Prima no, poi forse, poi sì. La Curva Sud, sempre lei, solo lei. Da oggi in vendita libera, come non accadeva da anni. “Comprami, io sono in vendita”, cantava una spensierata Viola Valentino nel 1979. Eppure qua non ci troviamo di fronte a una trasmissione d’intrattenimento della Rai che fu, bensì intravediamo una genesi preoccupante e avvilente per tutti quelli che quotidianamente la vivono. Soprattutto se si prende a campione quelli che non hanno deciso né di farsi comprare, né di mettersi in vendita. Quasi da monito, da funesto segnale. Una Sud chiacchierata, ripudiata e desiderata, quando se n’è andata. Di giustezza, senza gesti eclatanti, in punta di diritto e dando battaglia in virtù del suo diritto: quello di tifare. Perché non è vero che qualcuno ha anteposto la Sud alla Roma o, peggio ancora, i suoi interessi all’amore per il rosso pompeiano e il giallo ocra. Occorrerà ripeterlo fino alla sfinimento: ma chi spende soldi in anticipo, nella società dell’iper consumismo, e poi non “usufruisce” del “prodotto” acquistato, non sta di certo agendo in malafede. E fa anche un po’ senso utilizzare un linguaggio da mercato globale, ma di questi tempi rende più facilmente l’idea. C’è persino chi ha ripetuto il gesto in questa stagione, conscio di come, rispetto all’anno che ci siamo lasciati alle spalle, le condizioni di vivibilità dell’Olimpico siano, sì, sensibilmente migliorate, ma restino sempre attribuibili alla più indegna “Fiera dell’assurdo”.

Dicevamo della Sud in vendita libera. La società, inizialmente, aveva precluso questa opportunità, prevedendo il classico sold out per il settore popolare. Ha dovuto fare marcia indietro  e già dalla sfida di sabato contro l’Udinese sarà possibile acquistare tagliandi per suddetto settore. Evidentemente in pochi hanno rinnovato le proprie prelazioni, e ancor meno persone hanno deciso di abbonarsi laddove fino a qualche anno fa era quasi sempre impossibile trovare un posto. E forse è proprio questa la notizia. Un segnale chiaro: la ferita dipanata lo scorso anno da barriere e feroce repressione è ancora aperta. L’annuncio, da parte della Prefettura, del rilevamento biometrico per accedere all’Olimpico ha suscitato ulteriori polemiche, fiaccando ancor più una campagna abbonamenti che con tutta probabilità farà registrare uno dei numeri più bassi degli ultimi anni. Perché si possono tentare di alleviare i significati di alcune parole, accarezzarle per renderle meno dure e aspre di quanto in realtà siano, ma i tifosi (che poi sono esseri umani) non sono totalmente rimbambiti, e anche loro hanno un punto di saturazione.

Non c’entra il mercato, peraltro ben orchestrato e condotto con raziocinio (come non avveniva da anni). È un discorso più complesso, più intricato e ben più difficile da mettere a fuoco. I tifosi di Roma vedono ormai l’impianto di Viale dei Gladiatori come un vero e proprio lager. Se chi non l’ha mai frequentato è abituato a giudicare il mondo da dietro a una tastiera, oppure ama aprire bocca per darle fiato e pontificare su situazioni che non conosce minimamente (tranquilli, è lo sport praticato da gran parte della stampa) si accanisce definendo i fautori della protesta dei “bambini capricciosi che non vogliono il bene della Roma”, chi è abituato a calcare quella gradinate ha conosciuto il triste exploit che ha portato alla morte di tutto quello che l’Olimpico ha rappresentato per i tifosi della Capitale. Una casa trasformata in carcere, una mamma trasformata spesso in aguzzina. Del resto basta consultare i numeri degli ultimi anni e vedere l’immagine dei derby della passata stagione per capire il danno incommensurabile che si è fatto. Semplicemente a Roma non esiste più un “fattore stadio”. E, in tutta onestà, non si può biasimare chi ha scelto di non frequentare più gli spalti. Anche perché in tutto questo quadretto non vanno mai dimenticati ulteriori fattori ostativi: i folli prezzi dei biglietti e le operazioni di marketing alquanto strampalate (vedasi il cambio dello stemma avvenuto senza una minima consultazione e non digerito da buona parte dei supporter) solo per citarne due.

Fa quasi paura, oltre che rabbia, pensare che quello spicchio di stadio da sempre rumoroso, canterino pur sotto di sei gol e fedele ai propri colori malgrado le vicissitudini sportive, possa venir cancellato, con un colpo di spugna, da migliaia di automi con smartphone alla mano, pronti a immortale le gesta dei propri beniamini, ovviamente tenuti a debita distanza. Fa male sapere che il rischio c’è ed è forse il triste avanzare dei tempi, almeno a Roma: la “normalizzazione” tanto chiesta dalle somme istituzioni sarebbe proprio questa. Uno stadio omogeneo, muto, che esulta ai gol e consuma una birra a 7-8 Euro o un panino con carne vecchia di un mese a 5 Euro. Libero cliente in “libero” stadio. I tifosi di curva non sono contemplati in tutto ciò e, fatevene una ragione, se ne sono accorti da tempo. Anzi, lo hanno denunciato in tempi non sospetti. Quando dicevano, a un mondo che li derideva, invitandoli a pensare a cose più importanti, che ben presto anche la vita di tutti i giorni sarebbe stata terreno fertile per gli esperimenti sociali cui da anni erano soggetti. Ma la lungimiranza non è affare romano, figuriamoci se poi a esserne portabandiera sono volgari ragazzetti con la sciarpa al collo. L’abito fa il monaco, eccome.

Bene, senza risultare prolissi: la metastasi di questo malanno iniettato nelle vene degli sportivi romani (ma anche di quelli italiani), non solo sembra non regredire, ma avanza incontrastato. E così si perde una cultura, si insabbiano quelle domeniche in cui la Sud era davvero l’unico motivo d’interesse in una squadra perdente, sfortunata ma conosciuta nel mondo grazie al suo tifo. Difficile tornare indietro, quasi impossibile. Qualsiasi sarà l’epilogo di questa sciagurata era, le curve della Capitale ne usciranno con le ossa rotte, e tante altre stagioni per tifosi da biglietto e non da abbonamento arriveranno prepotenti. Vogliamo negare che il calcio di oggi, almeno a questi livelli, desideri quasi con fare pervertito, la netta sostituzione del proprio pubblico? Saremo maligni, ma per capirci qualcosa e commentare con onestà bisogna esserlo. Bisogna smetterla di trovare scuse a tutto e a tutti e cercare di entrare nelle questioni dalla loro radice. Altrimenti siamo alle prese con un raffreddore non curato, che man mano si trasforma in polmonite e, se ancora ignorato, porta direttamente all’altro mondo. Perché nel 2016 si può ancora morire di polmonite, basta trovare le parole giuste per giustificarlo. Giusto?

Simone Meloni.