La parola nel vocabolario calcistico riesce a mutarsi a seconda dei decenni: aforismi, invenzioni lessicali accompagnano le gesta degli uomini di sport siano essi presidenti, allenatori e calciatori.

L’utilizzo nell’ambito giornalistico di definizioni che si legano ad un preciso calciatore, o ne raffigurano altri, è cosa comune. Lo era anche ai tempi di una raffinata letteratura giornalistica: si pensi a Brera che diede dell’abatino a Rivera; però parliamo di anni, uomini e contorni lontani da logiche di mercato così fortemente schizofreniche come quelle di oggi.

Uno dei termini più “inglesistici” è quello dei bad boys del calcio; nell’idea del mito sono stati identificati personaggi come George Best, Eric Cantona o una presenza che divenne molto conosciuta nel panorama italiano, Paul Gazza Gascoigne.

Il comun denominatore che li rese iconici per molte generazioni è quella loro capacità di racchiudere l’estro della più cristallina classe con un carattere sopra le righe, anarchico a qualsiasi bon ton in campo e fuori, senza mai però venire meno alle proprie responsabilità; i tabloid non risparmiavano critiche aspre e continue a questi fuoriclasse.

Una tendenza di questi anni è quello di snaturare il concetto di bad boy, in particolar modo nella stampa italiana: figure di calciatori con doti tecniche in prospettiva e attaggiamenti isterici, social-addicted, ovattati da qualsiasi critica. Prima è stato Balotelli, ora affiora la figura di Mauro Icardi.

Il contenuto di uno stralcio di una sua precoce (visti i 23 anni) biografia, intitolata “Sempre avanti, la mia storia segreta” accende gli animi dell’opinione pubblica. Questo il passaggio che costituisce la panacea di tutte le critiche piovute sul giocatore interista:

«A fine partita ho trovato il coraggio di affrontare la Curva, insieme a Guarin. Mi tolgo maglia e pantaloncini e li regalo a un bimbo. Peccato che un capo ultrà gli vola addosso, gli strappa la maglia dalle mani e me la rilancia indietro con disprezzo. In quell’istante non ci ho più visto, lo avrei picchiato per il gesto da bastardo appena compiuto. E allora inizio a insultarlo pesantemente: “Pezzo di merda, fai il gradasso e il prepotente con un bambino per farti vedere da tutta la curva? Devi solo vergognarti, vergognatevi tutti”. Detto questo gli ho tirato la maglia in faccia. In quel momento è scoppiato il finimondo. Nello spogliatoio vengo acclamato come un idolo… I dirigenti temevano che i tifosi potessero aspettarmi sotto casa per farmela pagare. Ma io ero stato chiaro: “Sono pronto ad affrontarli uno a uno. Forse non sanno che sono cresciuto in uno dei quartieri sudamericani con il più alto tasso di criminalità e di morti ammazzati per strada. Quanti sono? Cinquanta, cento, duecento? Va bene, registra il mio messaggio, e faglielo sentire: porto cento criminali dall’Argentina che li ammazzano lì sul posto, poi vediamo”. Avevo sputato fuori queste frasi esagerate per far capire loro che non ero disposto a farmi piegare dalle minacce. Una settimana dopo un capo storico viene da me: pretende ancora le mie scuse. “Non devo chiedere scusa a nessuno di voi, se vi va bene perfetto, altrimenti ciao… Oggi fra me e i tifosi della Nord c’è rispetto reciproco, come è giusto che sia. Anche loro hanno un ruolo importante per il successo della squadra…».

L’accaduto si riferisce alla gara dello scorso campionato al Giglio di Reggio Emilia (ora Mapei Stadium) dopo l’incontro Sassuolo-Inter del Febbraio 2015.

Mauro Icardi ha ereditato la fascia di capitano dell’Inter da J.Zanetti; ciò dovrebbe dare maggior responsabilità ad ogni sua parola, oltre a quella che già dovrebbe detenere visto il suo status di atleta professionista pagato lautamente in uno dei maggior club d’Italia.

Mettere nero su bianco quello che risulterebbe, oralmente, essere uno sfogo, significa poi attuare una presa di posizione: allora può risultare più grave rigettare una maglia in campo, come simbolo di contestazione seppur vibrante, ma che non sfocia in violenza, come fece la tifoseria nerazzurra lì a Reggio Emilia nel dopo gara, oppure lo è di più una chiamata in prima linea di una squadriglia di latinos abili non certo in rapporti diplomatici?

Se la parola ha valore sia per tifosi che per i calciatori allo stesso modo, converrete con me che una minaccia, scritta nero su bianco, di certo non può essere stigmatizzata con la facilità consequenziale con cui generalmente si butta fango sui tifosi. Ogni parola deve avere un peso.

Non può chiudersi tutto dopo una posizione così netta da parte dell’argentino, con le solite dichiarazioni social di dietrofront su Instagram, ed i mass media che sembrano ancora una volta girare la frittata aizzando un polverone contro i tifosi rei di contestare, come se ciò fosse motivo di colpevolezza.

Il lessico calcistico, si arricchisce di definizioni che si legano a protagonisti del calcio di ogni epoca; forse l’appellativo bad boy è ormai inadatto: questi calciatori in realtà sono costantemente deresponsabilizzati da ogni azione sopra le righe e protetti da procuratori, società e giornali: più è alto il valore economico del tale e più c’è una tutela dello stesso.

Risulterebbe più giusto definirli enfants, non per il loro prodige così acerbo per via dell’età, quanto per la loro inadeguatezza nell’essere concepiti come professionisti, ancor di più nel ruolo etico di capitani.

Gian Luca Sapere