Chi si fosse perso la prima parte di questo lungo ma interessantissimo reportage dalla Tunisia, non opportunamente pubblicizzato ieri sui social per via di alcuni problemi tecnici, lo può trovare al seguente link dedicato alla partita Stade Tunisien-Gabès.

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Dopo qualche giorno in Tunisia, ho la possibilità di vedere una delle squadre più titolate e simboliche del paese: il Club Africain. Fondato nel 1920 nella zona benestante a sud di Tunisi (nel quartiere di Bab Jdid), questa società è tra le più titolate del paese e ha vinto tutto quello che si poteva vincere. Sia a livello nazionale con ben 11 scudetti ed 11 Coppe di Tunisia, sia sul continente africano, con una Coppa dei Campioni d’Africa. Ma in questa stagione il Club ha qualche difficoltà ed ha bisogno di tutta la fede dei suoi tifosi.

La gara, anche se con un avversario minore, è fondamentale per poter sperare ancora di aggiungere un altro titolo in una bacheca già piena di trofei. Unico problema, l’orario e la sede della partita.

La Tunisia da quattro anni conosce tante difficoltà nella sua transazione verso la democrazia, il regime del presidente Ben Ali, che è stato al potere dal 1987 al 2011, ha lasciato lo spazio ad una democrazia più rappresentativa. Il bravo Ben Ali, organizzava comunque elezioni ogni cinque anni, alle quali teneva molto: i risultati erano tra il 99,91% (elezione presidenziali del 1994) e 89,62% (elezioni del 2009), percentuali che credo non abbiano bisogno di nessun commento.

Ben Ali aveva preso il potere dopo un “colpo di stato costituzionale”, con l’appoggio di Craxi ed Andreotti (ed i capi dell’Eni e del Sismi), il sostegno dunque dell’Italia e anche dell’Algeria. Ben Ali destituì, per ragioni di salute, l’inossidabile Habib Bourguiba, padre dell’indipendenza nel 1956 e al potere dal 1957, quando fu fondata la repubblica tunisina, fino al 1987.

Il primo presidente della repubblica tunisina fu un precursore per i suoi tempi, una specie di socialista che impose uno stato ad orientamento laico. La sua lotta contro la Francia fu sì meno dura rispetto alla guerra che insanguinò l’Algeria, ma il protettorato francese non voleva comunque saperne di concedere libertà e uguaglianza ai tunisini, cittadini di serie B nel loro stesso paese, in aperta contradizione con il motto della Rivoluzione “Libertà, uguaglianza e fraternità”.

Nel 1934 Bourguiba fondò il partito che diede il via alla lotta per l’indipendenza; nel 1937, quando i suoi adepti chiesero l’instaurazione di un parlamento, l’esercito francese rispose col piombo e il partito fu disciolto per legge. Dopo vent’anni di lotta, Habib Bourguiba raggiunse il suo scopo, quello dell’indipendenza. Lui che aveva lottato più di tutti per tale obiettivo, veniva riconosciuto come un progressista, non a caso la Tunisia adottò già nel lontano 1956 il codice dello “Statuto Personale”, cioè il primo testo di legge a riconoscere i diritti della donna nel mondo arabo-mussulmano, cosa che fu ovviamente vista come un grande passo avanti in tema di diritti. Ma anche Bourguiba aveva il suo lato più intransigente ed ha portato avanti il suo progetto con pochi spazi democratici, appoggiato dal suo partito unico e spalleggiato dall’esercito per sedare le rivolte che scoppiavano di tanto in tanto. Nel 1974, addirittura, decise di cambiare la Costituzione diventando di fatto presidente a vita.

Il giovane generale Ben Ali, che prese il potere nel 1987, fu allora considerato come un eroe che arrivava finalmente ad “uccidere il padre”, un bisogno a quei tempi sentito in tutta la popolazione. Da subito, Ben Ali fu sostenuto sia politicamente che economicamente dall’Italia (e dal resto dei paesi occidentali) per evitare la contaminazione islamica della vicina Algeria. Come il suo modello Bourguiba, Ben Ali prese subito la stessa via decisionale, continuando l’ammodernamento del suo paese, sia da un punto di vista economico che sociale, con nessuna tolleranza per l’Islam politico. La crescita del PIL fu importante sotto il suo regime, poggiando su due fattori fondamentali: il fosfato e il turismo.

Nel frattempo si andavano sviluppando due paesi in una stessa nazione, con la regione costiera che approfittava di questo nuovo ciclo e l’interno del paese totalmente dimenticato, il che rimanda all’immagine del famoso film “Cristo si è fermato ad Eboli”.

La contestazione comunque non fu mai forte ed organizzata per via di una polizia opprimente e fin troppo presente: l’immagine della Tunisia moderna aveva ragione d’essere all’ovest, ma la tortura, le donne e certe volte gli uomini violentati nelle caserme della polizia, più la pressione costante delle forze dell’ordine, facevano tacere la maggiore parte della restante popolazione.

Alla fine c’era pane e lavoro per tutti, ma senza la dignità che spettava al popolo tunisino. La famiglia di Ben Ali pretendeva di impadronirsi della Tunisia e trattarla come terra di proprietà privata, di fatto la sua gestione del paese si può paragonare a quella di un clan mafioso.

Ben Ali era ritenuto comunque un dittatore “éclairé” (illuminato, nda) e non si risparmiava nell’educazione della popolazione: questo era un settore importante in tutti i paesi della zona nord-africana, la Tunisia spiccava difatti in materia e poteva godere del maggior tasso di laureati dell’area nord-africana. Fu lui stesso ad alimentare paradossalmente una delle micce della rivoluzione, infatti tanti laureati non avevano possibilità di inserirsi sul mercato del lavoro (60% lavoravano nel settore informale o erano disoccupati) e ciò non poteva che portare sfiducia ed una certa avversione al sistema.

Il secondo fattore era rappresentato da questa polizia onnipresente ed onnipotente e difatti un giorno, più precisamente il 17 dicembre del 2010, a Sidi Bouzid, un giovane laureato dell’università di nome Mohamed Bouazizi, costretto a fare il fruttivendolo, si vide la sua merce confiscata dai poliziotti perché non pagava il pizzo e fu pure picchiato. Protestando contro questa assurda decisione, decise di bruciarsi vivo. Non morì subito ma dopo 15 giorni di agonia.

Questo gesto fu la goccia che fecce traboccare il vaso, l’amarezza e la frustrazione accumulata da questa gioventù non erano più sopportabili e così ci fu l’inizio della cosiddetta “Primavera araba”.

Questo suicidio diede il “la” alle proteste pacifiche in tutto il paese, in sostegno al ragazzo e contro il regime di Ben Ali che pensava di replicare solo con massiccia repressione, ma l’esercito questa volta non si mosse in difesa del dittatore che si vide costretto, sotto la pressione popolare, a lasciare il proprio paese come un ladro. Ma del resto ladro lo fu veramente, tanto che organizzò assieme alla propria fuga, quella di 1.800 lingotti d’oro…

Così fu che Ben Ali, in poche ore, abbandonò il suo potere ed il suo paese per l’Arabia Saudita, dove vive tuttora in esilio.

A queste riscosse popolari gli ultras non sono rimasti estranei, se vogliamo la polizia ha perso il proprio “monopolio della violenza” proprio negli stadi di calcio dove, alla fine del secolo scorso, gruppi di giovani avevano preso l’abitudine di raggrupparsi in un settore determinato e di cantare insieme, lontani delle strutture arcaiche dei “club” locali e, soprattutto, auto-organizzandosi. Le immagini delle curve italiane, con le coreografie e gli striscioni, saranno lo spunto per un nuovo modo di tifare.

Così furono gettate le basi che diedero vita ai primi gruppi ultras, nel 2002, in Africa. L’aggregazione si diffonde velocemente ed i gruppi si moltiplicano. Il regime di Ben Ali non capiva cosa stesse succedendo ed infatti all’inizio vide questo movimento come un qualcosa di positivo, lontano dalla contestazione politica o dell’Islam militante.

Nei primi anni anche le televisioni locali daranno ampio spazio a questi ragazzi, ma dopo un po’ il potere cambierà atteggiamento, realizzando che questi ultras non erano personaggi che si poteva manipolare o utilizzare a proprio piacimento. Tanto per fare un esempio, anche a queste latitudini, la polizia e la figura del poliziotto vengono viste come una rappresentazione dell’arroganza del potere: ben presto, perciò, si cominciò ad assistere alle prime contrapposizioni contro le forze dell’ordine, che divennero in poco tempo dei veri e propri scontri, emblematici del fatto che il potere non faceva più paura.

Gli ultras furono dunque tra i pochi a tenere testa in maniera fisica al potere, o meglio, ai suoi rappresentati sul campo, cioè i poliziotti. La benevolenza iniziale del governo lasciò così spazio ad una spietata repressione e quando, nel gennaio 2011, il popolo tunisino scese nelle piazze in migliaia di unità, gli ultras ne rappresentano una costola considerevole, visto che furono i primi a rompere il muro della paura, con scontri decisi negli stadi durante gli anni precedenti.

Ma oggi è molto diverso, la repressione o la ragione di Stato vuole che nel campionato tunisino i tifosi non vadano in trasferta, la capienza degli stadi è ridotta a soli 10.000 spettatori, tutti tifosi della squadra di casa. E non è finita qui, visto che le due società più amate e seguite del paese, cioè il Club Africain e l’Espérance di Tunisi, non possono giocare nello stadio di El Menzah, che è a cinque chilometri dal centro della capitale e ben collegato, ma sono obbligate a giocare allo stadio Olimpico di Radès, sede delle partite della nazionale.

Il problema non è solo il giorno lavorativo e l’orario inusuale della partita, ma pure la distanza. Siamo a 15 chilometri dalla città, in una periferia senza mezzi pubblici, non a caso quando entro nello stadio, con normale accredito, noto che ci saranno poche migliaia di spettatori, 4.000 al massimo.

Prima di entrare sarò fatto oggetto di vari controlli, molto capillari, da parte dalle forze dell’ordine. Dentro invece tutto tranquillo e posso ritirare la mia pettorina che mi dà accesso al campo.

Lo stadio non è male: fu costruito nel 2001 e ha una capienza di 60.000 spettatori. Da fuori sembra un po’ il San Nicola di Bari, con immensi parcheggi tutto attorno e poco o niente accanto. Anche dentro ricorda vagamento l’impianto barese, con due aneli e una pista d’atletica che allontana la visuale del campo. Infine, un bel fossato separa le gradinate dalla pista.

Oggi gli ultras del Club Africain (ci sono vari gruppi che preferisco non nominare, non essendo un intenditore) sono radunati attorno al centro della curva, esattamente dove c’è una “buca” dove si posizionano alcuni lanciacori. C’è un unico striscione di carta che recita: “Le nostre anime ti sono dedicate, ce ne freghiamo dei risultati”. Un bell’esempio di dedizione, come dovrebbe essere per ogni ultras.

I ragazzi al centro della curva sono tra i 300 e 400 e cominciano a cantare appena le squadre entrano sul campo. I canti sono belli, difficilmente decifrabili perché rigorosamente in arabo, anche se alcuni sono in parte in italiano ed in parte in francese. L’unico slogan che capisco è “Cazzo”, quando tutti si mettono a saltare e a cantare “Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo”! Fa ridere vedere una ragazza intorno ai sedici anni, con la maglia biancorossa del Club Africain ed un velo, , poco distante dal nucleo centrale, riprendere con forza questo slogan.

Le donne allo stadio ci sono, anche se in poche unità (com’era prima degli anni 2000 in Europa) ma non possono fare parte dei gruppi. I ragazzi mi hanno detto che non sarebbe possibile per una società conservatrice come la loro. Comunque in curva alcune ragazze hanno l’atteggiamento tipico da ultras che fanno ben sperare nel futuro: sarebbe stupido perdere queste energie.

Il primo tempo scorre tra i canti della curva ed il Club Africain che segna l’1-0. I cori sono più forti che mai: anche se gli ultras sono alcune centinaia, si nota una vera passione ed una totale devozione verso la squadra del cuore. Non hanno megafoni, neanche un tamburo, i cori partono alla maniera delle curve argentine e si diffondono velocemente tra tutti. Pochi battimani, motivi lungi e melodiosi, ma è davvero un bello spettacolo.

Il secondo tempo inizia sotto lo stesso sole primaverile e mi diverto spalle al campo, anche se ogni tanto guardo un po’ di partita, tanto per non dare nell’occhio. Immancabilmente accanto a me ci sono i poliziotti in borghese, con una videocamera (di pessima qualità) con la quale fanno alcune riprese e quando i ragazzi accendono una torcia, subito tentano di riprenderli. Qua non c’è la diffida per questo gesto, che dovrebbe essere considerato banale in tutti gli stadi, ma direttamente la galera però solo se presi sul fatto (però di entrare in curva, non se ne parla nemmeno…). Onore a loro che continuano a sfidare la legge, ma la stessa Tunisia dovrebbe curarsi di altri problemi più importanti invece di pensare ai fumogeni in uno stadio.

Prima della fine, un fotografo mi traduce un coro che capisco solo in parte: comincia con un “Allah Uakbar, Ussama Bin Laden…” ma dopo è incomprensibile; il resto del testo in arabo mi viene riferito come: “Aprite le porte i Talebani arrivano”. Parole grosse e soprattutto pesanti in un paese che ha già dovuto fare i conti con il terrorismo jihadista, ma allo stesso tempo credo, che come un po’ ovunque, si tratti di una grossa provocazione contro il potere e tutta la società, sulla falsariga del “Noi odiamo tutti” veronese. Non voglio fare relativismo, ma alla vigilia della partita sono andato a vedere un incontro di pallamano del Club Africain e gli ultras cantavano sull’aria di “Che Guevara”. La tentazione jihadista esiste ed è diffusa nella gioventù e varie decine di ultras sono partiti in Siria per combattere con lo Stato Islamico. Non per niente la Tunisia, con la Libia, è il paese che ha visto il maggior numero di giovani partire per combattere nei ranghi dell’ISIS.

Non mi permetto di fare analisi da bar, sono da poco tempo in Tunisia ed anche se seguo a distanza la transizione democratica, credo che la gioventù tunisina si veda come una generazione persa, bruciata, con poche speranze nel futuro e poca disponibilità economica. Lavoro? Poco, il turismo che faceva vivere migliaia di famiglie non attrae più. La transizione? È lunga, difficile ed alcune vecchie teste del regime ne approfittano per riapparire miracolosamente sulla scena politica. Il futuro? Andare in Europa, tanto vicina e tanto distante o cercare una strada ed un ruolo in una organizzazione terroristica che ti offre un’alternativa ed un minimo di “considerazione”. In quest’ultimo caso ci sono ideali che fanno facilmente presa, l’ipotesi di diventare il classico “eroe” del quartiere e tutta una serie di ingredienti pericolosi per una Tunisia che nel 2015 offre ben poche alternative tranne questo biglietto per un presunto “paradiso”.

Comunque sia, resta difficile giudicare questi gesti estremi. In Europa spesso si ragione e si parla in modo molto qualunquista, invece credo che la curva proponga una dialettica difficile da capire e da interpretare, ma che raccoglie un malessere diffuso nella gioventù. L’aggregazione ultras permette di contenere in parte questo malessere e di offrire un posto dove esprimerla. Prima di partire ripenso al fantastico libro di Daniele Segré, “Ragazzi di stadio” di cui alcune parole, nella prefazione scritta da Gian Enrico Rusconi, mi sono rimaste nella mente: E al centro ci sono loro, i ragazzi di stadio che a centinaia occupano le curve (…) creando scenari spettacolari. Poi quando all’improvviso scoppia l’incidente – temuto/atteso – volano i lacrimogeni, strillano le sirene, allora vengono fuori le parole grosse tenute in gola sino ad allor : «Sono teppisti ! Sono fascisti! Sono terroristi in erba!». Forse un giorno la nostra società, o le nostre società, perché non vedo tanta differenza tra questa gioventù tunisina del 2015 e quella gioventù proletaria torinese della fine degli anni ’70, si chiederanno cosa (non) abbiamo fatto, cosa (non) abbiamo portato e perché quasi solo negli stadi questi ragazzi trovano considerazione ed una ragione di essere.

Sebastien Louis.