Ci fu un tempo in cui il Derby del Sole era partita vera. Piena di suspance, di emozioni, di colori e di folklore. E non sto facendo riferimento soltanto agli anni in cui romanisti e napoletani erano legati da un gemellaggio, come amano fare i solerti moralisti che sempre più popolano questo Paese, lasciando le molliche del loro pane azzimo ai volenterosi cronisti e informatori, sempre più ridotti a servi della gleba o scimmiette da sfottere e relegare in un angoletto, allorquando si ostinano a non porgere i propri ossequi a questo o a quell’altro ciarlatano della stampa e della politica per avere in cambio trenta denari in più.

No. Sto parlando anche degli anni successivi. Soprattutto di quelli. Della rivalità, delle tensioni, degli sfottò. Di un’Italia che accettava divertita il prendersi in giro, così comune e consentito nei bar, represso e combattuto ora negli stadi, che devono essere la faccia pulita di un Paese che puzza di sterco dalla testa ai piedi, e in cui rispetto e morale sono sempre meno all’ordine del giorno. Quella rivalità, per il sottoscritto, era una delle madri del calcio italiano in chiave sociale. Normale che ci sia acredine, per motivi di campanile, quando due città così grandi, e che hanno in comunque diverse cose, diversi aspetti e diversi modus vivendi, sono divise soltanto da 180 km.

Certo, se mi chiedete se io pensi che sia normale ciò che è venuto dopo/recentemente, con alcuni eccessi, con la tragica giornata del 3 maggio 2014, con le guerre virtuali e la totale chiusura mentale dall’una e dall’altra parte, ovviamente rispondo no. Anzi, dico che è un qualcosa che mi ha profondamente ferito. Ucciso buona parte dell’amore che avevo per il calcio, per i suoi tifosi e per le sue rivalità. È altrettanto vero, però, che i soliti media, i soliti politicanti, i soliti cialtroni che siedono sulle poltrone governative, non hanno mai lesinato di buttare benzina sul fuoco e alimentare un astio che, è giusto dirlo, ha forse valicato i confini della sana cultura da stadio. Rintanandosi perfettamente in quel clima da Basso Medioevo che la società odierna propugna in maniera celata, nascondendosi dietro terminali elettronici o decreti d’urgenza.

Così non rimane nulla. Di Roma-Napoli. Un giorno, e giuro che lo farò, racconterò la mia prima trasferta al San Paolo. Più di dieci anni fa. Lo farò quando me lo sentirò, quando avrò la certezza di esser pronto a farlo. Quando, forse, mi getterò definitivamente alle spalle anche questo malessere di vivere lo stadio attuale e tutto ciò che lo circonda. Posso solo ricordare quanto ci tenessi. Quanto per me fosse la madre di tutte le partite. Non ho problemi a dire che avevo rispetto per i dirimpettai. Perché una volta tutti ce l’avevamo. Che andassimo noi là o che venissero loro qua. Ma queste sono storie di curva e in molti le abbiamo dimenticate. Molti ragazzi, da ambo le sponde, si limitano a parlare di odio e di vendetta perché, spesso, sono veicolati da ciò che ci propinano quotidianamente. Dovremmo tutti essere più freddi e razionali.

Dovrebbero raccontarci meno stronzate. Magari non parlandoci di invasioni partenopee. Di 5.000 persone pronte a invadere l’Olimpico e della Questura costretta ad aprire il settore ospiti. Questo è stato il grande tema di discussione dei media romani in settimana. In pochi si sono interrogati se davvero potesse essere vero. In molti, invece, hanno fatto il gioco di chi ci vuole tutti contro tutti, sostenendo che le uniche vittime della repressione in Italia sono qui a Roma. Di sicuro, oggi come oggi, abbiamo il primato. Ma nel resto della Penisola non si scherza. E di sicuro non è maturo e giusto augurare a qualcuno un trattamento a dir poco disumano e retrogrado. Dalle barriere alle trasferte vietate.

Sì, perché a noi parrà  anche impossibile visto il salto all’indietro che abbiamo fatto su determinate dinamiche, ma tutto questo concatenarsi di episodi accaduti sull’asse Roma-Napoli, oltre a non sembrare casuale, in un Paese normale, in grado di affrontare i problemi seriamente e non con il sensazionalismo, avrebbero dovuto avere ben altre sedi di discussioni e ben altre ripercussioni. L’unica cosa che si è stati capaci di fare è stata vietare. Terrorizzare. Vietare. Terrorizzare. Tanto in Italia è lo sport nazionale. Più facile di così non si può. Invece vi do una notizia: un apparato statale che si rispetti, anche quell’Inghilterra che tanto dite di scimmiottare per esempio, dà la propria prova di forza facendo viaggiare la gente sul proprio territorio nazionale, riuscendo a mantenere la sicurezza e, in caso di eventuali problemi, facendo pagare chi se ne rende protagonista e basta. Non colpendo a caso o punendo intere comunità. In fondo funziona così in tutta l’Europa civilizzata. Non so perché tra Aosta e Palermo ci si sia messi in testa di esser gli antesignani di un qualcosa che, se mostrato, sempre facendo un esempio a caso, in Germania o Inghilterra, verrebbe a dir poco deriso e tacciato di vecchiaia cronica.

In virtù di tutto ciò, attualmente odio questa partita profondamente. E lo stadio con 30.000 spettatori, il silenzio, poche centinaia di tifosi ospiti, rigorosamente tesserati e non residenti in Campania, per una gara del genere che valeva il secondo posto, è l’emblema massimo di cosa sia diventato il calcio a Roma e in Italia. Ma mi raccomando, continuate a spacciarci tutto ciò per salvaguardia della sicurezza. Tanto avallerete altri morti, altri incidenti e altre modalità retrograde di controllo delle masse per giustificare decisioni e operazioni che non stanno né in cielo e né sulla terra.

Alla prossima, intanto vado a cercare le famiglie da portare allo stadio.

Testo di Simone Meloni.
Foto di Lorenzo Contucci.