stadio, una forma simile avviene anche ora. Anzi forse avviene il contrario, è più il casualismo a contaminare la piazza o quantomeno ci sono affinità importanti: anonimato, un abbigliamento non identificabile e che quantomeno rende irriconoscibili. Le nuove forme aggregative del resto tendono alla creazione di gruppi ristretti e chiusi che non il contrario. Del resto è una storia che parte da lontano, anche questa. E non mi dilungo per non perdere il punto di vista.
La curva che vivo e che osservo da tifoso è una curva che non ha più “capi” identificabili. Che non ha rapporti con la società. Che non vende materiale dei gruppi perché “i gruppi organizzati” non esistono più. Non organizzano trasferte, si muovono in auto (o in treno ma pagando), portano al massimo qualche “pezza”, marchio di fabbrica, rivolto soprattutto agli altri gruppi casual ultras. Zero riferimenti. Del resto con delle leggi che hanno inasprito le pene e creato anche la via del reato associativo per gli ultras stessi è il modo più intelligente per difendersi.
Questo avviene a Roma ma anche in moltissime altre piazze d’Italia, da Napoli a Verona passando per Genova sponda rossoblu. In A come in C. Certo magari ora è anche una moda un po’ fighetta, almeno per alcuni, ma è la nuova realtà.
A me non dispiace oltretutto. Ma io non conto, c’ho pure ‘na certa.
Tralaltro non capisco perché i nostri gruppi ultras non dovrebbero essere parafascisti. L’identità curvarola, del gruppo, della banda, attinge anche a quella cultura ma soprattutto perché in una società razzista come la nostra, lo stadio dovrebbe essere luogo neutro? C’è razzismo al cinema o a teatro, dove passano film od opere dai contenuti sciovinisti e razzisteggianti, non capisco perché lo stadio non dovrebbe esserne contagiato.
La mia non è una difesa d’ufficio del mondo ultras ma è solo un ragionamento che possa smantellare i luoghi comuni. Perché siamo stanchi noi tifosi di calcio dei luoghi comuni, come sono stanco della retorica da sinistra del “riprendiamoci le curve”. Ma per farne cosa? E dove eravamo “noi di sinistra” tutti quando il laboratorio stadio della repressione continuava a sperimentare leggi e pene?
Se le nostre tifoserie, i nostri gruppi organizzati non sono come quelli egiziani o turchi, che riescono ad essere anche protagonisti nella società stessa e nei movimenti di rivolta è semplicemente perché le nostre forme organizzative sono diverse. Ma soprattutto perché non sono neanche forme ultras le loro. Non lo dico con demerito ma semplicemente perché sono cose diverse. Come del resto è spesso possibile vedere nei cortei “importanti”, quelli ad alta tensione, componenti ultras nostrane partecipare attivamente.
(Non solo a Genova 2001. E chiudo qui per non aprire la parentesi sul come “i movimenti” hanno interagito e accolto queste “presenze”)
Il problema è che continuiamo a sognare forme organizzative che non ci appartengono: una piazza Tahir in Italia non è riproducibile. Però abbiamo avuto la nostra Acerra, dove i gruppi ultras campani erano in prima fila nello sfidare le FDO nell’eterno gioco dell’ACAB. Così stanno i fatti. E lo dico da osservatore che finge di fare il sociologo da strapazzo.
Lo dico senza astio verso nessuno ma semplicemente perché se non riusciamo a capire cosa ci attraversa, difficilmente è pensabile di interpretarne il senso. E lo dico probabilmente perché è il momento di svuotare anche di importanza tutto quanto. Forse a quel punto potremmo produrre momenti diversi, ma si inizia dai quartieri per arrivare allo stadio e difficilmente viceversa.

PS
scrivo ste parole a pochi giorni dalla presentazione del doc sul Fc United of Manchester.
E lancio la domanda che ognuno di noi “contro il calcio moderno” dovrebbe farsi:
sareste pronti a fare come gli ex tifosi del Manchester? Io credo proprio di no.
In tutta onestà.
Daje.

[Fonte: Zero Pregi]