La penna è più pesante del solito questa mattina mentre provo per l’ennesima volta a riordinare le idee, a mettere tutti i frame nero su bianco, dopo aver sorseggiato un caffè al Jet Lag. Ci sono tornato, dopo tutto quello che è successo sabato notte, per chiudere una delle peggiori parentesi del mio personale quarto di secolo su questa Terra.

La mente regala ancora sprazzi di memorie, un flusso di coscienza rotto da uno shock mentale che continua a scandire le ultime ore. I tavoli sono tornati in ordine, il mio è sempre lì con il suo particolare segreto. Il pavimento emana un profumo assuefacente di varechina, mentre gli evidenti segni sulla vetrata destra continuano a simboleggiare una notte da dimenticare. Il sangue, le urla, gli occhi pieni di lacrime, i volti impauriti sono stati sostituiti di nuovo dalla quotidianità: dai sorrisi, gli abbracci e le chiacchierate insieme ai ragazzi di sempre, amici o avventori casuali. Il marchio di fabbrica di questo locale e dei suoi titolari.

Tutto era iniziato come una serata di festa, un compleanno da celebrare ancora una volta in compagnia. Amicizie decennali riunite per brindare e festeggiare, costrette a difendersi da un assalto folle, insensato, fuori da ogni logica. Anche nelle sottoculture più distaccate dalle norme morali di una società dominante esistono codici d’onore da rispettare, dogmi non scritti che impongono di non attaccare in branco una minoranza composta da uomini (pochi e non armati) e donne (tante), e quindi di non scavallare una evidente linea di demarcazione.

Sabato notte quella linea è stata oltrepassata e banalizzare il tutto riconducendo il fatto ad un mero regolamento di conti fra ultras avversari è in primis una menzogna, quindi una profonda ingiustizia mediatica nei confronti dei feriti e di tutte le persone che, direttamente o meno, hanno subito un trauma gratuito, i cui strascichi continuano a segnare i loro volti. Così come risulterebbe essere una profonda ingiustizia l’incolpare una persona senza un processo certo con prove schiaccianti, considerando le recenti dichiarazioni di Gianluca, uno dei feriti, in merito al vile accoltellatore che, per una questione di millimetri, non ci ha privati di un figlio, un fratello, un amico fraterno. La sua fonte è l’unica attendibile, quindi sarà con questa che verrà individuato il colpevole di questo gesto folle, criminale. Non con i processi mediatici.

Un ragazzo e aspirante attore, persona eclettica sempre pronta alla battuta e allo scherzo, costretto ad un letto d’ospedale a causa di due coltellate, di cui una alla schiena. Alle spalle. L’altro, a me sconosciuto fino all’istante in cui, con estrema lucidità, alcuni di noi hanno prestato un soccorso rivelatosi decisivo, anch’egli in terapia intensiva in seguito ad una coltellata in pancia. Stava semplicemente ordinando qualcosa da mangiare, era da solo e totalmente disinteressato alle sorti sportive .

Cittadini, non tifosi. Ci tengo e ho tenuto in queste ore a precisarlo a colleghi e conoscenti, perché Gianluca potrà pur essere un sostenitore della Juventus, ma chi lo conosce bene saprà che le sue apparizioni negli stadi italiani si sono verificate maggiormente in occasione delle partite della Roma, coinvolto dagli amici e dal fratello a seguire i giallorossi anche in trasferta. E comunque, per sdrammatizzare: a mani nude ne avrebbe mandati giù diversi.

Chi non lo conosce quindi, chi pubblica una notizia riprendendo meramente una fredda e banale velina della Questura, chi spara in prima pagina la foto di un arrestato senza aspettare una sentenza, dovrebbe informarsi di più. Il nostro lavoro impone una responsabilità verso la collettività, e banalizzare il tutto cercando di sollevare il classico polverone diretto al tifo per farne tabula rasa, è un insulto non solo nei confronti dei presenti, ma anche verso chi dovrebbe ricevere un’informazione sana. Perché se giustifichiamo l’accaduto ricollegandolo al tifo, riferendolo a mere logiche da stadio, così come affermato dal Questore di Roma, abbiamo perso tutti. Mentiamo, mascherando e distorcendo la realtà e non ci rendiamo conto che determinati fatti vanno considerati in base ad una visione globale, a tutto tondo, la quale comprenda sì il tifo, anche nella sua accezione più violenta, ma anche e soprattutto aspetti sociali rilevanti, come l’educazione civica e in particolar modo la gestione di determinati eventi sportivi e non.

Il curriculum per presentare una candidatura Olimpica, con stadi svuotati e strade riempite di frustrazione – la quale può purtroppo sfociare anche in violenza – è indegno di un tale evento planetario ad oggi, con queste Istituzioni.

Mi preme inoltre sottolineare che se un uomo armato incontra un altro uomo armato, ed entrambi sono consenzienti nella lotta, allora tale meccanismo può psico-sociologicamente essere ricondotto ad un modus operandi. Può e anzi ha un senso nell’accezione bronneriana del termine violenza. Ma quando un gruppo armato, o anche un singolo individuo, attacca soggetti ignari, disarmati e per nulla intenzionati allo scontro, allora dobbiamo realmente preoccuparci perché si travalica il concetto del “nemico” già perfettamente delineato in uno dei suoi innumerevoli saggi dal sociologo e massimo esperto del fenomeno calcio, Alessandro Dal Lago. E raccontare la verità, è un primo passo doveroso nei confronti di tutti.

Raccontare la verità vuol dire anche e soprattutto non tralasciare nulla, neanche le verità più scomode e pericolose. Perché oltre alla descrizione dell’ignobile assalto, sarebbe ingiusto tralasciare un particolare celato, in cuor mio spero non volontariamente. In qualità di testimone oculare, probabilmente colui che meglio di tutti ha assistito alla scena che sto per descrivere, non posso esimermi dal non cascare nella trappola del guardare il dito che indica e non la Luna. Quei pullman composti da ultras, tifosi, cittadini, la maggior parte dei quali non ha nulla a che spartire con i fatti di sabato notte, se non la colpa di essere raggruppati insieme a soggetti che hanno evidentemente superato ogni limite, erano scortati. E da tifoso con una decina di anni fra vita di Curva e trasferte non posso non sottolineare come sia piuttosto illogico che, in una città militarizzata come Roma, nella Capitale della repressione del tifo, sia concesso a decine di persone di percorrere più di 500 chilometri e entrare in città con una decina di coltelli e innumerevoli spranghe.

Nel feudo della “safety” e della legalità targata D’Angelo-Gabrielli, rispettivamente Questore ed ex Prefetto, ora Capo della Polizia, sempre pronti ad elogiare il proprio operato, com’è stato possibile tutto questo? A pensar male si fa peccato. Spesso però si indovina. Com’è spiegabile l’immobilismo di quattro volanti e due camionette gremite di agenti in assetto antisommossa, mentre un gruppo di persone decide di scendere da un pullman per assaltare un locale davanti ai loro occhi?

Chi ha dato l’ordine di non intervenire, o non è stato lesto nella decisione, è, a mio avviso e soprattutto nel profondo della mia coscienza, complice e perciò non degno di ricoprire un ruolo così delicato. Con l’aggravante di un motto che, in teoria, millanta di proteggere il cittadino, non di voltargli le spalle. E sottolineo, non è un’invettiva personale contro i poliziotti presenti: l’intelligenza vuole che sia piuttosto semplice dedurre e interpretare un mondo gerarchico in cui le azioni personali dipendono esclusivamente da ordini superiori. E l’operato di chi era preposto a gestire le forze dell’ordine dovrà emergere in tutti i suoi aspetti, minuziosamente, alla luce del Sole.

Gianvittorio De Gennaro.