Ci sono momenti della vita di un tifoso destinati a rimanere per sempre incastonati nel mosaico della propria memoria calcistica. Non sempre sono legati a vittorie e gioie. Anzi, la natura masochista che pervade il supporter di calcio lo porta spesso a mitizzare e rendere immortali episodi legati a sciagure o clamorosi tonfi, nei quali è proprio lui a recitare la parte centrale, quella in cui sa tenere in piedi l’orgoglio e i colori non solo della propria squadra, ma di tutta la comunità che è spesso chiamato a rappresentare tra le mura amiche e in lande ostili ed avverse.

Certo, nel caso specifico, non si può parlare di tonfo per i giallorossi. La squadra di Di Francesco lascia la Champions League a testa alta, ma anche con tantissimi rimpianti. E una certezza: con un po’ più di vento in poppa Kiev non sarebbe stata un traguardo irraggiungibile.

È stato comunque il progressivo accrescere di un sogno a luci rosse. Tutti sapevano che si sarebbero svegliati, magari senza finire il rapporto, ma nessuno era intenzionato a rinunciare a quegli immortali attimi di godimento. Anche perché non era soltanto una mera rappresentazione pornografica. No. C’era anche dell’amore. Pertanto sapevi che anche a sogno interrotto ti sarebbe rimasta in bocca una bella sensazione agra ma anche dolce.

C’è un signore sulla cinquantina sul Ponte Duca D’Aosta. Si sta dirigendo verso casa, a partita finita. Cammina con la moglie mano nella mano e ha gli occhi rossi. Deve aver pianto. Ci scontriamo, mentre io mi dirigo frettolosamente dall’altra parte del ponte e lui cammina distratto, ancora in trance per quanto vissuto.

Ecco, volevo dirlo: queste serate europee non sono state il tracotante baluardo dello stereotipo romano “famo, annamo, spaccamo”, spesso tradotto nelle più barbine delle figure in mondovisione. Sono state serate che personalmente mi hanno sorpreso, smussando un pochino il mio pessimismo cosmico legato al calcio e restituendomi un po’ di quel diritto al sogno smarrito nei miei primi anni di stadio. Quando il cuore batteva forte nel salire le scalette della Sud.

Ero là ieri sera, inutile negarlo. Chi mi conosce sa quanti problemi ho avuto con biglietti e accrediti in questa doppia sfida. Devo ringraziare – e lo faccio pubblicamente – i tanto vituperati tifosi di calcio. Sì, perché è grazie al loro senso di comunità e solidarietà che sono riuscito a non rimanere fuori. E sarebbe stato pesante da mandare giù. Sarà anche un rigurgito infantile o un sentimento puerile, ma quando sai che certi momenti puoi viverli a intervalli di decenni e quando ti senti defraudato di un qualcosa che, tutto sommato, ti spetterebbe quasi di diritto (mica per niente, ma almeno chi negli ultimi anni è andato pure in zone remote d’Europa meriterebbe più considerazione) l’unico stato d’animo che puoi provare è la rabbia. Mista alla delusione.

E questo discorso potrei allargarlo alle tante decine di persone che non sono riuscite a prendere il biglietto, vedendosi soffiare il tagliando sotto il naso da sedicenti bagarini o tifosi dell’ultima ora. Sulla vendita dei ticket andrebbe fatto un articolo a parte; di sicuro in quel frangente è emersa tutta la poca preparazione a questi eventi da parte di Roma.

A chi non ce l’ha fatta ma avrebbe dovuto esserci va tutta la mia solidarietà.

La Roma giallorossa ci ha creduto, ci ha sperato e l’ha vissuta senza troppi fronzoli. Con le sue bandiere e la sua attesa frenetica, che è cresciuta a dismisura anche dopo il pessimo risultato di Anfield. A nessuno sembravano interessare i cinque gol subiti in terra d’Albione e la difficoltà di una rimonta oggettivamente ardua. Sarà stata la testardaggine e forse anche un po’ di quella, sana, boria romana. Ma tutti ne hanno parlato per due settimane. Quasi fosse un evento di pubblico interesse, una festa cittadina. L’attesa della statua del santo nel giorno della sua festa.

“Io c’ho er bijetto a nome de ‘n’ antro”, “Io nun ce lo, che faccio, ce provo lo stesso?”, “Io c’ho la Nord e vojo annà in Sud”. Questi sono solo alcuni dei quesiti che attanagliano decine di ragazzi fuori dall’Olimpico quando mancano ancora quattro ore al fischio d’inizio. Ci penso su: quanto tempo che non arrivano allo stadio così presto? Sembra quasi sempre tutto scontato, persino il tempo con gli amici e le chiacchiere infinite di stadio e tifo con i tanti “pischelletti” che incontro nei vari pre partita.

Eppure oggi il tempo scorre a rilento e funge da ago che lentamente sembra prelevare il sangue a tutti i presenti. Per trasportarli in una realtà parallela.

Il terrorismo psicologico che ha preceduto questa partita ha convinto molti negozianti ad abbassare le serrande. Mentre qualcuno di loro parla di incidenti causati dagli inglesi in Viale Pinturicchio (niente di più falso) e altri vivono la giornata con una somma – e infondata – paura.

Di inglesi se ne vedranno davvero con il contagocce. Sia attorno allo stadio che nel centro della città. Stipati nelle aree consigliate, come Campo de’ Fiori, e anch’essi spauriti nella loro maggioranza. Un atteggiamento molto differente dal passato. I fatti dell’andata hanno sicuramente avuto un certo peso in tal senso. Velo pietoso da stendere sul divieto di somministrazione per gli alcolici da asporto. Penso di aver visto più persone con birra e vino in mano in questi due giorni che durante il resto dell’anno.

Una voce si è sparsa sottotraccia ed è arrivata alle orecchie di tanta gente: andare ad aspettare il pullman della squadra per incitare i giocatori al loro arrivo. Perché questa era la giornata in cui fare i tifosi ed appianare ogni divergenza di veduta. Sia calcistica che di tifo. Un’impresa forse ancora più ardua di quella da compiere sul terreno di gioco, almeno per una tifoseria che storicamente è sempre stata composta da tante anime. E se devo dar risalto a un fattore che mi ha positivamente impressionato è proprio questo: il battito unisono del cuore dell’Olimpico alla ricerca di un traguardo che tutti hanno sentito proprio. E hanno messo al di là di qualsiasi inutile guerra di quartiere.

Torce, fumogeni, bandiere e sciarpe hanno preso possesso per qualche minuto di quell’angolo che dal Lungotevere porta all’ex Ostello della Gioventù, in una delle espressioni più gioiose e spontanee viste a queste latitudini negli ultimi anni. Perché probabilmente la cosa più bella percepita in queste settimane è stata proprio quel risveglio dal torpore dell’imborghesimento che purtroppo ha pervaso la Roma del tifo da qualche anno. L’aver assaporato nuovamente la magia di una possibile vittoria, ma anche solo di un cammino entusiasmante, ha ridato ai romanisti lo smalto di un tempo, quello che ha fatto conoscere la tifoseria giallorossa anche al di fuori dei confini cittadini per la sua passione e la sua inclinazione fortemente popolare.

Ordunque, pensate voi che una storia simile possa avere un bell’epilogo? Il calcio è ancora maestro di cabala e tradizioni. La Roma con il Liverpool ha una storia antica, fatta di vere e proprie tragedie sportive. La finale del 1984 è una ferita ancora aperta per le generazioni che l’hanno vissuta e un’onta da vendicare per quelle che sono venute dopo. In quanto vorrebbero esorcizzare quei palloni scagliati nel cielo per destinazione da Bruno Conti e Ciccio Graziani, o prendere per la collottola il “prode” Bruce Grobbelaar mentre danza stupidamente sulla linea di porta?

Eppure – torniamo all’inizio – è anche grazie a queste sofferenze che una tifoseria accresce il proprio senso d’appartenenza e tramanda di generazione in generazione i propri sogni e le proprie speranze. Quindi non ci si sorprenda se oggi intere generazioni abbiano sperato di vendicare i propri padri. E sebbene non ci siano riusciti, sanno di aver fatto il proprio dovere di tifosi.

Dimostrando ancora una volta la distanza abissale che intercorre tra “noi” e “loro”. Dove “noi” sono gli italiani. I tifosi del calcio. Quelli che lo vivono come una religione e sanno trasformare uno stadio in una polveriera ricca di suoni e colori. Rappresentando in maniera scenica tutto il proprio essere mediterranei ed eredi di un Paese che del campanile ha fatto una ragione di vita.

Basta vedere i tifosi del Liverpool. I loro lunghissimi silenzi, persino quando il risultato lasciava intuire che ormai Kiev era a un passo. Ho capito che il loro frastuono dell’andata era probabilmente figlio del risultato. E mi sono chiesto se a punteggio opposto Anfield avrebbe saputo dare quell’apporto. Di sicuro il match di Roma li ha visti quasi annichiliti. Benché la storia sarebbe dovuta essere differente. Almeno seguendo una logica emozionale.

Manè ha subito messo in chiaro le cose, portando i Reds avanti. I bandieroni della Sud non si sono ammainati. Non potevano. Il messaggio in settimana era stato chiaro: chi si arrende non merita di giocarsi un simile palcoscenico. Lo hanno compreso tutti e per una volta, per una sera, lo stadio si è messo in gioco. Non solo gli ultras. Non solo i tifosi “normali”. Ma lo stadio intero. Tutti a soffiare sul pallone. Pure se l’impresa era impossibile. Anche se la Roma si complicava la vita in maniera incredibile. Pure se a tanti le scelte arbitrali non hanno convinto.

E quindi, torno a ripetere: poteva avere un epilogo fiabesco questa storia? Certo che no. Ma non è una questione di fato. È una questione di calcio. E delle sue sentenze inoppugnabili.

Stavolta non ci saranno scenate isteriche. Ma l’orgoglio di un popolo che resterà quasi interamente dentro l’Olimpico. Lontano da quelle scene di un Roma-Arsenal di tanti anni fa quando, dopo una doppietta di Henry, a mezz’ora dalla fine, in tanti lasciarono Distinti e Tribune, attirandosi addosso le sacrosante ire della curva.

Oggi i romanisti hanno voluto essere una Nazione e non singole città. E questo dev’essere da monito per il prossimo futuro. Per i Roma-Chievo e Roma-Crotone del caso, quando si deve interpretare l’impegno, se non con la stessa intensità, con il medesimo rispetto. Anche questo ti dà l’opportunità di sognare ed essere grande.

Per i bambini che cresceranno e i più vecchi che continueranno a vivere queste emozioni ci sarà sempre una strada su cui marciare uniti. Un Liverpool da affrontare. E probabilmente con cui soffrire e patire delusioni. Ma se tutto ciò si affronta con l’orgoglio di questa sera allora si avrà meno paura di qualunque avversità. E anche quando si uscirà sconfitta ci sarà una storia da raccontare e tramandare.

Testo di Simone Meloni.
Foto di Simone Meloni e Cinzia Lmr.