Vengo “istigato” alla lettura di questo libro dagli amici Matteo e Massimo, che hanno spesso parlato bene del suo autore e del suo importante lascito ideologico, cosicché farmi letteralmente immergere a capofitto in questa ricca e articolata tesi di un momento che ha fatto la storia recente del calcio italiano e non.

Valerio Marchi ci aveva infatti visto lungo già quasi quindici anni fa, quando aveva analizzato in maniera perfetta gli eventi che avevano preceduto quella storta e triste giornata del 21 marzo 2004, quando, durante il derby Roma – Lazio, si sparse la voce (poi rivelatasi falsa) della morte di un bambino, provocata in qualche maniera dalla polizia.

Ma le argomentazioni dello scrittore non si limitano solo a raccogliere le testimonianze della gente presente, vanno bensì molto più a fondo, cercando di spiegare da un lato l’atmosfera che sempre si crea la settimana (o forse meglio dire: le settimane) prima di arrivare a questa importante sfida, capace da sola di salvare un campionato anonimo o di affossarlo ancor più, e dall’altro di far comprendere i comportamenti adottatati negli ultimi cinquant’anni e oltre, da chi dovrebbe garantire l’ordine pubblico: dalla rivolta del 1969 a Battipaglia, passando per il G8 a Genova e fino al derby del bambino morto, la costante è la stessa, gli abusi son gli stessi.

Leggendo queste pagine, per un attimo mi sento catapultato nel film “Lo chiamavano Jeeg Robot”, sempre ambientato a Roma, dove uno squilibrato decide di piazzare una bomba proprio durante il derby capitolino: a differenza di quel lungometraggio però, l’esplosivo viene innescato ore prima dalle forze di polizia con cariche ingiustificate sotto la curva Sud e il conseguente uso di gas lacrimogeni, creando panico totale anche e non solo per l’aria irrespirabile che fin sopra le gradinate dello stadio costringeva la gente al fuga generale.

La tensione venne quindi scaturita da chi paradossalmente doveva garantire la sicurezza e questo creò il retroterra psicologico in cui, più di 80 mila persone, preferirono credere a questa voce che non a prefetti e questori, anteponendo l’etica e inceppando quel meccanismo perverso calcistico per il quale “The show must go on”, sempre e comunque.

Consiglio vivamente a tutti, soprattutto ai più giovani, di leggere questo bellissimo testo, che anche a distanza di così tanti anni si rivela più attuale che mai: oltre che spiegare la genesi della “terrace culture”, dall’Inghilterra all’Italia, mostra come la caccia agli ultras sia diventata prassi, negli anni sempre più forte: il motto “LIBERO CITTADINO? NO ULTRAS!” che ormai vent’anni fa campeggiava sui muri della mia città, in questo libro è spiegato in maniera ineccepibile e reso percettibile a chi per anni ha vissuto e masticato calcio e gradoni, ma lo recepiva solo come sensazione. Disarmante la lucidità con cui l’autore riesce a dare corpo solido a quest’insieme indistinto di barbarie poliziesche, abusi, coperture mediatiche, connivenze istituzionali e tutta la fitta trama di assurdità che i tifosi da anni devono sopportare.

Chissà cosa penserebbe oggi Valerio di tessera del tifoso o codice etico, l’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che avrebbe sicuramente analizzato questo declino del calcio italiano con i suoi toni pacati, forte della strettissima aderenza che sempre riusciva ad avere con la realtà. La differenza di fondo fra lui e quanti parlano di stadio e strada, sta tutta lì, in questa vicinanza all’argomento che non si limitava al teorico, come tal atri, ma era fatta di pratica e frequentazione del campo, sul campo.

Mi piace chiudere questa analisi, citando il passaggio che mi ha colpito di più: quello dove l’autore rimarca che essere ultras è essere sé stessi, senza millantare un’identità diversa da quella reale e che oltre alla passione per la propria squadra, la motivazione principale resta il divertimento, senza la dietrologia e i giochi di mentalità che troppo spesso e da troppo tempo hanno affondato il nostro movimento.

Rocco Denicolò