C’è un tempo per le presentazioni e uno per gli addii. C’è un tempo in cui tifare senza pensieri e un altro in cui farlo come fosse l’ultima. Con il groppo alla gola. C’è un tempo per riempire i settori, abbracciarsi con gli amici e sperare nella nuova annata e ce n’è un altro in cui pure questo diventa utopico e lontano. E sono le lacrime a farsi spazio tra i sornioni sorrisi che dovrebbero pervadere ogni tifoso in questo periodo dell’anno.

Benvenuti nel calcio estivo. Quello italiano però. Luogo in cui – forse tra i pochi al mondo – a tenere banco sono i fallimenti e le non iscrizioni delle società anziché il noioso calciomercato. Unica eccezione Cristiano Ronaldo. Il fenomeno dell’anno. L’affare del secolo. Il piccolo sprazzo di sereno con cui si vorrebbe nascondere il grigiore delle nubi che stringe fortemente l’italico pallone. Davvero il fenomeno portoghese dovrebbe fungere da frangiflutti allo scempio che ormai quotidianamente si consuma? Sembra di analizzare l’economia di molti Paesi sudamericani o africani: migliaia di gente costretta nelle favelas e ai margini delle società, ma vuoi mettere, ci sono anche alcuni ricconi che fanno la bella vita!

La Co.vi.soc ha respinto l’iscrizione dell’Avellino alla Serie B. E ora al club irpino resta solo la carta del ricorso al Coni. A un passo dal baratro. Sarebbe il secondo fallimento in pochi anni. L’ennesima caduta che andrebbe ad aggiungersi a quelle fragorose di altri nobili club scomparsi in questi giorni.

Non sono certo un esperto di economia. E non posso addentrarmi in discorsi troppo articolati, onde evitare errori marchiani. Tuttavia torno a chiedermi: chi controlla il controllore? Leghe e Federazioni, che di fatto si autoregolano e vivono con il consenso dei club (gli stessi che un giorno sì e l’altro pure si rendono protagonisti di nefandezze e scandali), come possono ergersi a garanti della trasparenze e della longevità del nostro calcio? Presidenti incoscienti e irresponsabili (o spesso, diciamocela tutta, veri e propri banditi) quanto ancora debbono continuare ad aver vita facile e tenere le proprie mani nella marmellata?

Che credibilità ha un movimento calcistico che mette in dubbio persino il regolare svolgimento di una normale amichevole? Sì, perché nel primo pomeriggio – quando l’ufficialità della bocciatura Co.vi.soc. è arrivata – in tanti si sono chiesti se sul manto verde dello Stirpe di Frosinone sarebbero davvero scesi in campo i lupi irpini.

Alcune cose ti restano impresse nella mente. Alcuni confronti tra stati d’animo così diversi ti fanno capire quanto ci sia bisogno, anche in seno ai tifosi, di una maggiore cultura calcistica. Di un grande senso di autodifesa del nostro mondo. E non solo di quello ultras, ma proprio dello sport che amiamo e che vediamo cadere miseramente a pezzi.

Cosa è Roma-Avellino? Per me è un racconto di mio padre. Quello di Juary e Di Bartolomei in campo. E quello del 1983 di mia madre, alla prima volta in uno stadio. Travolta dalle persone agli ingressi della Sud. Roma-Avellino è una sfida di quei floridi anni ottanta. Del Partenio e dell’Olimpico stracolmi di gente e dei suoi giocatori in campo. Di una Serie A a sedici squadre e due punti assegnati per ogni vittoria.

Ma oggi sembra quasi che quelle partite non ci siano mai state e che tutto sia un lontano ricordo svanito col tempo.

Ci rifletto guardando i romanisti prima e gli avellinesi poi. Agli antipodi. Perché? Si chiederà qualcuno.

Chi ha mangiato la proverbiale “merda” ne esce provato, ma anche forgiato. Ed ha un rapporto con la realtà più diretto e intimo. Lo sanno bene, ad esempio, gli ultras campani. Che con un fallimento hanno già avuto a che fare. Non lo possono immaginare, neanche lontanamente, quelli romanisti.

C’è una netta scala di valori nel nostro calcio. Riflesso, sicuramente, di quella sociale ed economica. Posso dire con una certa sicurezza che ad oggi club come Roma, Lazio, Inter, Juve e Milan difficilmente potranno sprofondare nel drammatico baratro di un fallimento. Così come Fiorentina e Napoli (che tuttavia in passato hanno “testato” questa condizione). Al di sotto ci sono centinaia di sodalizi che invece hanno rischiato, rischiano e rischieranno costantemente di sparire. Questa fossa è impressionante se ci pensate, perché delinea una pericolosa demarcazione destinata ad ingigantirsi con il passare del tempo e creare scenari futuri tutt’altro che rosei. Di fatto già esiste una separazione netta tra i “chi può” e “chi non può”. E non più quella a cui siamo sempre stati abituati.

Chiaro, radiazioni e fallimenti ci sono sempre stati. Non scopriamo oggi l’acqua calda. Ma l’assiduità e la continuità con cui questi fenomeni avvengono negli ultimi anni, dovrebbe quanto meno portare a una riflessione.

Tutto questo calderone di sensazioni, idee e sentimenti si riflette ovviamente sulle gradinate. Sono tanti i romanisti, aiutati dalla distanza e dalla perenne passione che brucia nei cuori giallorossi, producendo un innato bisogno di rimanere in contatto con la propria squadra anche nei mesi estivi. C’è voglia di calcio, e questo sicuramente è sempre positivo.

A loro è destinata la Curva Sud, che viene quasi totalmente riempita. Quando il calcio d’inizio è prossimo sono presenti tutte le sigle del tifo capitolino, guarnite da alcuni bandieroni nella parte centrale e da diversi striscioni dei club dislocati in varie zone dello stadio.

Oggi voglio arrivare presto al nocciolo della questione, senza troppi fronzoli: la prestazione del settore romanista non mi ha propriamente entusiasmato. Ci sono delle attenuti, che è giusto spiegare. Innanzitutto il clima amichevole della partita e in seconda battuta la composizione del settore. Tanti (forse troppi) gitanti, vogliosi di vedere le prime gesta di Kluivert e Cristante al modico prezzo di 11,50 Euro. Ci sta, sia chiaro. Ma inficia pesantemente il tifo. Di certo anche la conformazione della Sud non aiuta; la sua lunghezza e la sua dispersività rischiano di esser letali se non ci si organizza in maniera intelligente e mirata.

E qui la “responsabilità” passa ai presenti. Con una settore del genere la miglior scelta sarebbe sicuramente quella di schierare diversi lanciacori lungo la balaustra e coordinare il tifo in maniera unitaria. Cosicché anche gli spettatori “normali”, posti nelle zone più alte, riescano a esser invogliati a fare tifo. Questi ultimi, a mio avviso, hanno bisogno di essere spronati e coinvolti. Si devono sentir parte del tifo e non si può pretendere che facciano da soli un passo in avanti. Del resto se ultras è aggregazione, dev’esserlo in ogni sua sfaccettatura.

Non è facile, ovviamente. So bene quanto spesso occorra sgolarsi (pure inutilmente) per far cantare dei veri e propri totem, più intenti ad analizzare una diagonale di Manolas che a dar vigore alle proprie corde vocali. Ma in occasioni come queste, in cui comunque si ha di fronte un discreto zoccolo ultras, gli stimoli in tal senso non dovrebbero mancare.

La verità è che, ultras a parte (e neanche sempre), nelle grandi piazze si è persa la cultura da stadio. Si è perso quel “fastidio” che dovrebbero provocare i cori dei dirimpettai, tanto da indurti a sovrastare i loro canti. E sovente si tira avanti giusto per campare. Tanto per timbrare il cartellino e poi andarsene a casa tranquillamente.

È anche fisiologico, sia chiaro. Se ogni campionato è uguale, se non ci sono stimoli, se non si “soffre” (sì, la sofferenza e la delusione sono spesso sentimenti che migliorano) non si può capire che non tutto è scontato.

La prestazione della Sud formato trasferta non è pessima, sia chiaro. Va detto anche che nella prima frazione vengono provati diversi cori nuovi, che hanno bisogno di essere rodati. Nel secondo tempo i giallorossi offrono bei momenti di tifo e cori dalla grande intensità. Ma, sinceramente, con quel potenziale si potrebbe fare davvero molto di più. Troppe volte si evidenzia lo scoramento tra gruppi e tifosi normali e spesso anche tra i gruppi stessi la coordinazione non raggiunge picchi elevati. Con tutte le attenuanti del caso (elencate prima) io credo che una curva e una tifoseria come quella romanista debbano ambire al meglio, proprio perché possono permetterselo. Anche in un’amichevole che non conta nulla.

Personalmente credo che dalle piccole cose si possa intuire il futuro e soprattutto costruire la propria storia. Se si fa del buon tifo in un Roma-Avellino qualsiasi, se si spronano i presenti a cantare, sarà più semplice poi ben figurare in sfide importanti. La continuità dà continuità. Quando un’amichevole avrà lo stesso peso specifico di una semifinale di Champions (scusate, sono cresciuto con il lanciacori che diceva sempre: “Non si devono sentire quelli dall’altra parte”, a prescindere dalla partita e dall’avversario) si avrà non solo una grande curva, ma anche un perfetta sinergia con i concetti che dovrebbero essere sempre difesi a spada tratta dal tifo organizzato.

Voltando il mio sguardo verso i ragazzi di Avellino, posso soltanto dire che, alla stregua di paginette da quattro soldi che inneggiano al romanticismo degli ultras, alla nostalgia e ad altre boiate simili, chi oggi ha deciso di raggiungere Frosinone sapeva bene che poteva essere l’ultima volta al seguito dei biancoverdi. Ci sono scelte da fare nella vita e strade da perseguire: io ho apprezzato il loro modo di porsi. Rabbia, voce, colore e pure divertimento.

Magari non erano tantissimi, ma i presenti erano quasi tutti ultras. Il che – collegandomi al discorso fatto sui romanisti – ovviamente aiuta nel coordinare il tifo. Anche se non diamo tutto ciò per scontato. In questi anni ho visto realtà fare clamorosamente “cilecca” in occasioni simili o più importanti. O, peggio ancora, fare scelte alquanto discutibili. Boicottaggi, diserzioni e silenzi che spesso si sono ritorti loro contro.

Gli avellinesi hanno deciso di essere quel che sono: ultras dentro lo stadio.

Significativo inoltre quanto successo all’intervallo, quando la squadra, invece di andare negli spogliatoi, si porta sotto al settore per parlamentare con i tifosi. “Non dovete mollare, anche se non abbiamo più una società. Se miracolosamente ci salveremo avrete il nostro sostegno incondizionato”. E sapete cosa mi ha colpito a tal merito? Che i calciatori abbiano risposto da uomini. Non si siano tirati indietro e anche in campo hanno dimostrato di starci con il cuore e con la testa.

Prima di chiudere voglio segnalare qualche coro ostile tra le due fazioni, a rinvigorire timidamente una rivalità esistente negli anni ottanta (“famosa” una partita giocata nella stagione 80/81 e contraddistinta da pesanti incidenti prima del match).

In campo finisce 1-1. Al gol di Schick risponde in pieno recupero Paghera.

Simone Meloni