Due articoli si sono succeduti in questi giorni alla ribalta dei cosiddetti onori della cronaca. Due articoli legati a fatti e/o persone riconducibili in certo qual modo al mondo del tifo, seppur distanti fra loro geograficamente o in determinati particolari.

In entrambi i casi, come al solito, la commistione fra la sfera privata e quella pubblica, intesa come frequentazione di un consesso appunto pubblico quale è lo stadio, con tutti i risvolti di visibilità amplificata che ciò implica, risulta se non forzata dai parte dei media, quanto meno strumentale alla solita campagna di terrorismo psicologico contro gli ultras.

Se già non bastasse il carobiglietti come deterrente, qualsiasi arma di distrazione di massa viene utile per smistare interi stadi e metterli a sedere davanti alle tv, nella sicurezza del proprio salotto ad arricchire i padroni del vaporetto. Ma questo non è il punto, ergo andiamo oltre.

Al di là della strumentalizzazione, i due recenti casi sono accomunati da un percorso criminale non indifferente. E non parliamo più della sola violenza fra ultras, che internamente e teoricamente si ammanta dietro una serie di ideali para-cavallereschi.

Nel primo è stato condannato un “ultras” al regime di sorveglianza speciale, per una rissa in discoteca che ha provato a risolvere tirando fuori una pistola. Era solo l’ultimo exploit, visto che proveniva da un passato in cui aveva collezionato ogni tipo di condanna, da assegni a vuoto a maltrattamento di animali, ricettazione, porto abusivo di armi, minacce e violenza.

Per non citare i reati più propriamente calcistici che gli hanno procurato daspo e denunce ma che, come detto, possono avere una retro (o pseudo) motivazione ideologica. Questo almeno in parte, perché, collegata al calcio, c’è anche una condanna per estorsione al proprio club dal quale cercava di ottenere biglietti e altri tipi di trattamenti di favore per il suo gruppo. Ammesso che mai un gruppo ultras, nel senso stretto del termine, possa aver bisogno di trattamenti di favore o di qualsiasi altro tipo di rapporto con il proprio club.

E questo è uno. Il secondo invece ha fatto un po’ più di clamore. Nell’ambito di una lunga e complicata indagine, portata avanti dalla Direzione Distrettuale Antimafia, le Fiamme Gialle hanno operato un sequestro di beni (mobili, immobili, buoni fruttiferi, conti bancari, ecc.) per 2.3 milioni di euro ad un “ultras” già coinvolto in un giro ramificato di traffico internazionale di hashish ed eroina, per il quale è meglio non fare ulteriori considerazioni sulle velleità politico-ideologiche propagandate allo stadio da gente che poi si dichiara avversa ad ogni tipo di droga.

A questo sequestro si è giunti monitorando i redditi dell’indagato, già da qualche tempo in regime di detenzione carceraria, ed il tenore di vita che lo stesso ed i suoi congiunti conducevano. Va considerato che parte dei beni sequestrati potrebbero non essere suoi, ma ascrivibili al clan malavitoso con cui lo stesso si era stretto in sodalizio e con il quale aveva – secondo gli inquirenti – anche tentato la scalata ai vertici dirigenziali della propria squadra qualche tempo addietro.

In tutto ciò, a rendere ancor meno sereno il quadro, c’è il fatto che il soggetto in questione ha rimpinguato le proprie casse personali mercificando il logo del proprio gruppo ultras in ogni possibile declinazione fattasi gadget. Aspetto quest’ultimo su cui il mondo ultras si è sempre trovato monoliticamente concorde, rigettando l’idea di svilire il simbolo che incarna le proprie lotte domenicali e ridurlo ad un telo mare o altra pacchianata simile. Ancor più se rivenduto in maniera massiva, compreso a chi poi – da tifosotto medio – vive in antitesi agli ultras e spesso ne diventa parte avversa in casi limite come contestazioni o scontri allo stadio.

Ben più difficile e delicato è parlare di questioni criminose, se è vero che la Curva è spesso una “livella” – per usare una parafrasi che fu del De Curtis-, che azzera differenze sociali, culturali, politiche; un contenitore di umanità così varia in cui ci puoi trovare studenti e professionisti, disoccupati, professori ed ovviamente anche gente abituata a sbarcare il lunario in bilico sul filo della legalità, spesso sorpassandolo bellamente.

Ce ne sono stati di ragazzi di stadio, a volte anche esponenti di spicco del proprio gruppo, che hanno avuto problemi con la giustizia per cause che invece con lo stadio non avevano nulla a che fare. Nella stragrande maggioranza di questi casi, senza che il gruppo (o l’intero mondo ultras) ne uscisse così smerdato, perché nel frattempo essi avevano scelto di fare i Banditi a tempo pieno e non di tenere comodamente il piede in due scarpe.

In questa comunità che si cementa di partita in partita, i cui vincoli si saldano ad ogni trasferta, ad ogni panino o ad ogni manganellata divisa, l’istinto primario è quello solidaristico, di stringersi intorno al proprio compagno di strada ed essergli di sostegno quando la sorte si fa avversa. Detto questo, si capisce ogni tipo di azione che muove in tale direzione, dalla semplice visita ad alleviare i giorni sempre uguali ed alienanti del carcere fino al supporto economico per affrontare le spese processuali.

Esiste però un altro aspetto a cui una famiglia non si può esimere a seguito del primo istinto di protezione, un dovere che chiunque ha nei confronti dei propri fratelli, cioè quello di metterli di fronte alla dura ed evidente realtà delle cazzate che commettono, perché sennò si varca un altro margine molto sottile, ossia quello tra la solidarietà e la connivenza amorale. Sempre se si vuol percorrere il cammino con questo fratello all’interno del solco familiare, sennò è giusto che ognuno faccia la propria strada senza essere psicologicamente di peso all’altro, tanto sarà sempre il sangue e non la differenza di destini a sancire i vincoli e l’affetto più puro o semplice.

Ci sono cose che esulano abbondantemente dal seminato delle azioni e delle dinamiche ultras, che non hanno un’etica in qualsiasi verso le si guardi e cercare iperboli da “Romanzo Criminale” per giustificarle è qualcosa di veramente ridicolo, più patetico di certe sceneggiature raffazzonate e mitizzanti del nulla. Non parlo ovviamente di giudicare da un punto di vista umano queste persone: non ne è quasi mai all’altezza nemmeno chi veste i panni del giudice per mestiere, figurarsi noi commilitoni di errori, abbagli e avventatezze. Però, per una mera questione di amor di quella patria che è la curva, dovrebbe essere la curva stessa ad estromettere certa gente dai piani alti delle gerarchie di gruppo. In linea teorica, anzi, dovrebbero essere loro a farsi da parte per evitare che l’onta delle proprie scelte di vita personali (legittime fino a quando ci si assume la responsabilità che ne può derivare), ricada su altra gente che invece con esse non c’entra niente.

Se nella tua logica che altri non comprendono, ritieni che spacciare fumo non sia una scelta di vita deprecabile o contraria agli ideali di cui parli, fallo pure; ma se sfrutti la tua visibilità allo stadio per incrementartene il tuo giro d’affari, allora siamo già di fronte ad un evidente conflitto di interessi; e se nessuno ti dice mezza parola, allora o ne ha qualche interesse pure lui, oppure è inevitabile che si prenda secchiate di offese, a mezzo striscione o coro, da parte di fazioni avverse.

Se stampi quantità industriali di capi d’abbigliamento o di paccottiglia “souveniristica” che manco nelle più laide feticizzazioni religiose sono capaci di produrre, e a distanza di anni ancora sei lì a ricontare i mucchi di soldi, quel conflitto d’interessi comincia a diventare grosso come una casa. O come una di quelle ville sequestrate dall’Antimafia.

Più di qualche pezzo del puzzle non combacia più, se si considera che nel frattempo ci son ragazzi che per quei colori si sono presi tante di quelle diffide che il corrispettivo di quei soldi li sta ancora spendendo in avvocati. Con la beffa che poi devono pure portarsi la pesante etichetta altrui di mercanti del tempio. E non è giusto. Perché in fondo, come si dice, i figli non dovrebbero mai pagare o essere giudicati per le colpe dei propri genitori (tanto per restare all’interno di metafore parentali).

Però, d’altro canto, se certa gente non ha il buon senso di evitare che i propri schizzi di merda ricadano sugli altri e se questi altri se ne stanno lì tranquilli a prenderseli, contenti loro e contenti tutti. Così contenti che dovranno tenersi anche le badilate di schifosi luoghi comuni dei media o le accuse irrigettabili dei rivali.

Potremmo, come ultima preghiera della sera, perfino farci carico del posticcio motto e ricordarci che fare l’ultras è reato, ma se questo reato è lo spaccio di droga, il traffico d’armi o altro di diametralmente distante da una rissa di strada, stiamo forse facendo troppa confusione fra reati idealistici, reati d’opinione, reati d’impeto passionale, reati persino vandalistici, se vogliamo, con quelli che invece sono reati da delinquenza vera e propria, spesso di altissimo profilo criminale.

Puoi pure vivere la strada e conoscerli amaramente e da vicino certi lati oscuri, non augurarti mai la galera o sperare che non impazzisca tra le sbarre uno che ti ha salvato da un pestaggio sicuro, sostenerlo moralmente o materialmente in questa sua resa dei conti ineludibile. Però, veramente, smettiamola con questa puttanata del mischiare con l’ultras ciò che ultras non è, sennò veramente non abbiamo ragione di lamentarcene quando lo fanno i giornalisti e l’opinione pubblica che ne sanno meno di noi.

Matteo Falcone.