“Ah regazzì ma ‘n ce l’hai ‘na casa? Sempre qqua stai?”. È una giornata torrida del luglio 2002 – almeno mi sembra di ricordare -, l’autobus 671 ha appena finito di percorrere Via Gallia (“Feudo dell’Opposta”, per i memori e gli amanti delle scritte sui muri) scaricandomi proprio a due passi da Piazza Epiro. Laddove come ogni giorno il mercato ha ravvivato e movimentato quel vasto, popolare e caotico quadrante del quartiere Appio.

I miei quindici anni brillano tutti nel riverbero del sole, portando con sé l’ingenuità di chi non ha ancora trovato la totale sincronia con il mondo esterno, ma ha capito che l’universo delle Curve rappresenta – e rappresenterà – un qualcosa di unico, in grado di trasmettere emozioni, sensazioni e gioie pressoché uniche e irripetibili in altri anfratti della propria esistenza.

Quindici anni fa (quindici come la mia età dell’epoca, quasi in un curioso gioco a rincorrersi da parte di numeri che scandiscono in maniera silente ma forte la nostra esistenza) tutto era un po’ più diverso. Tutto era profondamente differente, o almeno così sembrava di vederlo attraverso gli occhi dell’adolescenza. Coprire quei pochi chilometri a bordo degli scalcinati mezzi dell’Atac per arrivare nella vecchia sede degli As Roma Ultras, magari aspettando 30-40-50 minuti un autobus, era comunque un qualcosa che mi rendeva felice ed orgoglioso.

Perché mi faceva sentire il piccolo ingranaggio di un mondo composto da ragazzi e uomini che domenica dopo domenica sapevano caricarsi sulle spalle gli umori e le passioni di 10.000 “scalmanati” per convogliare quel terremoto umano in un unico canale, quello del tifo. Un vero e proprio caos calmo.

“Ah regazzì ma ‘n ce l’hai ‘na casa? Sempre qqua stai?”. Mi rimbomba ancora nelle orecchie. Come se fosse oggi. Come se quel sole che rendeva l’asfalto bollente stesse battendo proprio in questo momento. È il saluto di Fabio. Al secolo “Roscio”. È il classico modo di fare quando un romano ti vuol dare il benvenuto: ruvido all’apparenza, guascone per definizione. “Tiè, n’adesivo t’o regalo” mi ha detto spesso quando l’ho saluto per andarmene, dopo aver preso una fanzine o degli adesivi.

I miei ricordi sono perlopiù offuscati se si parla di vivere quotidiano, ma se l’argomento cade sulla Curva, sulla sua gente e sulle sue storie, allora posso dire di aver sempre centellinato e approfondito ogni minimo particolare. Per questo motivo ricordo quasi tutto e posso dire con estrema serenità di enfatizzare sempre il meno possibile.

Per questo il presente articolo lo vorrei dedicare proprio al Roscio nonché a Coca Cola, di cui in settimana sono caduti gli anniversari per le rispettive – e premature – morti. Due modi di vivere la squadra, la Curva e il tifo che il fato ci ha portato via, ma che ha estirpato malamente anche a un movimento ultras sempre più avaro di figure di riferimento e menti pronte a tramandare quello che i settori popolari sono stati per la storia del nostro calcio e della nostra gioventù.

Non me ne voglia nessuno. È il resoconto di Bologna-Roma ed ampio spazio dev’essere dato all’evento. Eppure proprio Bologna-Roma è una partita “dei loro tempi”. Perché quella tra Felsinei e Capitolini è una vecchia novella, su cui ovviamente non entrerò tanto nello specifico per quanto riguarda le storie passate, ma che possiamo senza dubbio registrare come la classica storia d’amore che dopo qualche anno si trasforma in odio più viscerale e sentito di tante altre rivalità.

È un mondo particolare quello delle Curve, dove in pochi metri di stadio passi dall’essere valoroso capopopolo a infame e codardo delinquente pronto a menare le mani per soddisfare la propria sete di violenza. Eppure questo confine – che probabilmente è lo stesso che intercorre tra la società del perbenismo sragionato e quella analitica e rispettosa di tutto, anche delle sottoculture – rappresenta un annoso punto di rottura. Una linea di demarcazione dalla quale partire per molti e sulla quale mettere la parola “fine” per altri.

Quelle estati sugli autobus che non passavano, sotto il caldo soffocante e in attesa che un direttore di gara fischiasse l’inizio del campionato per poter anche solo immaginare di metter piede allo stadio, mi sono rimaste addosso. E sono il motivo principale che mi spinge ancora oggi a macinare chilometri. È un qualcosa di strano. Forse un riflesso incondizionato. Forse quel barlume di romantica pazzia che ci guida bellamente nell’età giovanile.

Come nel ruggito più forte del leone. Come nella sua corsa più potente e lineare. Così potrei descrivere il comportamento del settore ospiti quest’oggi. Un tifo che – dopo diverse prestazioni claudicanti – ha rasentato la perfezione, mettendo in evidenza una bella unità di intenti e tanto colore. Dopo un derby perso. Dopo la delusione cocente. Dopo la scrematura sistematica tra chi magari ora borbotta a casa e chi ha deciso che non saranno comunque i risultati a tenerlo sul divano.

No. I motivi ostativi semmai possono essere altri. Il prezzo del biglietto (37 Euro restano del tutto fuori luogo, ma di contro bisogna sempre sottolineare come proprio la società giallorossa sia una delle principali fautrici del caroprezzi, con tagliandi che si aggirano sempre ben oltre i venti euro minimo per partite di seconda fascia) o quell’ormai sempiterna voglia – da parte delle istituzioni – di tenere lontani i “padroni” del calcio.

Sì, perché quando con spocchia a arroganza qualcuno definisce i tifosi “padroni di calcio” ha ragione. Ma dato che così deve essere, allora li si renda liberi di entrare in casa propria senza troppi balzelli burocratici ed economici.

Riecheggiano forte proprio quei Bologna-Roma di inizio anni 2000. Le invasioni capitoline con la San Luca traboccante di cori e di colori e la curva di casa al gran completo: gli striscioni, il tifo, le torce e i fumogeni.

A rimandarceli indietro c’è il suono costante dei tamburi rossoblu con quella bella sciarpata soverchiata da una fumogenata che accoglie le squadre in campo. Il tifo che sicuramente risulta un po’ dispersivo complessivamente, ma raggiunge in più occasioni ottimi picchi e risente inevitabilmente dello 0-3 maturato in campo.

Se il calcio italiano non fosse diventato una macchietta allucinante, con la maggior parte delle partite del girone di ritorno tramutate in amichevoli senza interesse, sicuramente Bologna potrebbe e dovrebbe dire la sua a livello sportivo. Ben oltre la solita e compassata salvezza.

Ogni città italiana che si rispetti vive e interpreta la propria squadra come una religione. Qua dal 1909 di storie e aneddoti da raccontare ne hanno a iosa. E quando nei negozi e tra la gente ti accorgi che fioccano vessilli ed effigi con i colori sociali, comprendi quanto la voglia di far “balotta” per il Bologna sia tanta e soprattutto sai giustificata da una storia che si perde nella notte dei tempi.

Capita allora che sia proprio una bella giornata di sole – quel sole che ti è rimasto addosso e che ti fa ripercorrere a ritroso la tua esistenza – ad accompagnare non solo novanta minuti, ma un’intera giornata. Quella di Bologna resta una partita sentita e voluta da entrambe le fazioni. All’ombra delle Due Torri continua ad esistere la rivalità e la voglia tramandarla di generazione in generazione. Così come la passione eterna nello sventolare i bandieroni e accendere di tanto in tanto qualche fumogeno qua e là. Romantico promemoria del calcio che fu.

Mentre gli ospiti salutano il successo proprio con gli striscioni per Fabio e per il Coca Cola. Se questa è l’ultima istantanea della giornata non resta che darci appuntamento alla prossima volta.

Del resto la primavera è entrata di prepotenza e i colli che circondano Bologna rispecchiano di un verde forte, che emana il suo profumo a centinaia di metri di distanza.

Testo Simone Meloni.
Foto Simone Meloni e Luigi Bisio.

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