Ore 20:22. Salvo ritardi, tra meno di quaranta minuti andrà in scena l’ultimo atto dei mondiali brasiliani. Un’edizione brutta, sciapa, insignificante. Che ho seguito con la forza della disperazione, guardando integralmente solo le partite della nostra indegna nazionale e forzandomi di seguire almeno qualche spezzone di ogni singola partita, tranne quando altri impegni non me lo hanno permesso.

Potrei parlare di noia, non solo a livello di calcio giocato, ma sugli spalti; dell’assenza di torcidas e barras, per non parlare di quella degli ultras europei. Ma, in fondo, perché avvelenarsi tanto? Da che io mi ricordi, a livello di tifo, almeno per come lo concepiamo noi “partitellari”, in un Mondiale non c’è mai stata tanta carne da mettere al fuoco. Per quanto ragazzino, ricordo benissimo, per esempio, l’entusiasmo di Italia ’90, ma di tifoserie organizzate c’era poco o nulla, tanto meno al seguito della nazionale di Vicini. Un tempo, forse, l’unico motivo di interesse erano le incursioni degli hooligans inglesi, di fatto non più pervenuti ad un Mondiale dopo il 1998.

Cosa rimarrà, allora, di questa monotona edizione dei Mondiali brasiliani? Al di fuori di alcuni clamorosi risultati sportivi, poco o nulla. Verrà ricordato il nome della squadra vincente, la débâcle di grandi squadre europee, compresa la nostra triste e viziata Italia, l’impresa del Costa Rica, il furore della Colombia, la forza delle prime tre classificate e poco altro.

Su quelle mitiche gradinate verdeoro, invece, c’è poco da dire, e quasi nulla passerà agli annali, al di fuori dell’invasione argentina per questa finale. Troppo distanti gli Europei per far pesare la loro presenza, di fronte a tour operator esosi e costi di spostamento inaccessibili; quelle poche tifoserie che hanno presentato buoni numeri dal Vecchio Continente, sono solo lo specchio sociale di aree baciate ancora da un relativo benessere e dove solo dei validi figli di papà hanno potuto permettersi questo bel viaggetto senza pesare sulle casse familiari, magari vantandosi di qualche inquadratura sfuggente grazie a costumi che nulla hanno avuto da invidiare al Carnevale di Rio.

Ma è stato anche il mondiale di avvenenti ragazze diventate carne da macello, spesso senza volerlo (ma a volte volendolo eccome), nel calderone del gossip mondiale. Del resto, questo vuole il lettore, in un mondiale privo di argomenti. E le seghe non passano mai di moda.

Le torcidas brasiliane, di cui qualcuno ha retoricamente quanto ipocritamente sentito la mancanza dopo il clamoroso Brasile-Germania 1-7, sono rimaste squisitamente fuori, se non con eccezioni troppo isolate per poter farsi sentire. Troppo alti i costi dei biglietti e troppo chiusi i circuiti di vendita: secondo Datafolha, istituto di ricerca e branca di un noto gruppo editoriale brasiliano, il 76% dei Brasiliani entrati allo stadio per le partite è di razza bianca (a fronte di un 49% di bianchi complessivi nel Paese), ed il 90% appartiene a ceti ricchi o altamente benestanti. Quel 10% rimanente, quindi, era troppo minoranza e troppo disomogeneo per poter sostenere il Brasile in stile “torcida”, e si sa che è dalle classi popolari che nasce, storicamente ed attualmente, il vero tifo.

Fuori i Brasiliani e considerate relativamente alcune note di colore come Statunitensi e Giapponesi (Paesi che hanno avuto un buon seguito, sempre tenendo conto del benessere economico di ognuno), l’attenzione si è spostata sulle barras sudamericane e centroamericane.

L’Argentina resta un discorso a parte, con una gestione dei biglietti molto ambigua da parte dell’AFA, la Federcalcio Argentina, che ha favorito l’accesso negli stadi a determinati soggetti anziché ad altri, mettendo in conflitto le stesse barras del paese. Niente di nuovo, quindi, e lo scioglimento delle Hinchadas Unidas Argentinas prima del mondiale è stato un segnale eloquente del malcontento verso la gestione federale della questione biglietti. Nonostante alcune cose buone fatte vedere a livello di tifo, il potenziale argentino ha esploso colpi rigorosamente a salve.

In Sudamerica sono rimaste, quindi, Cile, Colombia, Ecuador ed Uruguay. Discorso a parte proprio per l’Ecuador, dove, tra il Paese piuttosto piccolo, la povertà e la mancanza di un tifo coordinato per la nazionale, non è stato fatto vedere molto. Non sono mancati i supporters uruguaiani, considerati piuttosto tranquilli rispetto alle media sudamericana e con una popolazione che non arriva nemmeno a tre milioni e mezzo di abitanti. Rimangono, quindi, Colombiani e Cileni che, nel complesso, hanno tirato parecchio in su la media dei decibel sui gradoni; nulla di eccezionale rispetto ad una partita delle rispettive nazionali a casa loro ma, dato il contesto, sono state, a mio parere, il top visto in questo Mondiale.

Dal Centroamerica buoni numeri per i Messicani, nonostante anche a loro manchi quel qualcosa in più in termini di tifo per la loro nazionale.

Prendendo ad assioma il fatto che i Mondiali siano l’antitesi di un tifo organizzato e passionale, allora, perché ogni mondiale che passa ci sembra sempre più brutto? Probabilmente è tutto il contesto intorno a dipingerlo a tinte malinconiche, nonostante i tentativi, infiniti, di rianimazione a suon di gossip e frivolezze da parte dei media mondiali per resuscitare il morto: la sfida tra le sexy-tifose, i tweet dei campioni, i fotomontaggi social a seguito di qualche partita, modelle (o aspiranti tali) a tette per aria per azzardare qualche improbabile pronostico, carnevalate sugli spalti e frasi ossessivo-compulsive dei cronisti per dirci che questo è il mondiale più bello di sempre.

Eppure, queste ultime due edizioni iridate, qualche differenza l’hanno avuta rispetto alle precedenti edizioni: esse si sono giocate in Paesi dalle forti tensioni sociali, dove non è bastata l’aria fresca di un mondiale a cancellare problematiche che le popolazioni vivono sulla loro pelle tutti i giorni. Mentre, fino a qualche edizione fa, le classi sociali più basse, con qualche sacrificio, potevano sperare di ottenere un biglietto per qualche partita, oggi sono tenute a distanza di sicurezza dagli impianti e ghettizzate nelle loro favelas o Soweto che siano.

Ciò nonostante, il grido di chi ha protestato contro lo sperpero di denaro pubblico, la corruzione dilagante, la crescente povertà, oltre alla mancanza dei servizi sociali essenziali si è sentito lo stesso, alla faccia dell’ostracismo dei media impegnati a parlarci del nulla vestito a festa.

Oltre questo, la classica polvere sotto al tappeto nascosta per far apparire tutto più bello ha trovato il suo pertugio per uscire, mostrandoci voragini vicino agli stadi, viadotti crollati e favelas a poche centinaia di metri in rovina e strani giri per la vendita dei biglietti delle partite.

Personalmente, a me un’immagine rimarrà di questi mondiali, e non riguarda nessuna partita: è quella dello spot ufficiale di questi mondiali, abbinato ad un banale jingle, dove un bambino (di razza chiaramente meticcia) contagiato dalla passione calcistica guarda da lontano lo stadio pieno di luci e colori; quello stesso stadio dove egli non potrà mai accedere, perché riservato solo a gente facoltosa e dalle tasche larghe. Quello stesso bambino delle favelas che magari rivedrà un mondiale in patria solo quando sarà vecchio ma, capirà, magari, che quel circo patetico non merita tutta questa importanza.

La FIFA fa bene a far disputare i prossimi mondiali in Russia (Paese dove il dissenso è represso violentemente) o, ancora meglio, in Qatar. Sia mai che il carrozzone si inceppi a causa di qualche imprevisto.

Stefano Severi.