La memoria è una tematica importante nel mondo del tifo, che sia fatta di ricordi felici come quando c’è da celebrare una vittoria sportiva o per ricordare un evento più difficile come un lutto. Per il popolo juventino il 29 maggio coincide contemporaneamente con questi due sentimenti contrapposti. Quel maledetto giorno del 1985 si disputò infatti l’infame partita tra la Juventus e il Liverpool. Una partita importantissima per diverse ragioni, prima di tutto perché fino a quell’anno le squadre inglesi dominavano il continente a livello calcistico, come testimonia la finale dell’anno prima in cui il Liverpool s’impose allo stadio Olimpico contro la Roma.

Per tanti italiani in Belgio, che in larga parte tifavano Juve, quella partita rappresentava un sogno. Quello di vedere da vicino la loro squadra e i tanti talenti che essa annovera, come Michel Platini, figlio di immigrati italiani proprio come loro. Mercoledì 29 maggio questi tifosi bianconeri convogliarono a Bruxelles, a qualche decina di chilometri delle diverse città minerarie della Vallonia dove i loro padri erano arrivati a vendere la propria forza lavoro, da Liegi ma anche Marcinelle, Charleroi o La Louvière. Immigrati provenienti da tutto lo Stivale, meridionali e settentrionali venuti a lavorare in condizioni difficilissime, in questo Paese.

Questo mercoledì soleggiato del 1985 sembrava davvero diverso, le temperature erano calde nella capitale belga e per un giorno non esistevano “maledetti immigrati”, come venivano considerati da una parte della popolazione locale. Non esistevano calabresi, siciliani, friulani, pugliesi o toscani ma un unico popolo, quello bianconero, orgoglioso di riabbracciare i propri connazionali venuti apposta dall’Italia e tutt’insieme celebrare l’eventuale agognato trionfo della loro squadra in campo.

Mario era uno di questi, nello specifico uno dei tanti tifosi della Juve riusciti nell’impresa di trovare biglietti inizialmente destinati al pubblico neutrale belga. Biglietti dunque non della curva destinata al cuore pulsante del tifo organizzato bianconero, ma in un settore distante, di fronte al grosso degli juventini, accanto alla curva riservata ai britannici. Poche ore separano questa gente dall’ingresso nella storia. Non per il loro tifo caloroso, per il loro entusiasmo ma semplicemente perché si ritroveranno nel settore sbagliato. Il loro dramma si consumerà in mondovisione, l’unica colpa è quella che per caduta subiscono per le disastrose lacune degli organizzatori e per gli assalti degli hooligan inglesi. Nemmeno capiranno quanto andrà succedendo nel settore adiacente e di sicuro quello che vedono non c’entra niente con l’idea che avevano di vivere lo stadio e partecipare a questa partita. Mentre alcuni giovani tifosi inglesi cercheranno di aggredirli, li divide da loro solo una rete di pollaio; gli agenti che dovrebbero garantire la loro incolumità non ci sono, le poche uniformi presenti non servono a niente.

La memoria del popolo dei Reds è diversa. L’anno prima erano stati vittime di aggressioni e agguati a Roma. Non si aspettavano questa accoglienza ostile nella Capitale italiana. Ma, sul campo sono stati loro a vincere e alzare la Coppa dei Campioni. I più pensano che adesso, a questi “maledetti italiani”, toccherà ricordare quel giorno, è venuto il tempo della vendetta per loro. Il famoso “Taking the End” (prendi la Curva, avversaria ovviamente), da una decina d’anni lo sport preferito degli hooligan in un vetusto stadio come l’Heysel trova sicuramente campo aperto d’attuazione. Joey ed i suoi amici arrivati senza biglietti, capiscono subito quanto facilmente siano aggirabili i controlli e in pochi minuti si ritrovano tutti insieme dentro la curva rossa.

La giornata per la banda di Joey era già perfetta, a chiudere il cerchio mancavano solo due cose: una sciarpa bianconera da portare come vessillo agli amici rimasti a Liverpool, una vittoria simbolica ovviamente, alla quale far poi seguire quella sul campo sportivo.

Sulla Grand-Place alcuni ragazzi italiani, con uno stile particolare e striscioni offensivi si erano già fatti avanti per lo scontro, ma la polizia belga presente in centro aveva subito convinto tutti a rimandare il confronto a quando la situazione lo avrebbe permesso. Quello che la banda di Joey ancora non sa è che il settore accanto a loro, pieno di italiani e non di spettatori belgi, come era previsto dagli organizzatori, non c’entra niente con i ragazzi visti in mattinata, pronti allo scontro e che per ironia della sorte, come nome di battesimo hanno l’inglesissimo “Fighters”.

Quando Joey e i suoi amici decidono di caricare, l’eccitazione collettiva motiva tanto quanto la memoria dell’anno prima. L’accoglienza ostile di Roma, le aggressioni sulla strada dello Stadio Olimpico, la bandiera del Liverpool rubata e buttata nel Tevere, gli accoltellati, tutte immagini ancora vive per loro. E così come tanti, come troppi, spingono la rete e appena questa cade si precipitano a picchiare il primo tifoso che trovano di fronte, senza chiedersi perché nessuno di loro risponda alle provocazioni.

In pochi minuti il panico si diffonde nel Settore Z. Sotto l’occhio delle telecamere, questa porzione di stadio diventa famosa nel mondo intero. Questo pezzo di cemento vecchio e cascante, già pieno di sciarpe e di bandiere bianconere lasciate cadere a terra. Questi tifosi juventini che cercano disperati una via di fuga. La polizia belga prova ad impedire ai tifosi italiani in fuga di entrare sul campo: gli ordini sono ordini, così in sella ai loro cavalli, manganelli alla mano, prova a respingerli.

Mario, ventidue anni è uno di questi tifosi. Originario di Turi aveva lasciato la sua città, la sua famiglia e gli amici per cercare un avvenire migliore. Seguendo un cugino venuto alcuni anni fa a Charleroi che l’estate, quando torna al Paese con il suo macchinone, fa sempre una certa impressione. Al di là delle suggestioni, Mario non aveva tanta scelta, l’immigrazione è l’unica via per un’esistenza degna. Poi, con i soldi che guadagna nella pizzeria del cugino può aiutare la sua famiglia rimasta in Italia.

I primi mesi in Belgio sono stati difficilissimi. La popolazione non è molto accogliente con questi “Macaroni”, come vengono soprannominati gli italiani. La regione di Charleroi non c’entra niente con i bei paesaggi della Puglia. Per non parlare del clima. Tutto sembra grigio e il calore della sua terra, della sua gente manca ancora di più. Ad attutire fortunatamente la nostalgia ci pensa il bar, il circolo dove la domenica, fra connazionali, si segue il calcio italiano e soprattutto quella Juve per la quale Mario ha una grande passione. Questa stagione in cui la squadra bianconera è arrivata fino in finale di Coppa Campioni, rende più sopportabili le umiliazioni e le difficoltà della vita quotidiana in Belgio. Quest’anno poi, Mario potrà vedere la sua amata Juve dal vivo ed è un incentivo in più a tenere duro.

La finale della Coppa dei Campioni si disputa infatti a Bruxelles, a sessanta chilometri della sua città di adozione. Mario si è organizzato con gli amici dello “Juventus Club Belgio”, ha preso un giorno di ferie per godersi una giornata storica. I biglietti non sono stati un problema, procurati da un collega di lavoro sul mercato nero: i bagarini ci sono anche qua e non sono mica tutti italiani…

Biglietti in tasca e sciarpa al collo, in questo caldo 29 maggio, Mario si sente diverso. Non più un “terrone”, un “Macaroni”, ma un tifoso della Vecchia Signora come tutti. Stasera il popolo bianconero vuole dimenticare l’umiliazione di due anni prima ad Atene e riprendersi quella coppa perduta con l’Amburgo. La Juventus deve vincere per salvare la sua stagione. In campionato non è mai riuscita ad inserirsi nella lotta per lo scudetto. Mario ricorda il cammino europeo seguito passo passo sul televisore del circolo. La semifinale col Bordeaux è stata più difficile dal previsto, ma alla fine ce l’hanno fatta. Ce l’abbiamo fatta, come usano dire i tifosi sentendosi parte in causa nel tutto. Sarà in finale, un anno dopo avere vinto la Coppa delle Coppe. Poi di fronte c’è il Liverpool che la Juve ha già incrociato quattro mesi prima, nella finale di Supercoppa Europea. Il 16 gennaio i bianconeri si imposero 2-0 contro i Reds, grazie a due goal di Zbigniew Boniek, divenendo così la prima squadra italiana a vincere questo trofeo.

Con tanti sogni nella testa, Mario approda a Bruxelles, tra migliaia di connazionali, alcuni in Belgio da decenni, altri venuti apposta dall’Italia, ma anche dalla Germania, dalla Francia, dal Lussemburgo e dall’Olanda. Riesce a riconoscere persino gli accenti della sua provincia. Anche i tifosi del Liverpool sono tanti. Si fanno notare subito, quasi tutti a torso nudo, arrossati sotto il sole di maggio. Le bottiglie vuote si contano a centinaia per le vie della capitale belga e tante cominciano a volare per aria. La giornata appare subito più tesa del previsto così Mario, col suo biglietto in tasca, decide di avviarsi verso lo stadio Heysel, quattro ore prima della partita. Con suo cugino decidono di entrare al più presto nel Settore Z di cui possiedono il biglietto, anche perché vogliono guadagnarsi un posto con la visuale migliore sul campo. Per la partita si aspettano 60.000 spettatori. Quando Mario entra nella curva, resta sbalordito di fronte alla struttura: è vero che non frequenta da tanto gli spalti, ma questo stadio sembra davvero molto vecchio.

Accanto a loro ci sono i tifosi dei Reds. Fuori li avevano già incrociati e Mario ha preferito nascondere la sua sciarpa bianconera dovendo passare in mezzo a loro che aspettavano di fronte ai Settori X e Y, ritenendo la provocazione inutile e quando raggiunge la porta d’ingresso del settore Z è piuttosto contento. Dentro è un tripudio di bandiere bianconere e tante sono quelle rosse alla sua sinistra. Dopo qualche minuto le memorie e le storie personali di Mario e di Joey andranno ad incrociarsi. Ognuno avrà ovviamente una versione posteriore molto diversa, ma una cosa è sicura: questa serata rimarrà dentro di loro per tutta la durata delle loro vite.

Facciamo ora un poderoso salto in avanti, dal 29 maggio 1985 al 29 maggio 2018. Sono passati esattamente 33 anni da questa storia che ho tentato di ricostruire in maniera verosimile, intrecciando con la fantasia due destini ipoteticamente contrapposti. Mi ritrovo così alle ore 19.00 all’entrata di quello stesso stadio, presso la tribuna, invitato da un ragazzo attivo all’interno della sezione Belgio del gruppo “Tradizione”, ho dunque la possibilità di vedere da vicino la commemorazione di quella tragedia.

Come tutti i nati negli anni ’70 ricordo quella serata. La memoria mi porta indietro a quando ero un bambino di sette anni e vedevo scorrere le immagini degli incidenti di quella partita. Non capivo niente di quello che stava succedendo a Bruxelles. Oggi invece sappiamo tutto di quanto avvenuto in quei momenti. E devo dire la verità: è un po’ strano essere lì. Ho sempre problemi con le commemorazioni, perché dentro ognuno di noi la memoria non funziona mai allo stesso modo. Si può dire tutto quello che vogliamo, ma dietro il senso di colpa latente e indefinito che ci obbliga a rimanere in silenzio per un minuto o più, cos’è davvero la memoria?

Siamo in pochi, una trentina di persone. A dire il vero, non mi ero minimamente posto il problema del numero dei presenti. Ci sono soprattutto ragazzi del Belgio, juventini, ultras e tifosi, ma anche due ragazzi venuti apposta dall’Italia e qualche ragazzo dei “Green Boys”, ultras de La Louvière, una squadra che milita nel 4° livello del calcio belga. Ci viene permesso accesso al luogo della cerimonia per meno di mezz’ora. Sembra quasi un favore che ci fanno e fa riflettere che nel 2018 la sicurezza sia diventata una ragione di Stato. Ma soprattutto serva come pretesto a tanti per non farti entrare in un luogo dove non è previsto nessun evento di rilievo e questa fretta indotta puzza un po’ di censura e non meno di cinismo.

La sezione Belgio di “Tradizione” ha fatto confezionare una corona di rose. Si passa il portone e entriamo. Del vecchio stadio dell’Heysel, edificato nel 1930 per il centenario del regno del Belgio, non rimane quasi più niente, tranne un pezzo della sua facciata d’origine. All’inizio degli anni ’90, il governo locale decise di ricostruire totalmente l’impianto che venne pure ribattezzato “Roi Beaudoin”, alla morte del re del Belgio nel 1993.

Arriviamo alla lapide sulla tribuna con i nomi delle 39 vittime, inaugurata nel 2005 per il ventennale della catastrofe. C’è pure il nome del sindaco che l’ha fatta affiggere, una cosa che sicuramente si potevano risparmiare. Non ho mai visto su nessun monumento il nome del sindaco che l’ha inaugurato. Cosa deve ricordare davvero la storia? I suoi attori principali o chi tenta di usarla per proprio tornaconto? Ma lascio perdere queste domande retoriche e mi fisso a guardare i nomi delle vittime. Li leggo uno a uno e penso che queste 39 persone non si sono più svegliate la mattina del 30 maggio 1985, che 39 famiglie sono state ferite per sempre, che 39 esseri umani hanno visto interrompersi il loro destino e tutto questo per il solo fatto di essere andati allo stadio. Ci fermiamo lì e dopo qualche minuto ci spostiamo in un altro luogo, presso il famigerato Settore Z.

I ragazzi tirano fuori i loro striscioni e li mettono attorno alla seconda targa. Ci sono i drappi della sezione Belgio di “Tradizione”, lo striscione dell’ex gruppo “Bruxelles Bianconera”, quello dei “NCS” (Noi Ci Siamo), uno stendardo con i colori gialloverdi dei gemellati del Den Haag e una sciarpa di un ragazzo del “Nucleo”. Poi, vicino la targa fissata sul luogo dove una volta c’era il famoso muro del Settore Zeta, un ragazzo di “Bruxelles Bianconera” fa un piccolo discorso. Le sue parole ricordano la lotta del “Comitato per le vittime dell’Heysel” affinché fosse commemorato degnamente quell’evento drammatico. Perché nei mesi e negli anni che si sono succeduti, tanti avrebbero preferito dimenticare quanto accaduto. Senza l’ostinazione di quella gente che ha reso simbolicamente ma eterno il ricordo, racchiudendolo in una lapide, in una targa quelle morti sarebbero state pian piano metabolizzate e poi dimenticate. Come dice giustamente questo ragazzo: «Dobbiamo essere qua per non fare dimenticare al Belgio, allo Stato, anche alla Juve e ai tifosi la nostra storia, da dove veniamo e quello che il nostro popolo ha vissuto».

Ecco, la maledetta memoria, quella che permette che non cadano nel nulla questi 39 nomi, queste 39 vite. E dunque oggi forse ci saranno “solo” trenta persone di fronte alla targa sul muro del Settore Zeta a Bruxelles, ma questa gente ha di sicuro la fortuna e il pregio di sapere cosa voglia dire, trentatré anni dopo, la memoria. Poi, dopo un minuto di silenzio che sembra durare molto di più, torniamo alla lapide dove la cerimonia sta per finire. I due ragazzi juventini, venuti apposta dall’Italia, vengono invitati a farsi avanti e leggere uno per uno i nomi delle vittime. Sono due voci che nessuno, tranne un trentina di persone, può sentire, ma non importa se siano in pochi a sentire pronunciare questi nomi, l’importante è che queste persone in un modo o nell’altro ci siano ancora.

Sébastien Louis
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