Irriducibili Lazio: Uno dei gruppi più famosi del movimento Ultras italiano e su cui s’è più detto e scritto. Amati, odiati, innovatori e influenti, gli Irriducibili sono un gruppo ricco di storia ma anche di contraddizioni. Nel corso dei decenni – dalla fondazione avvenuta nel 1987 – gli IRR (questo il loro acronimo) hanno attraversato varie fasi che li hanno condotti – per propria volontà e per accadimenti a essa estranei – a divenire assai diversi dalle “intenzioni” degli esordi.

Premetto, prima di cimentarmi nei paragrafi successivi, che quanto scrivo è frutto unicamente delle mie impressioni e della mia “sensibilità”, dunque le righe che seguono non hanno alcuna pretesa accademica o di “verità assolute” ma rappresentano soltanto quello che io ho ricevuto in termini di “impressione” dal gruppo oggetto di questa presentazione. Non ho mai vissuto il movimento Ultras romano e ho visto i laziali sempre e solo da lontano e il mio parlare di loro è il risultato di chi sta a centinaia di chilometri dalla Capitale.

In una prima fase coincidente coi primi anni, s’è assistito a quello che – come spesso accade un po’ per tutte le cose agli inizi – potremmo tranquillamente definire il periodo più bello e “romantico” del gruppo che andava muovendo i suoi primi passi e che s’inventava da sé, giorno per giorno, mettendosi in evidenza quale “elemento di rottura” verso un passato ancora legato a forme di sostegno più folkloristiche e meno estreme. Erano anni bui per la Lazio, in termini di risultati e il più antico club romano annaspava in Serie B, ma erano anche anni straordinari in quanto a partecipazione popolare al seguito delle aquile biancocelesti: era una “Lazio operaia” che proprio in quelle turbolente stagioni in cadetteria – dove spesso la sua tifoseria creava scompiglio, in casa e fuori – forgiò la propria tempra che l’avrebbe condotta, circa un decennio dopo, a divenire una delle squadre italiane più forti e temibili, capace di conquistare – oltre a cinque Coppe Italia: 1998, 2000, 2004, 2009 e 2013 – il secondo Scudetto della sua storia (dopo quello dell’era Chinaglia del 1974) nella memorabile stagione 1999/2000 e iscrivendo altresì il proprio nome tra i club più prestigiosi d’Europa, vincendo l’ultima edizione della Coppa delle Coppe (che dopo d’allora “confluì” nella Coppa UEFA/Europa League) stagione 1998/99 e una Supercoppa UEFA sempre nel ’99.

La seconda fase – comprendente anche quegli anni in cui la side laziale aderì in maniera pressoché netta al cosiddetto tifo all’inglese, che da Verona si stava propagando a macchia d’olio in tutta la Penisola e che vide per qualche tempo anche gli Irriducibili non esporre più il proprio striscione, sostituito da miriadi di drappi – copre quel periodo che grossomodo va dai primi Anni ’90 ai trionfi nazionali ed europei di cui sopra, periodo in cui gli Irriducibili, da gruppo per così dire “elitario”, man mano andarono a infoltire le proprie fila mietendo sempre più proseliti, sottraendo seguito e potere all’altra “anima” del tifo biancoceleste (con cui spesso entrarono in contrasto, anche aspro) che dalla fine degli Anni ’70 guidava la Curva Nord, gli storici Eagles’ Supporters. Con l’uscita di scena di quest’ultimi nel 1993, gli Irriducibili divennero gli indiscussi timonieri della Nord capitolina e – loro che erano nati su un “muretto” del vecchio e inimitabile Stadio Olimpico e che inizialmente potevano contare su qualche centinaio di teste – si ritrovarono a coordinare il tifo in una delle Curve più grandi e numerose d’Italia e d’Europa, con risultati – in termini numerici e di apporto – assolutamente straordinari.

Parallelamente ai trionfi della squadra e a una Curva, la Nord, carica d’entusiasmo e tifo come mai s’era visto prima d’allora, e che faceva letteralmente stropicciare gli occhi d’incredulità a tutti in quegli anni, crebbe anche una nuova generazione di Ultras che sempre più andava curando il proprio materiale da stadio – caratteristica rimasta inalterata nella Roma calcistica, su entrambe le “sponde” del Tevere – e che era attenta anche al modo di vestire, che divenne non meno importante del tifo stesso. Non dico che la Nord di quel periodo divenne una passerella di moda, come malignava qualcuno, però ci si teneva ad apparire in un certo modo anche per differenziarsi dai dirimpettai (parliamo ovviamente della Curva Sud dell’AS Roma) accusati di essere “coatti”: due modi diversi d’esprimere la propria “romanità”. Un gioco e una provocazione che durarono per lunghi anni e che scrissero pagine bellissime e indimenticabili del nostro movimento Ultras, facendo avvicinare allo stadio e alla relativa cultura migliaia e migliaia di ragazzi in tutta Italia. Anni che furono assolutamente irripetibili per quanto concerne la bellezza del derby capitolino che si consacrò – come e più che in passato – quale il più importante e affascinante del nostro Calcio per l’atmosfera unica che riusciva a generare soprattutto sugli spalti… una sorta di Old Firm italiano.

Sulla scia d’un pubblico e d’una gioventù da stadio che sempre più andava crescendo e sempre più s’interessava di tutto ciò che gravitava intorno alla Lazio e al suo tifo, crebbe la “domanda” di materiale (inteso come sciarpe, cappellini, giubbotti, magliette, adesivi e gadget vari) che per la prima volta – almeno a livelli così vasti – vide proprio gli Ultras laziali stessi scendere in campo, con l’apertura di negozi in pieno centro di Roma e con un “volume d’affari” che sicuramente era altra cosa rispetto alla classica vendita del materiale del gruppo come sempre c’è stata e ci sarà fuori dalle Curve per fare autonomamente “cassa”  finanziando tutte le attività Ultras legate al proprio club. Gli Irriducibili, o quantomeno parte di essi, divennero (per propria stessa ammissione) un po’ dei manager di sé stessi e del proprio materiale, andando forse in conflitto con quelle che erano le premesse iniziali dietro cui era nato il gruppo, in una prima fase “duro e puro” (e secondo cui il materiale va “sudato” con la militanza e non dato in vendita a chiunque) e che certamente non avrebbe visto di buon occhio una deriva commerciale in tal senso da parte del gruppo stesso che – onestamente e al di là d’ogni polemica o partigianeria nei confronti d’una tifoseria che ammiro da sempre e che le decine di disegni presenti in questa stessa rubrica comprovano senza tema di smentita – perse un po’ il lume e il controllo della situazione.

Tali contraddizioni furono prontamente sfruttate dai nemici degli Irriducibili – soprattutto dai romanisti che da anni assistevano nella Città Eterna a una progressiva e per loro preoccupante escalation del tifo laziale – che gridarono allo scandalo e al “tradimento” di quel codice non scritto che dovrebbe essere alla base dell’essere Ultras ma che – sistematicamente e senza possibilità di soluzione, secondo me – è soggetto a diverse interpretazioni per cui è facile dire una cosa o il suo contrario e farla passare per “buona”. Un po’ quello che fecero gli Irriducibili di quel periodo che, da parte loro e con argomenti talvolta pretestuosi, non videro nel loro lato più manageriale un qualcosa di sbagliato o un tradimento della purezza iniziale degli Anni ’80. Resta altresì da dire che tante tifoserie e gruppi italiani, spesso debitori nei confronti degli Irriducibili in termini di innovazione e attitudine curvaiola, che nel corso degli anni tacciarono il gruppo laziale di incoerenza apostrofandolo con epiteti poco simpatici (“Irriducibili SpA” docet) a conti fatti (e magari sottobanco) si comportarono allo stesso modo facendo le medesime cose che andavano criticando nei loro avversari. Un po’ come successe, in ambito politico, con l’operazione Mani Pulite che vide additati come mostri determinati personaggi (il leader socialista Bettino Craxi su tutti) sbattuti in prima pagina e sottoposti a pubblica gogna, accusati anche da coloro che fino al giorno prima godevano e sguazzavano in quello stesso sistema di corruzione che adesso aborrivano, spacciandosi per bianche colombe.

Dopo i fasti dell’era Cragnotti e dopo l’avvicendamento societario con l’attuale presidente Lotito – inviso a quasi tutta la piazza biancoceleste e odiatissimo dalle frange più Ultras che ne hanno ripetutamente chiesto la testa – la parabola degli Irriducibili (insieme a quella del club) ha conosciuto una fase discendente che ha di molto ridimensionato – sia in termini numerici che di potere e prestigio – il gruppo, portandolo, per propria stessa decisione, a marginalizzarsi all’interno della Curva lasciando la “prima linea” ad altre sigle e sottosigle che da sempre popolano l’universo Ultras laziale. E col mitico striscione con scritta bianca IRRIDUCIBILI su fondo blu che di tanto in tanto faceva capolino tra le gradinate, apparendo ed eclissandosi per periodi più o meno lunghi, con andamento carsico.

Infine, la fase più recente, coincisa con le celebrazioni per il trentennale del gruppo (festeggiato per l’appunto nel 2017) e che ha visto gli Irriducibili tornare in pianta stabile al timone della Nord, in casa come in trasferta, riportando immediatamente un perduto entusiasmo in un ambiente che – in tutta onestà bisogna riconoscerlo – ha sofferto e non poco per la loro assenza. L’attuale Curva Nord laziale pare aver ritrovato finalmente la sua guida e – pur con tutte le difficoltà congenite nell’attuale frangente temporale del nostro Calcio, svuotato di pubblico e valori e lontano anni luce dai bei tempi che furono – può respirare sicuramente un’aria più serena dopo il periodo che l’ha vista un po’ priva di riferimenti.

Della “lezione” lasciata in eredità dagli Irriducibili siamo tutti un po’ debitori. Un gruppo realmente diverso e sotto molti aspetti “rivoluzionario”, soprattutto nella sua fase iniziale che in quanto a impatto sul mondo Ultras e tensione emotiva rimane di gran lunga il periodo migliore. Inizialmente gli IRR parevano quasi un gruppo di quartiere, settario e distante dal “potere” mainstream che in quella fine Anni ’80 era rappresentato, nella Curva laziale, dagli Eagles’. Ai primi Irriducibili si devono parecchie “novità”, in seguito divenute consuetudini e abbracciate praticamente da tutti in Italia e che appaiono oggi normali. I “cortei” fatti in un certo modo nelle partite in trasferta, quando magari s’arriva col treno e dalla stazione al settore ospiti dello stadio rivale si sfilava tutti inquadrati dietro lo striscione… è un’invenzione degli Irriducibili; in tal senso è rimasta memorabile una foto assai suggestiva e affascinante che ha letteralmente fatto epoca – riprodotta anche su magliette e adesivi – della prima trasferta del gruppo nella nemica San Benedetto del Tronto, tutti inquadrati dietro lo striscione. Le sciarpe modello “popular”, a listarelle verticali per intenderci – di britannica memoria – sono, in Italia, un’ “invenzione” irriducibile, in un mondo Ultras che fino ad allora aveva conosciuto soltanto le più classiche sciarpe con scritte e strisce sviluppate prevalentemente in orizzontale. Anche nell’ “atteggiamento” sugli spalti gli IRR furono innovatori: la consuetudine di reggere lo striscione in mano durante le partite, staccandolo dalla vetrata o balaustra, è un’altra loro “intuizione”.

Anche nei frangenti più “easy” il gruppo capitolino s’è sempre mostrato diverso dagli altri: come nel caso della loro universale mascotte, Mr Enrich, il collerico omino scalciante e con bombetta, preso da un fumetto inglese sconosciuto ai più ed eletto a loro icona… Un’immagine a suo modo unica e originale che si staglia in maniera netta e differente in un mondo Ultras che spesso ha vissuto e vive su cliché abusati che hanno nell’eccessiva ripetizione e omologazione il proprio tallone d’Achille.

Ultimo ma non ultimo: il nome. IRRIDUCIBILI, una nomenclatura originale e mai usata prima in ambito Ultras, che ha fatto epoca e scuola, imitatissima ancor’oggi e che fino a quella fine Anni ’80 apparteneva unicamente all’universo terroristico italiano, retaggio degli Anni di Piombo: irriducibili, così erano chiamati dalla stampa e dai media dell’epoca i più oltranzisti, duri a morire e anti-delatori tra i militanti delle vecchie Brigate Rosse.

E soprattutto gli Irriducibili sono stati un gruppo totalmente sui generis, antesignani di tutti quei gruppi che fanno della “cattiveria” un proprio carattere distintivo, geneticamente allergici al politically correct, si sono spesso scontrati con l’opinione pubblica più bigotta e bacchettona che spesso (anzi: sempre) appare incapace di “leggere” tra le righe di determinati comportamenti, fermandosi esclusivamente alla superficie e all’aspetto più sensazionalistico e scandalistico di determinati comportamenti. Quindi, al netto di una marcata identità “politica” di cui il gruppo non ha mai fatto mistero, resta da dire che i bomber neri, le braccia tese nel saluto romano, le celtiche e i ritratti del Duce, i cori inneggianti al Ventennio, gli ululati “razzisti” ai calciatori di colore e tutte le immagini e gli striscioni provocatòri, irriverenti e politicamente scorretti ciclicamente appannaggio degli Irriducibili, andrebbero inquadrati e interpretati in una logica e ritualità da stadio che assumono una valenza e un significato del tutto diversi rispetto a quello che potrebbero avere nella cosiddetta “vita reale” (e la controprova di ciò è facilmente riscontrabile nelle innumerevoli raccolte fondi, iniziative benefiche e campagne di sensibilizzazione a difesa di Uomini e animali, per i diritti degli ultimi e dei più deboli, di cui gli IRR si sono sovente fatti carico e per cui la solita stampa faziosa chiude gli occhi fingendo di non sapere).

Un voler essere contro, un non volersi mai piegare al Sistema (qualunque esso sia), “non diremo mai sissignore” (come recitava un loro vecchio slogan), per un gruppo totalmente e perennemente all’”opposizione” del comune pensare e della comune retorica. Un gruppo talmente avvezzo a essere “contro”, una filosofia di vita talmente radicata sottopelle che in una Curva Eagles’ li portò a essere in 50 totalmente differenti dal contesto. E decenni dopo, in una Curva irriducibile, quelle stesse persone tornarono a essere quei soliti 50 totalmente differenti dalla maggioranza… Quest’ultima cosa che ho scritto, ricordo di averla letta pressappoco negli stessi termini in una loro vecchia intervista, che mi colpì molto, su una rivista di tifo specializzata. Un “paradosso” quello dei “soliti 50” che – a mio avviso – la dice lunga sull’indole del tifoso laziale più oltranzista che, in una maggioranza di persone, è sempre un po’ più “avanti” sui tempi, sostanzialmente e concettualmente, teso – talvolta anche inconsapevolmente – alla conquista di nuove avanguardie di pensiero e differenti modi di sentire e vivere il proprio credo.

Un’altra cosa che mi preme dire sugli Irriducibili è che sono stati un gruppo “vero”, di gente “vera” che veniva dalla strada. Alcuni dei suoi esponenti hanno anche patito il carcere o sono stati coinvolti in fatti di cronaca legati alla criminalità (pagando, qualcuno, con la vita). Ognuno poi è libero di idealizzare o esecrare determinati comportamenti, non è certo questo il mio scopo né la sede in cui farlo, voglio soltanto palesare che parliamo di “ragazzi” autentici che vivono o hanno vissuto la realtà della strada in una città stupenda e unica sotto molti aspetti, ma anche molto dura da vivere e dove se non hai gli “attributi” giusti finisci stritolato negli ingranaggi del “sistema” o peggio fai la parte della pecora.

Gli IRR sono stati per tanti anni un focolaio di ribellione, dei veri combattenti a livello fisico e mentale, a loro modo: dei rivoluzionari degli spalti. La tifoseria laziale è sempre stata, storicamente e tradizionalmente, tosta e scorbutica da affrontare per chiunque, però se oggi i laziali hanno una determinata e peculiare fama anche oltre gli italici confini, molto del merito lo si deve proprio a questo gruppo così intransigente e atipico. Certo, come in tutte le grandi Curve (e non solo) c’è di tutto nella massa Ultras più o meno eterogenea e non tutti sono pronti a tutto… la maggioranza dei ragazzi che seguono il tifo sono persone più che tranquille, desiderose soltanto di divertirsi e tra loro c’è anche chi – come scriveva il grande Nick Hornby – non ha mai dato un pugno in vita sua… Di contro, però, c’è anche la “prima linea”. E la prima linea degli Irriducibili, una delle più risolute in circolazione, ha sempre fatto la differenza.

Venendo finalmente al disegno: ho voluto rendere omaggio agli Irriducibili con una grafica che richiamasse alla mente elementi tipici del materiale del gruppo da una parte, mentre dall’altra potesse “aggiungere” un qualcosa di mio e diverso. Ho quindi per un attimo messo da parte il simpatico Mr Enrich e ho momentaneamente accantonato l’Aquila Imperiale o il bellissimo logo sociale della Lazio (uno dei migliori in circolazione); quest’ultima “omissione” è funzionale anche a voler creare un disegno dalla forte impronta Anni ’90 (il periodo in cui gli IRR conquistarono il “potere” in Curva Nord). Ho dunque posto sulla parte destra l’immagine – molto fumettistica e in questo, a ben vedere, non così lontana da Mr Enrich – d’un legionario romano, barba sfatta, espressione corrucciata e ghigno di disappunto di chi è davvero sulla soglia d’una battaglia o quantomeno d’una sana scazzottata; questo l’elemento che costituisce una “novità” (per quanto, se la memoria non m’inganna, oltre a immagini e coreografie in cui la Nord ha ricordato al mondo la propria romanità e il proprio illustre quanto antico passato, in alcuni frangenti lo stesso Mr Enrich ha talvolta indossato i panni del legionario con tanto di elmo e gladio). Nella parte rimanente del disegno, ho tirato un lungo “striscione” blu, utilizzando (per quanto possibile) una tonalità di colore che ricordasse, quanto più da vicino, il primo, mitico striscione del gruppo. All’interno – in un font cubitale e preciso, già utilizzato per il proprio materiale dal gruppo stesso in passato – ho inserito, in bianco, una doppia riga con le parole indicative di nome del gruppo, settore di stadio d’appartenenza e anno di fondazione. Nella parte sinistra, invece, tre piccole righe recanti i colori della nostra bandiera nazionale, sempre cara all’intera tifoseria biancoceleste e che – nello specifico – dona una maggiore “luce” al disegno.

Ultras Lazio: Proseguendo il discorso fatto per un disegno presente nella scorsa puntata di questa stessa rubrica (One Step Beyond #41), vale a dire “AS Roma …eredi di un impero!”, ho voluto anche in questo caso seguire la “fascinazione” della Roma Imperiale che – come detto anche l’altra volta – ritrova riscontri nel tifo da stadio sull’una e l’altra “sponda” sportiva del Tevere.

Questa volta, invece del classico legionario (com’è questione per il disegno immediatamente precedente a questo) ho preso in “prestito” uno dei monumenti più importanti e famosi al mondo, il Colosseo, nonché uno dei simboli di Roma e dell’Italia.

L’Anfiteatro Flavio – questo in realtà il suo vero nome, s’iniziò a chiamarlo Colosseo soltanto in epoca medievale – costruito per l’appunto in epoca Flavia (cioè quel periodo temporale che vide la nobile famiglia dei Flavii Vespasiani regnare su Roma dal 69 al 96 d.c.) fu iniziato dall’imperatore Vespasiano nel 72 d.c, inaugurato da Tito nell’80 e parzialmente modificato negli anni successivi sotto il regno di Domiziano.

L’Anfiteatro Flavio – all’epoca chiamato semplicemente Amphitheatrum – era il più grande “stadio” del mondo allora conosciuto e resta la vestigia più importante e imponente dell’Antica Roma. Poteva contenere fino a 75.000 spettatori ed era utilizzato principalmente per le lotte tra gladiatori, per le lotte tra quest’ultimi e belve feroci e per le esecuzioni di poveri sventurati sempre a mezzo di belve feroci a cui venivano gettati, inermi, in pasto.

Al di là della vera valenza dell’Anfiteatro Flavio – a ben vedere un luogo di morte e supplizio per decine di migliaia di uomini e animali che, se all’epoca poteva “divertire” e sviare le folle (panem et circenses), oggi invece ci inorridisce – la sua presenza e la sua “icona” indistintamente fotografata, rappresentata sotto forma di statuette, souvenir, stampata in serie su magliette e gadget  d’ogni genere, rappresenta in realtà un simbolo universale dell’indiscutibile unicità e bellezza della nostra Capitale.

Inevitabile che le tifoserie di entrambi i club principali dell’Urbe Immortale, l’AS Roma e la SS Lazio, ne abbiano fatto “uso” per il proprio materiale “tifologico”e per affermare la propria presunta superiorità sull’avversario e sul fatto che a Roma esiste soltanto l’uno o l’altro club… è il gioco stesso del tifo che porta a questo, che affonda le proprie radici ai primordi del Calcio e che mai finirà; rivalità che è essenza stessa del nostro meraviglioso sport preferito.

Nel disegno in questione: ho posto l’immagine del Colosseo, colorata in blu, in posizione centrale e preminente su un rettangolo pezzato verticalmente e disequamente nei colori sociali della SS Lazio, il bianco e il celeste. Nell’incavo in alto a destra del monumento, formato dalla cinta muraria perimetrale più esterna che va a un tratto a interrompersi degradando repentinamente verso il basso, ho posto i logo sociale del più antico club calcistico romano. Alla base del Colosseo stesso, invece, nel medesimo blu, è una cubitale scritta ULTRAS che sia compendio e rappresentazione dell’intera tifoseria, senza distinzione di settore. Una sottile cornice, pure blu, delimita e chiude l’insieme. Un modo per dire: la città di Roma e la Lazio sono un’unica cosa. Un bell’espediente per coniugare tifo e Storia, al di là della contingenza del disegno, per non dimenticare mai le profonde radici storiche della nostra Penisola, della nostra cultura e del nostro popolo.

Taranto 1927: Attraverso questo disegno, torniamo a parlare del Taranto Calcio e della bellissima Città dei Due Mari.

Impostato quasi come fosse una bandierina, questa grafica mi è stata ispirata – nella forma e nella giocosità del contenuto – dalle vecchie e mitiche Figurine Panini che tutti abbiamo amato da bambini.

Ho scelto come elemento centrale il delfino, da sempre emblema del club rossoblu. Questo simbolo sportivo è a sua volta mutuato dallo stemma comunale di Taranto, città di origine greca e che leggenda vuole sia stata fondata dall’eroe mitologico Taras, figlio di Poseidone (il Dio del Mare) che dopo essere giunto sulle sponde ioniche dell’attuale Puglia, nei pressi di un fiume, mentre offriva sacrifici animali per ringraziare il dio-padre del buon viaggio portato a termine, vedendo guizzare fuori dalle acque un delfino e interpretandolo quale buon auspicio e intenzionato a fondare una città, nei pressi diede vita alla prima comunità di Uomini che poi sarebbe divenuta Taranto.

Per questo nello stemma cittadino, la divinità marina Taras è raffigurata in “groppa” a un delfino, mentre stringe nella mano sinistra una clamide (questo il nome del mantello utilizzato dai greci in battaglia) e nella sinistra brandisce un tridente (simbolo del mare e del suo dio Poseidone/Nettuno, a seconda dell’interpretazione greca o romana).

Spesso nella raffigurazione sportiva – come nel disegno in oggetto – è stato mantenuto soltanto il delfino, talvolta associato all’immancabile pallone da Calcio. Ho voluto anch’io darne un’interpretazione in tal senso e in più il “mio” delfino presenta anche un tocco ironico dato dal ghigno che gli solca il “viso”. Una versione molto cartoonesca e ammiccante, la mia, che spero non dispiaccia ai tanti tifosi rossoblu. Un delfino che appare nell’atto di compiere una “virata” guizzante, pronto a imbastire una rapida manovra di gioco puntando deciso alla porta avversaria, col suo pallone old style, di quelli a spicchi, tanto caro ai vecchi calciofili del bel football che fu dei nostri padri e – in quanto a fascino – inversamente proporzionale alla bruttezza dei soccerball attuali.

Lo sfondo è dato da un’ipotetica bandiera rossoblu, pezzata verticalmente, mentre nella parte bassa – bianca e in un font cubitale e dinamico insieme – la semplice dicitura TARANTO priva di sigle acronime (FC, AS, US ecc.) per un club con una storia tra le più travagliate del nostro Calcio e con società sportive che troppe volte ne hanno cambiato la nomenclatura. Nella parte sinistra, nel medesimo font ma più in piccolo, l’anno storico di fondazione (che, come ripetuto anche in altre puntate di questa stessa rubrica, diviene “patrimonio” dei tifosi al di là di mancate iscrizioni, fallimenti e riclassificazioni giudiziarie). Una sottile cornice, pure bianca e dagli angoli stondati, corre per tutto il perimetro del disegno, conferendo maggiori compiutezza e grinta.

Della storia calcistica di Taranto abbiamo già avuto modo di vedere in una vecchia puntata di One Step Beyond (#18). Sul pubblico tarantino resterebbero da dire moltissime cose, potrei andare avanti per molto tempo. Per me rappresenta sempre un “dolore” seguire ogni domenica il Taranto attraverso i risultati e constatare, anno dopo anno, come questo club annaspi sempre in categorie indegne del suo nome, della sua città, ma soprattutto del suo pubblico. Una tifoseria degna della Champions League, una delle più passionali, calorose e numerose del nostro Paese, che fa male e rappresenta una profonda ingiustizia vedere relegata in Serie D o in Serie C e che ha conosciuto, nella sua storia, quale massimo traguardo: la Serie B.

Senza retorica: Taranto calcistica merita altri palcoscenici, senza se e senza ma. Vedere l’immenso potenziale del suo pubblico, mortificato in simili categorie è vergognoso e inspiegabile… La tifoseria rossoblu è realmente unica, tra le primissime in Italia e nel corso dei decenni ha sempre dato spettacolo, in tutti i sensi, non avendo nulla da invidiare ad altre piazze cosiddette “provinciali” (mi vengono in mente Verona e Bergamo, tanto per citare due tra le più illustri) che hanno fatto le fortune del nostro Calcio e del suo tifo. Davvero non oso immaginare quello che avrebbe potuto dare il popolo sportivo tarantino se fosse approdato in Serie A…

Per quanto riguarda il discorso più squisitamente Ultras: vedi sopra. Tanto entusiasmo e tale partecipazione popolare non potevano che produrre una Curva, la Nord, di assoluto spessore che ha dato perennemente spettacolo con coreografie, sciarpate, sbandierate, cartate, fumogenate e torciate, con drappi e striscioni, per un’attitudine “sudamericana” congenita a questa piazza e con una tradizione di miriadi di gruppi, forse talvolta in numero eccessivo, che però non hanno mai compromesso la straordinaria compattezza e il rendimento del suo insieme. Inarrivabili in casa, superlativi in trasferta, spauracchio per chiunque: i tarantini hanno scritto alcune tra le pagine più belle e significative della storia Ultras italiana. In occasione dell’assassinio di Gabriele Sandri avvenuto in data 11 novembre 2007 per mano di Stato, gli Ultras tarantini – con gesto di autentica e radicata mentalità – furono tra i pochi dell’intero panorama nazionale capaci di far sospendere la partita di Calcio del proprio club, giudicando da sé che quel giorno – davanti all’assurda morte di un ragazzo come loro, seppur di “fede” differente – il “giocattolo” doveva fermarsi. A ogni costo.

Bologna Fans: Da tempo desideravo disegnare qualcosa per la tifoseria bolognese; finalmente ne ho avuto occasione.

Il Bologna Football Club è uno dei sodalizi storici e tradizionali del nostro Paese, nonché uno dei più blasonati, per quanto le sue vittorie – in termini di Scudetti e Coppe – siano lontani nel tempo e appartenenti a un passato che, almeno per il momento, appare irripetibile.

Il club emiliano (fondato nel 1909) può vantare nella propria bacheca la conquista di 7 Scudetti (il primo nella stagione 1924-25, l’ultimo nel ’63-64) e 2 Coppe Italia (’69-70 e ’73-74). A livello di Scudetti soltanto quatto club (Juventus, Milan, Inter e Genoa) hanno fatto meglio in Italia e i rossoblu, con 7 tricolori (a pari merito con Torino e Pro Vercelli) restano uno dei club più titolati della massima serie.

Tra gli altri trofei conquistati dal Bologna, in ambito internazionale spiccano la vittoria di tre Mitropa Cup (quello felsineo fu il primo club italiano a conquistare un trofeo fuori dall’Italia nel 1932) e una Coppa Intertoto nel 1998 che resta il trofeo più prestigioso vinto dai rossoblu negli ultimi vent’anni.

Il Bologna – che resta comunque sempre un grande club – dagli Anni ’20 ai ’70 del secolo scorso fu uno dei sodalizi più temibili e “nobili” del Calcio italiano. Erano senz’altro anni più ricchi di possibilità per tutti e il sogno di uno Scudetto era possibile – e talvolta realizzabile – anche in piazze a metà strada tra le grandi metropoli e le cosiddette provinciali: è il caso di Bologna.

Il discorso sarebbe lungo, ma erano anni (tranquillamente estendibili fino agli ’80) di grandi sogni e talenti che il nostro principale sport nazionale sapeva produrre. A mio avviso rappresentava un valore aggiunto la possibilità che club espressione di città sì grandi ma che non potevano certo fregiarsi del titolo di metropoli (come Bologna, Firenze, Cagliari o Verona) potessero giocarsi alla pari coi club storici del football nostrano la vittoria di un campionato. Da troppi anni, ormai – fatta eccezione per poche piazze (Napoli e Roma con entrambi i suoi club) che una tantum s’inseriscono nell’albo d’oro dello Scudetto – i veri giochi per la vittoria finale dei campionati di Serie A si limitano ai soliti tre club: Juventus, Milan e Inter, con una monotonia che ha davvero stancato e che – fatta eccezione per questi club stellati che talvolta primeggiano anche in Europa – denota un’atavica “malattia” del nostro Calcio che sempre più va appiattendosi verso il basso, svuotato d’attrattiva e valori, con conseguente minore interesse e crescente disaffezione da parte della gente.

Crisi del nostro sistema Calcio che ha colpito anche club come il Bologna che, dopo gli ultimi fasti degli Anni ’70, ha conosciuto soddisfazioni assai più magre, facendosi tanta Serie B e addirittura anche la Serie C (categoria davvero inammissibile per un club di tale livello) e con campionati di Serie A spesso non all’altezza delle aspettative e delle aspirazioni che una piazza come quella bolognese dovrebbe sempre avere. Sarebbe bello poter vedere i rossoblu nelle competizioni europee dove il blasone e la tradizione bolognese avrebbero pieno diritto di stare non avendo nulla in meno di tante altre realtà italiane che riescono a varcare i confini nazionali e accedere alle competizioni continentali.

Di contro a un club che da troppi anni pare in affanno non riuscendo a regalare quelle soddisfazioni che la città e la sua storia sportiva meriterebbero, il pubblico felsineo è invece sempre stato costante, quasi avulso dalla grande emorragia di pubblico che ha investito un po’ tutto il nostro Paese calcistico negli ultimi decenni per le ragioni più disparate e risapute (eccessiva repressione, pay-TV, mancanza di talenti e bel gioco, partite truccate, inadeguatezza degli impianti sportivi talvolta eccessivamente vetusti, imborghesimento della società civile, massificazione ecc.).

Uno stadio sempre all’altezza il Dall’Ara, con una Curva Costa cuore pulsante del tifo per l’undici rossoblu, perennemente imbandierata e festante, avvolta da torce e fumogeni, davvero una delle più continue che io ricordi, capace di suggestive quanto spettacolari coreografie (talvolta a tutto stadio) con un muro di folla sempre partecipe e compatto, con buoni numeri anche lontano dalla Città delle due Torri.

Una città e un popolo sportivo che da sempre, storicamente e tradizionalmente, respirano sport e in cui il Calcio, insieme alla pallacanestro, la fa da padrone. Un movimento Ultras vivo e pulsante, legato a una concezione di tifo “classica” ma con importanti contaminazioni, soprattutto negli ultimi decenni, in termini di stile, una mescolanza capace di generare un melting pot peculiare e interessante. Un’ottima reputazione quella dei bolognesi che – pur senza eccessi ed estremizzazioni, nel solco d’una tradizione popolare colta e avanguardista insita nel dna cittadino – non si sono mai tirati indietro davanti a nessuno, neppure davanti a nemici ben più numerosi e belligeranti.

Il disegno: ispirandomi alla parte più casual, moderna e avanguardista del tifo bolognese, ho immaginato una sorta di drappo/adesivo in cui ho inserito alcuni elementi tipici di questa particolare “cultura” da stadio che fa della cura del materiale uno dei suoi tratti distintivi. Ho dunque posto in posizione centrale due degli “ingredienti” più sfruttati e abusati dello stile football-casual: le scarpette da gioco (quelle coi tacchetti, per intenderci) e il vecchio fascinoso pallone a spicchi. Nella parte destra e superiore – nell’incavo creato dall’accostamento dei due cliché scenici di cui poc’anzi – ho inserito un altro elemento tipico del know-how “tifologico” di questo genere: lo stemma cittadino. Ho optato per quest’ultimo in luogo del più classico scudo sociale del club, sia perché me ne piacciono molto i colori e la fattezza, sia perché intenzionato a dare un tono di più ampio respiro al disegno – che vede già nelle scarpette e nel pallone il suo frangente più calcistico – declinandolo secondo una sensibilità che rimandasse inevitabilmente alla città. Questo trittico di loghi è idealmente “cucito” sopra un’ideale “pezza” recante i colori rossoblu disposti in forma e proporzione più moderna e meno ingenua di quella che potrebbe risultare da una divisione più equa e scontata dello spazio. Le scritte, BOLOGNA e FANS – che vogliono rimandare a un perfetto equilibrio tra tradizione italiana e attitudine britannica – sono in un font ridondante e tridimensionale non privo di qualche sbavatura e finta ingenuità, per un disegno che faccia pensare a un prodotto realizzato con grandi cuore e precisione ma sempre con assoluta e precipua artigianalità.

Anxur Fans: Terracina Ultras, come scritto in passato (One Step Beyond #31), è un’interessantissima realtà del Calcio cosiddetto minore e nel corso dei decenni ha avuto modo di mettersi in evidenza per una radicata mentalità in tutto simile a quella di piazze storiche ben più grandi di quella laziale e soprattutto per uno stile, a livello estetico, davvero molto ricercato e accattivante. Attualmente, per la side tigrotta è una sorta di “anno zero”; infatti, dall’inizio del nuovo torneo di Promozione in cui milita il Terracina Calcio (categoria, a mio avviso, oltraggiosa e offensiva in cui veder relegata una piazza del genere), l’intera Curva Mare, messi per il momento da parte i vessilli identificativi delle precedenti anime del suo tifo, s’identifica in piena sintonia e unità d’intenti dietro le insegne del nuovo gruppo Terracinesi che – in piena continuità col passato – tanto bene sta facendo, nell’attesa che il club biancazzurro torni al più presto in contesti e su ribalte più onorevoli e congeniali alla sua lunga storia e a quella del suo popolo sportivo.

Questo disegno vuol coniugare – come già avvenuto in passato per altre grafiche – elementi distanti tra loro, provando a venirne fuori con qualcosa di valido. Il tutto è impostato come fosse una bandiera (o un drappo) ripartito verticalmente e disequamente nei colori azzurro e blu – per cui volutamente ho scelto una tonalità cromatica non troppo profonda – intervallati tra loro da una riga bianca bordata di nero. Al centro della “scena” è un pallone da Calcio, di quelli cosiddetti “a spicchi” che tanto ci piacevano una volta e che rimandano inevitabilmente a un football d’annata, quando il nostro sport preferito profumava ancora di sogni, tracimando spensieratezza e ingenuità… un po’ il Calcio dei bambini, per intenderci. A destra e sinistra di questo old soccerball, ho posto, coricate obliquamente e simmetricamente, due àncore (con tanto di corda nautica) molto ben definite e particolareggiate, a rimarcare lo stretto connubio che lega il Terracina Calcio alla propria città e comunità che vivono di e per il mare.

A sovrastare e soggiacere a quest’insieme di cui poc’anzi, le scritte – in un font elegante e preciso – bianche bordate di nero, ANXUR e FANS. La prima parola, Anxur, non è altro che l’arcaico nome che i Volsci (antico popolo italico che per secoli sfidò e contrastò con sanguinose battaglie la potenza emergente di Roma) diedero alla località di Terracina prima che quest’ultima venisse definitivamente assoggettata dai Romani. Mi piace molto il suono di questa parola, che ha un che di remoto e sa tanto di sito archeologico e che – per chi non ne abbia conoscenza – è difficile accostare immediatamente alla città di Terracina proprio perché frutto di una lingua, il volsco appunto, in parte differente dal latino… dunque è anche un modo per provare a solleticare la curiosità di quanti, vedendo il disegno e non capendo subito di chi esattamente stiamo parlando, vorranno magari approfondire l’argomento leggendo questa stessa presentazione e – perché no? – aprendosi un libro di Storia o facendo una ricerca in rete.

La seconda parola – a tutti noi calciofili più familiare – è l’abusato termine Fans, identificativo d’un certo modo d’intendere gli spalti che s’è fatto strada in Italia a partire dai primi Anni ’90 in poi, associabile indistintamente a grosse realtà metropolitane quanto a sperdute entità provinciali e che, inevitabilmente, strizza l’occhio a una cultura da stadio prettamente british (che poi s’è amalgamata in maniera del tutto peculiare al nostro precedente modello di tifo, uscendone con una miscellanea unica e affascinante… ma questa è un’altra storia).

Dunque, due elementi in apparenza fortemente contrastanti e per certi versi inconciliabili tra loro: la Storia (con la “S” maiuscola) più nobile e ancestrale relativa al passato più remoto della nostra Penisola, che incontra il tifo da stadio in una delle sue variabili più modaiole e di “tendenza”. Del resto, questo mio “esperimento” non costituisce certo una novità e non ho fatto altro che muovermi nel solco d’una “tradizione” già ampiamente portata al “successo” da tanti anni e da importanti e innovative tifoserie del nostro movimento (Teate Fans docet) che fanno dell’identità territoriale e delle rivendicazioni storiche, elementi salienti e caratteristici del frangente più fittizio del proprio essere tifosi (nomi di gruppi e relativo materiale) e che – tocca dirlo – quasi sempre mantengono una valenza a esclusivo livello esteriore, senza alcun riscontro pratico nel resto delle attività.

Una sottile cornice nera chiude idealmente il “quadro” per un disegno che vuol essere “impegnato” nella ricerca d’un “neologismo” Ultras da una parte, mantenendo al contempo – dall’altra – la freschezza e la spensieratezza data dalla vivacità dei colori e dalla rassicurante consuetudine degli elementi calcistici e marinari iconografici e preminenti.

Bad Boys Monopoli: La piazza di Monopoli è una di quelle realtà calcistiche provinciali del nostro Paese che sono paradigmatiche di quello che un club può rappresentare per la propria comunità e di ciò che riesce a sviluppare intorno a sé in termini di seguito, assurgendo a radicato fenomeno sociale e di costume che travalica il semplice concetto di sport.

Una città di circa 50.000 abitanti (dunque non piccolissima ma neppure enorme) come ce ne sono tante in terra di Puglia e che ha una buona tradizione calcistica con un club nato relativamente tardi (per lo meno rispetto alla media nazionale), nel 1966, seppur già dalla fine degli Anni ’50 a Monopoli ci fossero dei sodalizi calcistici che disputavano tornei locali e provinciali. Nella sua storia la squadra biancoverde ha disputato 24 tornei di Terza Serie nazionale (tra vecchie Serie C1 e C2, Lega Pro Prima e Seconda Divisione e la più recente Serie C unica in cui il Gabbiano milita a tutt’oggi) oltre a 13 tornei di Serie D e ovviamente a campionati regionali. Il Monopoli Calcio vanta anche la vittoria della Coppa Italia di Serie D, conquistata al termine d’un’esaltante cammino nella stagione 2014-15 allorquando i biancoverdi, come un rullo schiacciasassi, macinarono tutti gli avversari fino a prendersi la Coppa nella finale vinta contro gli emiliani della Correggese superati per 2-1 al Due Strade di Firenze (stadio dove abitualmente si consuma l’atto finale di questa bella competizione) e davanti ad almeno 1.000 aficionados provenienti dalla Puglia.

Un club, dunque, con una buona tradizione, seppur simile a tanti altri nell’alternanza di gioie e dolori sportivi. Ciò che rende la piazza monopolitana del tutto peculiare è il suo pubblico. Spesso, chi mi segue regolarmente su questa rubrica tanto sui generis, sa che mi lascio volentieri andare a complimenti un po’ per tutti… sia perché, ovviamente, realizzo disegni soltanto di tifoserie che mi piacciono e sia perché riesco a vedere, in ambito “tifologico”, sempre il bicchiere mezzo pieno anche in tempi di magra come questi (e guai se così non fosse in un’epoca ch’è ormai diventata pallido ricordo del passato… avremmo chiuso da tempo!). I monopolitani, a mio avviso, sono una tifoseria eccezionale, sotto tutti i punti di vista. Certo, anche loro hanno inevitabilmente subìto un drastico calo negli ultimi anni per via di tutte le problematiche inerenti al cosiddetto Calcio Moderno, però la storia e il valore di una tifoseria – secondo me – vanno valutati globalmente nell’arco di vari decenni e non soltanto nei momenti di risacca o di contro sulla scorta dell’entusiasmo contingente che hanno vissuto un po’ tutte le squadre ma che spesso dura il tempo di qualche stagione per poi spegnersi ed esaurirsi come il più classico fuoco di paglia.

Monopoli è una piazza calorosa e numerosa, per tradizione e non per moda. Ricordo una volta, se la memoria non m’inganna, verso la fine degli Anni ’80 (quand’ero solo un giovane ragazzo) in cui assistetti dal vivo a una partita tra il Campobasso e i biancoverdi oggetto di questa presentazione. Si giocava nell’attuale stadio Selva Piana (che all’epoca era ancora “giovane” e di fresca inaugurazione), il campionato era la vecchia e gloriosa Serie C1 e il match (che si disputava proprio all’ultima giornata) era una sorta di spareggio per la permanenza, con le due squadre separate da pochi punti. Ebbene, il pubblico di casa – e parliamo di una piazza, Campobasso, che aveva necessitato della costruzione del nuovo impianto proprio perché, storicamente, numerosa – era in discreto numero (seppur fosse già deluso da un Campobasso che aveva da qualche stagione abbandonato la Serie B e dunque non più numeroso come un tempo)… Ciò che mi sbalordì fu il numero dei monopolitani al seguito del Gabbiano: erano migliaia e riempivano buona parte della Curva Sud (erano i bei tempi in cui se ti svegliavi la mattina e ti veniva voglia di farti 500 kilometri per vederti una partita, potevi farlo tranquillamente e i botteghini erano sempre aperti per tutti), uniti dietro l’enorme e bellissimo vecchio striscione degli Army Korps.

Praticamente il Monopoli fu come se giocasse in casa, vinse infatti 2-1. Questo per dire di quali fossero – già allora, circa 30 anni fa –  la forza e i numeri di questa indomita tifoseria. Ricordo altresì che rimasi basito, quasi shockato nel vederli in così tanti e per una squadra che non lottava per grandi traguardi ma per salvarsi… Credo sia stata la prima volta, per me, in cui vedevo una tifoseria in trasferta più numerosa di quella di casa. Un attaccamento e una partecipazione collettiva di cui non sospettavo neppure l’esistenza in categorie così lontane dal Grande Calcio dei campioni a cui, quando si è ragazzi, si dedicano i propri sogni e desideri. Quella vittoria in terra molisana, permise alla compagine pugliese di agganciare in classifica proprio il Campobasso, dandogli altresì modo di giocarsi la propria permanenza in C1 in uno spareggio su campo neutro contro i rossoblu stessi… Le due compagini, Monopoli e Campobasso, si ritrovarono nuovamente contro una settimana dopo, sul manto verde dello stadio Ceravolo di Catanzaro: ancora una volta la vittoria (più roboante, 4-1) arrise ai colori biancoverdi condannando di fatto il più blasonato Campobasso a una nuova retrocessione in pochi anni… fu un po’ quella la partita della “fine” del periodo d’oro del club molisano che per cinque stagioni consecutive aveva frequentato i fasti della Serie B e che, dopo d’allora, non ha conosciuto quasi altro che disgrazie sportive, mortificando un pubblico altrettanto eccezionale che non meritava una simile punizione.

La fama del pubblico monopolitano è proseguita nel corso degli anni e a dispetto delle categorie, talvolta infime e indegne di tanto entusiasmo e di tali numeri e performances. Non molti anni fa – quando il Calcio non aveva ancora toccato il fondo, in termini di partecipazione popolare, come purtroppo sta avvenendo in questi ultimi anni per via d’un’insensata macchinazione imposta dall’alto e volta unicamente ad allontanare quanta più gente possibile dagli stadi – per partite di Eccellenza pugliese, il Veneziani s’è sovente riempito fino al limite della propria capacità, con punte di 10.000 spettatori. Diecimila spettatori!… un dato – per quelle che restano pur sempre partite di campionati regionali – che parla da solo e induce a riflettere. Piazze di Serie B, senza fare nomi, non hanno simili numeri.

Poi, come detto in apertura, anche una realtà come Monopoli s’è dovuta piegare, negli ultimi tempi, a un’emorragia di pubblico largamente diffusa e che ha investito (tranne poche isole felici) il nostro Calcio dalla massima serie fino alle categorie più basse (e che le recenti frizioni all’interno della Curva monopolitana tra le differenti anime del suo tifo, col conseguente spostamento di parte di esse nel settore distinti, non hanno certo aiutato). Comunque, quella biancoverde resta una delle migliori tifoserie delle serie minori, con un potenziale immenso e con numeri (quando il gioco si fa serio) capaci di impressionare.

Una piazza calcistica, Monopoli, ch’è stata capace di far parlare di sé e ritagliandosi un suo spazio, più che dignitoso, in una Regione, la Puglia, tra le più attive nel nostro panorama in quanto a numeri, calore e attaccamento e che può annoverare – oltre a tantissime realtà di ottimo livello in una terra, insieme alla vicina Campania, vera fucina Ultras nazionale – alcune tra le migliori tifoserie italiane: Bari, Taranto, Lecce, Foggia… nomi che hanno fatto (e continuano a fare) la storia del tifo di questo Paese.

Per quanto riguarda il discorso Ultras: poco da dire. Una Curva, la Nord biancoverde, di grandissimo spessore. Appassionata, festante, travolgente, capace di maestose e splendide coreografie, che mai si tira indietro davanti a niente e nessuno; sotto molti aspetti (e non solo per l’ovvia vicinanza geografica) simile a quella barese. Il tifo, da quelle parti, è una cosa seria e non si limita al supporto domenicale ma investe tutta la settimana (cosa che, mi obietterete, avviene anche in tantissimi altri posti). Inoltre, con la nascita, nel 1987 del gruppo oggetto di questa presentazione e del relativo disegno, i Bad Boys (che, come detto, si sono per il momento trasferiti nel settore dei distinti centrali), il tifo monopolitano, abbracciando uno stile marcatamente più british e fatalmente infatuato dalle nuove “tendenze”, s’è man mano consacrato – a livello estetico – come uno dei più belli della Penisola. Un gruppo attentissimo allo stile, i Bad Boys, al materiale, con stendardi, bandiere e bandieroni, due aste e pezze tra i più belli e accattivanti mai visti in uno stadio. Vedere il loro settore interamente “drappato” e imbandierato è veramente un’esperienza unica a livello visivo.

Una cura meticolosa dei particolari e un’attitudine alla ricerca dell’originalità che, per certi versi, mi ha ricordato, nel corso dei decenni, un altro gruppo, molto più famoso di loro e nato nel medesimo anno, gli Irriducibili Lazio. Irriducibili che – guidati da una grande voglia di distinguersi totalmente dalla massa, anche per i frangenti più easy – presero il personaggio d’un fumetto britannico sconosciuto ai più, Mr Enrich, e ne fecero la propria icona… Sulla stessa falsariga, negli Anni 2000, i Bad Boys Monopoli fecero addirittura meglio, alzando ulteriormente l’asticella: s’inventarono un’icona tutta per loro (che campeggia sul materiale, in molteplici pose), originale in tutto e per tutto e capace d’identificarli immediatamente, senza neanche bisogno di scritte: Mest Mob, l’iracondo omino nasuto e incappucciato nella sua felpa, anch’egli (al pari del suo “fratello maggiore” laziale) dal forte sapore fumettistico, non a caso creato per loro da un artista locale capace di spaziare con assoluta padronanza nel campo della comics art come in quello delle arti visive in genere e che nel corso degli anni ha dato vita a loghi e lavori davvero fantastici e scopiazzati da tutti: il grande Andrea “Buong” Buongiorno.

Il disegno: per lungo tempo avrei voluto “confrontarmi” con questa tifoseria e in particolare coi Bad Boys, ma è sempre difficile farlo con chi ha fatto scuola a (quasi) tutti. Abbandonando per un attimo il frangente più ironico insito in Mest Mob e ricorrendo a icone più usuali e certamente meno originali, ho immaginato questo mio disegno come una sorta di drappo o bandierone che a sua volta – nell’effetto vernice che cola del personaggio riprodotto – fa il verso allo stile murales. Personaggio “serio” e verosimile, non privo d’un suo fascino. Anch’egli, come il buon Mest Mob, cela il viso (in particolare lo sguardo) sotto il cappuccio della sua felpa/muta d’un colore verde intenso e par quasi fuoriuscire dalle tenebre illuminato da un fascio di luce. Questo ragazzo Ultras è armato di mazza da baseball (di warriorsiana memoria; i “Guerrieri della Notte” docet) che tiene poggiata su una spalla e sembra pronto a ogni evenienza. Una cubitale scritta di differente grandezza, disposta su tre livelli, in un font squadrato e tridimensionale, riporta l’indicazione di gruppo e squadra/città. Nello spazio vuoto che rimane tra la succitata mazza da baseball e la testa incappucciata, nel medesimo font, soltanto più in piccolo e in un verde più chiaro, ho inserito l’anno di fondazione del gruppo. Il fondo del disegno è disequamente ripartito in bianco e verde, intervallati da una riga nera (simile ai contorni della figura e al volume delle scritte) come la sottile cornice che chiude e definisce il tutto. Nel mio piccolo: mi auguro possa piacere.

Luca “Baffo” Gigli.

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LE PUNTATE PRECEDENTI
One Step Beyond #1: Terni, Caserta, Samb, Lamezia, Milan, Parma, Lazio, Udine;
One Step Beyond #2: Palermo, Udine, Catania, Fiorentina, Pescara;
One Step Beyond #3: Verona, Roma, Milan, Inter;
One Step Beyond #4: Brescia, Napoli, Lazio, Palermo;
One Step Beyond #5: Livorno, Lazio, Nocera, Cavese;
One Step Beyond #6: Lazio, Savona, Cavese, Manfredonia;
One Step Beyond #7: Crotone, Pescara, Catania, Napoli.
One Step Beyond #8: Roma, Lazio, Palermo, Milan;
One Step Beyond #9: Spezia, Arezzo, Virtus Roma, Nocera, Cavese;
One Step Beyond #10: Lazio, Genoa, Napoli, Roma, Palermo.
One Step Beyond #11: Viterbo, Torino, Savona, Napoli;
One Step Beyond #12: Torino, Castel di Sangro, Livorno, Lazio;
One Step Beyond #13: Hertha BSC, Ancona, Napoli, Roma, Samp;
One Step Beyond #14: Inter, Alessandria, Samb, Roma.
One Step Beyond #15: Lecce, Bari, Cavese, Genoa;
One Step Beyond #16: Campobasso, Napoli, Lazio, Carpi;
One Step Beyond #17: Juve Stabia, Palermo, Perugia, Livorno, Cagliari;
One Step Beyond #18: Taranto, Avellino, Lucca, Cavese;
One Step Beyond #19: Cosenza, Catanzaro, Atalanta, Samp;
One Step Beyond #20: Salerno, Ideale Bari, Campobasso, Napoli;
One Step Beyond #21: Civitanova, Frosinone, Padova, Roma, Lazio;
One Step Beyond #22: Isernia, Padova, Genoa, Como;
One Step Beyond #23: Lazio, VeneziaMestre, Napoli, Gallipoli, Manfredonia;
One Step Beyond #24: Napoli, Vicenza, Milan, Inter, Fiorentina;
One Step Beyond #25: Isernia, Venezia Mestre, Inter, Manchester City;
One Step Beyond #26: Palermo, Paganese, Cavese, Novara, Nocerina, Newcastle;
One Step Beyond #27: Ideale Bari, Isernia, Matera, Manfredonia;
One Step Beyond #28: Lazio, Livorno, Ascoli, Pescara;
One Step Beyond #29: Verona, Lucchese, Napoli, Cavese, Lazio;
One Step Beyond #30: Crotone, Foggia, Genoa, Salernitana, Cagliari;
One Step Beyond #31: Fermana, Roma, Lazio, Terracina, Fiorentina;
One Step Beyond #32: Roma, Modena, Foggia, Campobasso, Inter;
One Step Beyond #33: Nocera, Cavese, Verona, Bari, Lazio;
One Step Beyond #34: Lodigiani, Benevento, Samb, Milan, Napoli;
One Step Beyond #35: Roma, Vicenza, Cosenza, Castel di Sangro, Cremonese;
One Step Beyond #36: Isernia, Lazio, Roma, Torino;
One Step Beyond #37: Cavese, Palermo, Catania, Lazio, Atalanta, Arezzo;
One Step Beyond #38: Verona, Piacenza, Genoa, Sampdoria, Campobasso, Nocerina, Vis Pesaro;
One Step Beyond #39: Cesena, Verona, Aberdeen FC, Udinese, Pisa, L’Aquila;
One Step Beyond #40: Spezia, Livorno, Chieti, Lazio, Avellino, Inter;
One Step Beyond #41: Teramo, Giulianova, Monza, Roma, Potenza, Napoli;