La partita in questione è Napoli – Legia Varsavia del 10 dicembre 2015.

In quell’occasione, venivano arrestati in flagranza di reato dieci ultras partenopei per resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e lancio di materiale pericoloso, nel corso degli scontri con la celere impegnata in una carica di alleggerimento per disperdere i napoletani in cerca degli avversari.

Per C.F., classe ’85, veniva convalidato l’arresto ed applicato, in luogo della misura cautelare degli arresti domiciliari, il cosiddetto daspo giudiziario con l’obbligo di presentarsi presso il Commissariato PS di zona durante gli incontri di calcio del Napoli.

Nel frattempo, a carico dello stesso giungeva anche il daspo del questore, unitamente all’obbligo di comparizione innanzi alla PS.

L’ordinanza con cui il GIP convalidava la misura limitativa della libertà personale, però, veniva prontamente impugnata dai difensori con ricorso per cassazione che i giudici di piazza Cavour della terza sezione penale accoglievano. E, con sentenza numero 17238/2017, annullavano senza rinvio per lesione del diritto di difesa dal momento che il giudice incaricato non rispettava il termine riconosciuto all’interessato per l’eventuale presentazione di scritti difensivi.

Nel frattempo, volgeva al termine il primo grado del processo penale che vedeva imputato il tifoso preso di mira dalle autorità, condannato ad un anno e due mesi di reclusione, considerati pure i precedenti penali per reati contro il patrimonio.

In quella sede il tribunale non applicava all’imputato anche il daspo giudiziario con la firma, addirittura revocando la misura iniziale richiesta dal pubblico ministero, pur ritenendo che lo stesso avesse preso a cinghiate un ispettore di polizia impegnato nella predisposizione della carica, dopo aver già lanciato bombe carta e molotov sulla celere.

Le argomentazioni della difesa sugli intenti calunniatori dei poliziotti che avevano proceduto all’arresto, sull’anomala identificazione del proprio assistito e sulle molteplici contraddizioni che emergevano dal verbale di arresto e dalle dichiarazioni dell’ispettore aggredito riuscivano, quindi, a scongiurare la vessazione ulteriore della “firma”.

Poco dopo la sentenza del Tribunale di Napoli, il questore del capoluogo campano imponeva ancora una colta a C.F. di presentarsi negli uffici di polizia durante le partite del Napoli, una o due volte, rispettivamente, per le partite in casa e in trasferta.

Alla stregua di una partita a scacchi, decorse quarantotto ore dalla notifica, nel cui frangente veniva avanzata richiesta di convalida dal PM competente, la difesa rilevava al GIP la necessità di un controllo svolto in modo pieno atto a vagliare la ragionevolezza della misura disposta. Dunque, attaccava la “nuova” prescrizione del questore, sostenendo la mancanza di concretezza ed attualità di pericolosità del soggetto, l’insussistenza delle ragioni di necessità e di urgenza relative al caso di specie, qualificando la reiterazione della richiesta di applicazione della “firma” come una forma di presunzione giuridica impermeabile all’intervenuta sentenza della Suprema Corte e alle motivazioni del giudice di primo grado.

Riflessioni condivise dal GIP del Tribunale di Napoli che, di fronte alle pretese difensive degli avvocati Giuseppe Milazzo e Marco Bernardo, faceva notificare all’interessato e all’ufficio misure di prevenzione e sicurezza di Via Medina l’ordinanza di non convalida della “firma”, visto che le cinghiate inferte all’ispettore ed il lancio di materiale pericoloso durante i disordini avvenuti nei pressi dello stadio S. Paolo di Fuorigrotta, di per sé sole, “non legittimano un giudizio di attuale inaffidabilità del soggetto tale da indurre a ritenere necessaria l’imposizione dell’obbligo di presentazione.”