Genova, ancora lei. Il mio punto di passaggio venendo da ovest. La mia sicura e silenziosa porta d’accesso a quegli sprazzi di Serie A che ancora si mischiano romanticamente con il sentimento popolare e fanno tremare le labbra e le coronarie di chi solo immagina la parola “derby”. Cosa è il derby per un tifoso? Lo può capire soltanto chi lo vive o lo ha vissuto con tutto se stesso. C’è un filo invisibile che lega le anime di romani, genovesi, milanesi e torinesi: è quello della stracittadina. Chi più e chi meno ha anche solo per una volta considerato questa sfida come la più importante dell’anno, quella con cui salvare una stagione o semplicemente quella in grado di darti in mano una temibile arma letale: lo sfottò da esibire il giorno dopo a parenti, amici e colleghi. Chiaro: più le due contendenti sono povere, scalcinate e senza obiettivi e più una vittoria contro il rivale di sempre assume un contorno poetico e avvincente.

Chi guarda da fuori queste contese cavalleresche le apprezza, le ammira e le invidia. Ma non le può capire appieno. Come ogni cosa che non coinvolge in prima persona le proprie emozioni. Va da sé – inoltre – che io possa comprendere quello di Roma e avvicinarmi ad entrare nel clima di quello genovese – nella fattispecie – ma senza permearvi al cento percento.

Un sole caldo abbraccia il capoluogo ligure facendo volteggiare decine di gabbiani sul Porto Antico; sono sospesi in aria e sembrano anche loro attendere l’evento che per la seconda volta durante la stagione paralizzerà gli sportivi e non che affolleranno le gradinate o i locali dei caruggi. Stretti con gli amici di sempre e uniti dai colori che dall’una e dall’altra parte rappresentano un modo di essere e una fiera contrapposizione al calcio del grigio perpetuo che le nostre istituzioni tanto bramano di somministrarci.

Con le sue gallerie dove passano i lenti regionali che si avvitano sulla costiera ligure, i suoi viadotti e i suoi “svincoli micidiali”, come musicava De Gregori, Genova ha un’aria malinconica. I vecchi filobus articolati che si inerpicano sulle sue salite, faticando mortalmente da Brignole a San Fruttuoso, ti trasmettono l’idea di un’anziana signora che ha voluto conservare con minuzia la propria storia e l’alone lasciato da tutte le genti conosciute durante la sua esistenza. Genova è un po’ così: scorbutica e affascinante come una vecchina che ne ha vissute tante e – fondamentalmente – non vuol tenersi nulla per sé.

Mi è sovente capitato di sottolineare la bellezza di un posto dove a quasi ogni finestra c’è una bandiera rossoblu o blucerchiata. Non posso fare a meno di vederlo oggi. Proprio mentre compro con gaudio un genuino pezzo di focaccia per calarmi ancor più nel clima. È di fatto il mio primo Derby della Lanterna. Ne ho visto un altro, qualche anno fa, con la Nord che però era da poco reduce dai fatti di Genoa-Siena e per l’occasione non offrì il consueto spettacolo, rendendo di fatto monca la partita più interessante: quella delle gradinate. Oggi sarà un’altra storia.

Oggi il derby vale davvero una stagione. Nella nostra insulsa Serie A, quella che a gennaio già ti dice i nomi dei vincitori e dei retrocessi, si giocano oltre tre mesi di vere e proprie amichevoli. Sfide peraltro pericolose – a dirla tutta – nel Paese dove lo scandalo del calcioscommesse riemerge ciclicamente. Pertanto un altro successo della Sampdoria dopo quello dell’andata vorrebbe dire il predominio calcistico per la stagione in corso, mentre un successo del Grifone riporterebbe gli equilibri in paro smorzando sensibilmente la contestazione al patron Preziosi, colpevole di aver venduto i pezzi pregiati nel mercato di gennaio oltre ai “peccati originali” che il tifo organizzato rossoblu ormai da anni gli contesta, e a una squadra rea di aver mollato gli ormeggi sin troppo presto.

Per me, romano, che del derby sono ormai orfano, è un’attesa emozionante. A tratti estenuante.

Da Piazza De Ferrari decido di farmela a piedi. Non c’è una persona in giro che non sfoggi una sciarpa o non parli della partita. L’hanno messa di sabato sera, dopo che lo scorso anno provarono a violare la sacralità dell’evento programmandolo al lunedì. Dovettero fare marcia indietro. Le bacchettone e moraliste istituzioni del calcio nostrano dovettero piegarsi al volere delle televisioni (come sempre gli accade) a loro volta terrorizzate di una sicura protesta delle due tifoserie che avrebbe svuotato lo stadio rendendo poco appetibile uno spettacolo che è conosciuto al mondo per il suo festival di colori, folklore e passione. Quando gli ultras servono diventano dei maestri di tifo e dei “costruttori di spettacoli unici”. C’è sempre tempo per criminalizzarli e devastare la mente dell’opinione pubblica ergendoli a “folk devils”. C’è tutto il resto dell’anno.

La storica galleria che dalla stazione Brignole conduce dritta dritta in riva al Bisagno e – di conseguenza – allo stadio, è nera di gente già due ore prima del fischio d’inizio. Sapete cos’è la passione per il calcio? Se siete abituati a frequentare i teatri sbagliati di questo sport (quasi tutti quelli di Serie A) sappiate che per comprendere l’essenza di questo concetto vi basta camminare a Genova il giorno del derby. Quell’aura di austerità che contraddistingue il genovese medio va quasi perdendosi e ti rimanda indietro di qualche anno. Qua è ancora possibile che un papà giri in macchina con il figlio e gli faccia esporre la sciarpa del finestrino avanzando a suon di clacson. Qua ci sono piazze e lembi di città combattuti. Oggi dipinti di rossoblu, domani di blucerchiato. Oggi con il Grifone stampigliato domani con il Baccicia, lo storico marinaio che appare sull’effige della Sampdoria. No. Genova non è una città calcisticamente vincente, bisogna dirlo con franchezza. Ma Genova ha vinto avendo due squadre che posseggono come alfieri dei veri e propri popoli. Sono marinari entrambi. “Puzzano di pesce”, come gli cantano in giro per l’Italia. Ma da chi è intriso di salsedine trecentosessantacinque giorni l’anno ti devi sempre aspettare il colpo di scena. La passione che prima o poi viene estrapolata dal cuore e dall’anima per fare capolino in un luogo deputato a far emergere i sentimenti, esattamente come delle reti rattoppate ma colme di pescato: lo stadio.

Avete sentito dei botti? Vedete delle torce accendersi qualche metro più in là? Cosa c’è di male? Le tifoserie stano consumando i propri pre partita. Riecheggia il suono di un tamburo tra i genoani. Potesse entrare, su ambo i fronti, riavremmo ciò che ci è stato tolto senza una ragione. Con fare arrogante e prepotente: come avviene all’interno dei nostri confini nazionali. Nulla di nuovo. Potessero rientrare gli striscioni di un tempo riavremmo la nostra gioventù e i nostri sogni, spesso fatti a mille pezzi da burocrati e aguzzini della libertà.

Il cielo nero si illumina con fuochi d’artificio.

Elogiano lo spettacolo delle coreografie, delle torciate e delle fumogenate quando più gli fa comodo, ma nel frattempo invocano leggi più severe per vietare tutto ciò e rovinare la vita di chi vuol festeggiare una rete con folklore: ipocriti millantatori da quattro soldi!

Ho respirato a pieni polmoni l’ambiente all’esterno. Qualcuno sorride, altri sono tesi come corde di violino. Altri fanno finta di niente parlando di altro. Posso entrare, non ho null’altro da chiedere alle vie che circondano il Ferraris.

Credo che quando si è cresciuti in una determinata maniera e si è abituati a determinati modi di vivere lo stadio, queste abitudini non vengano mai meno. È come andare in bicicletta dopo vent’anni: non si dimentica mai. E allora ci si sente pesci fuor d’acqua nel dover mostrare un documento per varcare il cancello di uno stadio o nel doversi prostrare alle volontà di chi ha deciso che il calcio italiano deve essere una materia scientifica e priva d’anima. Ma non ci si sente a disagio nell’osservare i ragazzi delle due gradinate intenti a preparare le coreografie. Non può essere imbarazzante puntare i propri occhi sui lanciacori che fanno scaldare le ugole invitando tutti ad alzare le proprie mani. L’ho detto: Genova ha un non so che di retrò. E a me il retrò fa impazzire, soprattutto nello sport. Soprattutto nella disciplina conservatrice e tradizionalista per antonomasia: il calcio.

Le squadre sono in campo. I giocatori contano i passi compiuti tra i conetti posti asimmetricamente per effettuare al meglio il riscaldamento. Sembra di sentire l’odore dell’erba anche dalla tribuna. Sono sicuro che persino alcuni tra i freddi giocatori del 2017 intuiscano cosa significhi questa serata. Non so se sanno che – soprattutto oggi – una vittoria vorrebbe dire paradiso, una sconfitta inferno vero e proprio. Noi che osserviamo il calcio da una posizione anomala lo diamo forse troppo per scontato. Ho visto centinaia e centinaia di partite, spesso per il puro gusto di farlo e a volte – lo ammetto – solo per vedere un pallone rotolare e sentirmi comunque a casa. Ma non ho mai smesso di immedesimarmi in chi, in quel momento, occupava le tribune degli spalti. A prescindere dalla categoria.

Forse è per questo che non riesco ad immaginare come nella mente di un giocatore non ci possa essere l’ossessione di far gioire chi per una settimana ha sacrificato tempo, soldi e pazienza per preparare una coreografia o degli striscioni. Ma poi sì, è vero, mi rispondo che qui ormai c’è gente pronta a gettarsi tra le braccia del pubblico per una vittoria e testimoniare in tribunale per una contestazione. E allora la storia finisce là. Eppure stasera voglio scrollarmi di dosso tutto ciò. Solo per novanta minuti.

L’attesa è finita. Le squadre scendono in campo. Le coreografie si aprono. L’acre odore delle torce invade i miei polmoni facendomi tornare ragazzino, mentre altri fuochi d’artificio rendono la Sud una polveriera. Che cazzo vi hanno fatto torce e fumogeni? Perché li vietate? Siete fondamentalmente dei malati mentali. Personaggi che passano il loro tempo a pensare come cancellare show come questi.

Il derby ora è iniziato e non coinvolge solo le gradinate. Le persone vicino a me, alcune anche molto “stagionate”, vomitano ogni improperio possibile all’indirizzo degli avversari. Inviti per posti tutt’altro che confortevoli e cattiverie che farebbero storcere il naso a questa massa di cervelli benpensanti che ha ormai deciso di cambiare l’anima apparente degli italiani: a prima vista tutti santoni ed educande, in profondità vuoti, senza cervello e senza emozioni. So di essere, una volta tanto, nel posto giusto al momento giusto. So di trovarmi nel mio habitat, vicino ai miei simili. Siamo tifosi, ci piace il pallone e ci piace lo stadio. Dove sta il problema? Tempo fa sentivo parlare un uomo sul treno, diceva che non gli piaceva il calcio. Cosa farà nella vita? Come può vivere così mestamente? Noi, le bestie incivili e becere che andiamo dietro a undici guitti senza mutande siamo meglio di tante cose che ci sono fuori. Peccato che lentamente ci stiano uccidendo. Normalizzando e conformando la nostra indole.

Cantano le gradinate. Le mani si muovono in sincronia, i bandieroni sventolano al cielo senza sosta. Poco importa che il tepore della giornata venga gradualmente sostituito da un freddo vento che richiederebbe giacche e sciarpe più pesanti. Ci sono le torce a riscaldare l’aria. Non ne ricordavo così tante e fitte da almeno dieci anni. Per un momento ho avuto un flashback dei bei tempi che furono, quando le piste di tartan venivano inondate di questo materiale e persino i telecronisti incensavano la bellezza di tali spettacoli.

In campo lo spettacolo non è certamente edificante, come prevedibile, e nella ripresa Muriel pensa bene di decidere il match facendo letteralmente crollare la Sud. Un’esultanza da punto esclamativo, che scaraventa giovani, signori e signore sulla rete di recinzione, ricevendo idealmente l’abbraccio del funambolo colombiano. Cade nello sconforto la Nord mentre, a questo punto, il popolo doriano mette letteralmente la quinta tirando alla grande fino al triplice fischio. Festa da una parte, rabbia e contestazione dall’altra. Quando vedete i video stilisticamente perfetti di polacchi e russi ricordatevi sempre che a Genova le persone si incazzano e bestemmiano per aver perso un derby o vanno in fibrillazione quando i giocatori avanzano palla al piede. Senza pensare a campionati di lotta greco-romana organizzata nei boschi o a quale palestra frequentare per avere il miglior bicipite o l’addominale più vistoso.

Sebbene la mitomania divori spesso molti aspetti degli ultras italiani, la nostra passione e il nostro spontaneismo ci rendono ancora complessivamente superiori a tante decantate realtà. Vedi anche “robot senz’anima”.

Forse è un’immagine desueta, forse è persino contraria alle assurde regole dettate dagli Osservatori di turno, ma la Sampdoria fa festa sotto la gradinata concedendosi foto e abbracci con i tifosi. Sarebbe bello se tutti capissero che non c’è nulla di criminoso in ciò. Sarebbe intelligente e sacrosanto se tutti capissero (ed avessero l’elasticità mentale per farlo) che anche una contestazione può far parte di questo sport. Perché le grandi passioni e i grandi amori spesso non conoscono vie di mezzo. Ma cosa c’è di male in tutto ciò?

Ora il cielo di Genova diventa rosa se viene illuminato. Perché alcune nuvole lo stanno solleticando mentre il freddo pungente viene dal mare invitandomi ad incamminarmi verso la stazione. Per il ritorno.

La Lanterna ha illuminato il mio soggiorno e mi ha regalato una nottata vecchio stampo. Sento alcuni bomboni scoppiare nel Bisagno: sono i doriani che stanno festeggiando. Mi allontano idealizzando questi boati: sono il calcio italiano che vive in un calcio italiano che muore.

Simone Meloni.