Arrivo a Cosenza alle prime ore di uno dei primi venerdì di Dicembre. Mi accolgono Jonathan e Giovanni, due dei ragazzi degli “Anni Ottanta”. Mi accolgono quattordici gradi quasi surreali, considerato che siamo alle porte dell’inverno e che a Bologna, alla mia partenza, c’erano due gradi sottozero che avevano anche leggermente ritardato la partenza, a causa di presenza di ghiaccio sulla pista.

Cosenza mi appare da subito, così come si rivelerà successivamente, una sintesi lacerante di bellezza e contraddizioni, di antiche glorie architettoniche e di chiazze di cemento vomitato negli angoli più impensabili della città. Una cartolina immutata del Sud che ho lasciato alle spalle quasi quindici anni fa, per cercare altro e meglio in luoghi lontani dal cuore. Funzionali ma senza palpiti e sangue, almeno del sangue del mio sangue. Un’istantanea di tutte le lotte quotidiane che da fuggitivo ho smesso di combattere e per le quali, qualcuno al posto mio, ancora tiene acceso il fuoco del dissenso. E gliene sono grato.

E in tutto ciò l’unica costante, il fulcro su cui si regge un’intera città e l’equilibrio della sua anima, è nella sua gente: dal mio arrivo, ogni passo mosso a Cosenza è stata una processione di volti, di strette di mano, di abbracci, di umanità vera, di storie, di racconti mitologici e di confidenze regalatemi come ad un amico fidato. Storie di scontri, di amici scomparsi, di trasferte oceaniche e di avventure in pochi intimi. Una lunghissima traversata nel corpo vivo della Cosenza ultras, dalla sua genesi agli ultimi sussulti odierni di chi, su quei gradoni, ancora trova la voglia di sfidare questi tempi infausti e la sua schiacciante spinta omologatrice.

Passiamo a far colazione al bar di Marco, il corista del gruppo. Ci congiungiamo a Walter. Ci spostiamo al Parco “Piero Romeo”, uno spazio cittadino dedicato ad una delle figure centrali della storia ultras locale, strappato all’abbandono per farne un parco giochi, tra i più grandi in Italia, in cui bambini in carrozzina e bambini normodotati possano giocare assieme senza diversità.

È qui che conosco Pietro Garritano, pietra angolare di questa nuova entità ultras che da qualche tempo colora le domeniche del “San Vito – Marulla”. L’idea era di fare un’intervista frontale in senso classico, ma mi sono ritrovato a prendere appunti su un tovagliolo di carta al pub, solo a notte inoltrata, dopo l’ennesima birra e a margine di una giornata infinita, in cui l’unica premura di tutti era riuscire a farmi toccare con mano e occhi quanto più possibile della città che dà forma ai suoi ultras.

Pietro è la mia idea perfetta di ultras. Non mi è mai piaciuta la definizione “capo-ultras”, perché allude ad una gerarchia che in un movimento orizzontale, e tendenzialmente anarchico come quello ultras, è un po’ contraddittoria. Pietro è quello che ogni ultras di riferimento in una curva dovrebbe essere: autorevole ma non autoritario, carismatico senza divenire macchietta, sempre in prima linea in ogni sussulto di vita del gruppo senza diventare ingombrante nei confronti degli altri ragazzi, fossero anche giovanissimi. Poi parlare con lui è parlare con una memoria storica impressionante, con uno che ha vissuto senza mezze misure le strade e lo stadio della sua città. Ma a questa che non è proprio un’intervista nel senso stretto del termine, hanno contribuito tantissime altre persone, da tutte quelle menzionate a Claudio Dionesalvi, amico e ultras con il quale ogni discorso finisce per esondare in analisi inesplorate, acute, aprendo spazi ideologici nuovi, ma senza mai parlarsi addosso inutilmente. Brandelli di discorsi con Roberto, Ciccio, Sergio, il prof. Besaldo, Luca e tante altre persone che stilare una lista è veramente impresa ardua. Mi scuso se non riesco a ricordare tutti, ma ringrazio sinceramente ognuno di loro.

Quando e come – è la prima cosa che mi chiedo e chiedo – nascono di preciso gli “Anni Ottanta”?

Tutto parte da lontano. La spinta originaria venne nel 2014, l’anno del centenario del Cosenza Calcio. Il 23 febbraio, nella gara interna contro l’Aversa Normanna per il campionato di Lega Pro 2013/14. Ci ritrovammo in Curva Sud fra vecchi amici, vecchie facce da stadio, molte delle quali avevano smesso per varie ragioni di frequentare il “San Vito”. Tanti provenivano dall’esperienza della “Nuova Guardia”, gruppo nato nel 1986 come una sorta di avanguardia giovanile e turbolenta degli allora “Nuclei Sconvolti”. Tanti anche quelli con un passato di militanza negli stessi e ancor più vecchi NS, mentre il resto della colonna vertebrale del gruppo è composto da vecchi “Rebel Fans” e “Cosenza Supporters”.

Da quel giorno in poi riprese vita e si andò infittendo questa rete di rapporti interpersonali che covavano sotto la cenere ed aspettavano, evidentemente, soltanto di essere reinnescati, finendo così per dar vita al gruppo. Causa e pretesto non furono solo gli incontri domenicali, ma contribuirono tanti altri eventi a carattere aggregativo come le “cene ignoranti”. Fu proprio in una serata di maggio 2014, presso “la sede degli ignoranti”, covo di un gruppo di amici e tifosi cosentini con cui avevamo preso a frequentarci, che davanti ad un bicchiere di vino, un boccone e alcune chiacchiere in compagnia, su spinta del buon Claudio Dionesalvi nacque l’idea di fondare gli “Anni Ottanta”.

Perché la scelta di questo nome così evocativo? 

La volontà, come nella migliore tradizione del tifo cosentino di marca “sconvolta”, era quella di trovare un nome che fosse originale senza essere eccessivo o divenire caricatura. Un nome che, sostanzialmente, incarnasse quello che eravamo e siamo, quello che volevamo fare sugli spalti e tutti gli ideali che ci proponevamo di seguire. Fra le varie proposte, la scelta ricadde, in quella cena del maggio 2014, su “Anni Ottanta” proposto proprio da Claudio perché evocava appunto, in maniera ineccepibile, tutto quello che come ultras in genere abbiamo perduto, o ci è stato tolto, tutto quello di cui volevamo riappropriarci: spazi sociali, possibilità di aggregazione, colore, identità, ecc.

Il richiamo è agli anni d’oro del tifo, alla migliore tradizione italiana, quella che ha creato emuli e ammirazione in tutto il mondo; a quando si viveva la curva in maniera genuina, creativa; all’epoca degli striscioni, dei tamburi o dei megafoni oggi vietati manco fossero armi; dei grandi gruppi come collettivi di uomini e di idee, delle trasferte in massa o in pochi temerari, in treno o con i mezzi più disparati, ma effettuate sempre con la sfrontata voglia di esserci ovunque e comunque; quando non ci si incartava in mille teorizzazioni filosofiche estreme ma gli ideali propugnati, pur essendo pochi, erano ben saldi e valevano come l’impegno solenne di una promessa, come l’onore di una parola data.

Ma lo striscione? Quando avvenne la sua vera e prima comparsa?

La prima comparsa ufficiale dello striscione fu a Cremona il 10 agosto 2014 in Coppa Italia, trasferta effettuata senza tessera ed in cui riuscimmo pure ad entrare allo “Zini” in barba alle disposizioni in materia. La successiva e prima partita di campionato ci vedeva ospiti in una trasferta per noi storicamente ostica in quel di Salerno. Trasferta che riporta alla mente tanti episodi, tanti scontri, viaggi, giornate di tifo di una delle rivalità tipiche degli anni a cui ci ispiravamo.

Ovviamente la partita fu preceduta da un clima di terrore psicologico eccessivo e gratuito da parte delle autorità preposte, che cercarono in tutti i modi di scoraggiare quanti come noi volevano mettersi in viaggio alla vecchia maniera, prima che venisse varata l’odiata tessera. Oltretutto a Salerno, a luglio, era stato appena nominato come questore quell’Anzalone che, fino ad allora, aveva ricoperto la stessa carica a Cosenza, quindi la vicenda prese dei risvolti tutti particolari e personali.

Alla fine, dopo mille polemiche e mille discussioni interne, decidemmo a malincuore di non partire e da qui, per una sorta di forma di coerenza, decidemmo di rinunciare in toto a partire per le trasferte, visti i rischi anche gratuiti a cui ci sottoponevamo da non tesserati.

La successiva prima partita in casa, quella che vide il nostro esordio al “San Vito” e in Curva Sud, fu quella contro il Foggia e da lì in poi tutta la successione di storie che ci hanno visti protagonisti fino ad oggi.

E dalla Curva Sud come ci siete finiti in Tribuna A dove attualmente operate?

Il passaggio in Tribuna fu un passaggio dapprima simbolico e celebrativo, poi divenne un atto di autodeterminazione e di autonomia. Nell’ottobre del 2014 infatti, per la gara interna contro il Messina, decidemmo di spostarci in tribuna. In realtà l’idea iniziale era quella di spostarci in Tribuna B, che è la culla del tifo cosentino, il luogo dove per la prima volta si aggregò una forma di tifo organizzato a sostegno dei Lupi. Tutto nacque per l’iniziativa di solidarietà “Oltre le barriere c’è vita”, realizzata spalla a spalla con l’associazione “La Terra di Piero”, dedicata alla memoria di Piero Romeo, figura storica del mondo ultras cosentino.

Come si potrebbe intuire dallo striscione “Lupi a rotelle (con le ruote quando volete)”, al nostro interno vi è anche una certa presenza di tifosi in carrozzina ai quali, prima di quell’occasione, era negata la possibilità di seguire le partite con noi. Così se loro non potevano venire in Curva con noi, decidemmo di andare noi in Tribuna A con loro, nell’unico spazio dello stadio che permette di vivere e condividere l’esperienza stadio in maniera davvero inclusiva.

In quell’occasione tutta la Curva Sud in blocco si spostò per una volta in Tribuna, noi decidemmo poi di restarci ad oltranza, anche per una diversità di vedute per le quali necessitavamo di uno spazio nostro ed autonomo rispetto agli altri gruppi.  E poi c’erano “La Terra di Piero” e i suoi ragazzi a cui dobbiamo tanto e che non potevamo lasciare soli: forse, prima ancora che il centenario ci mettesse insieme fisicamente nello stesso posto, è stato il ricordo di Piero, di cui l’associazione a suo nome ne è la condensazione, a gettare in noi i primi semi che hanno poi portato alla nascita del gruppo.

Visto che stiamo citando da un po’ Piero Romeo e l’associazione “La Terra di Piero”, nata in sua memoria, dando un po’ per sottintese le loro figure, ci dite con più precisione chi era Piero e di cosa si occupa l’associazione?

Piero Romeo è – come già detto – una figura centrale nella storia del tifo cosentino per averne percorso, in prima persona, una lunga parte del suo cammino sin dai tempi di quella “Prima linea ’78” il cui striscione è ricomparso proprio con il nostro avvento allo stadio. Piero era riconosciuto, apprezzato e rispettato da tutti non solo per la lunghissima militanza, ma anche per l’indiscutibile carisma che faceva di lui un leader nato, il “capo ultras” ad honorem e perpetuo di una curva che, in verità, ha sempre sfuggito le gerarchizzazioni, tanto che lui stesso rifiutava quell’etichetta, quel “titolo nobiliare” che gli sarebbe spettato per gli onori guadagnati sul campo: “Le pecore hanno un capo e le mandrie un cane che le sorveglia. Noi siamo di Cosenza e capi non ne vogliamo”.

A Piero e ai “Nuclei Sconvolti” della prima ora si deve il primo raduno ultras in Italia nel 1985, ma la dedizione di Piero per la propria città e per gli altri, specie per gli ultimi, era talmente sconfinata che ben presto fuoriuscì dalle mura dello stadio per riversarsi nelle strade. Con Padre Fedele diede vita alla mensa dei poveri e l’impegno nel sociale divenne così totale che, assieme ad altri ragazzi di curva, si spinse fino in Repubblica Centrafricana per costruire pozzi d’acqua e poi altre opere in favore della popolazione locale.

Quando Piero a 50 anni morì, il 22 febbraio del 2011, dopo una lunga malattia, il modo migliore che Sergio Crocco “Canaletta” trovò per perpetuarne il ricordo, dopo aver convissuto al suo fianco in tante di queste iniziative di solidarietà attiva, fu quello di creare un’associazione che continuasse a coltivare con la stessa solidarietà quella terra che aveva sognato e per cui s’era prodigato fattivamente Piero.

Fra tutte le iniziative comuni, quella che probabilmente vi ha visti maggiormente coinvolti è stata la realizzazione del Parco “Piero Romeo”. 

Il Parco “Piero Romeo”, dopo anni di lavoro e 150.000 € di investimenti è ora realtà, laddove prima c’era uno spazio semi-abbandonato. Una realtà unica nel suo genere in tutto il Sud Italia, per tipologia e soprattutto grandezza: un parco giochi attrezzato con percorsi tattili per gli ipovedenti, altalene capaci di ospitare sedie a rotelle, scivoli, rampe ed abbattimento totale di ogni barriera architettonica e di qualsiasi distanza fisica fra bambini, normodotati o diversamente abili che siano, per un’area in cui l’inclusione è veramente totale.

Il Parco è uno dei tanti, forse il più significativo, dei progetti realizzati dall’associazione “La Terra di Piero” col sostegno di centinaia di persone, tra le quali noi stessi, che spontaneamente hanno dato una grossa mano. All’interno dell’associazione tanti dei meriti vanno a Sergio che, assieme ad un gruppo di attori non professionisti, aveva ideato “Conzativicci”, uno spettacolo teatrale in vernacolo, con il quale raccogliere fondi per il parco. Dalle iniziali due serate, lo spettacolo è arrivato fino alla 31esima replica, dando poi vita ad altre sedici repliche di una seconda commedia dialettale dal titolo “Foraffascinu”. Girando per tutte le città della provincia, passando per le date di Roma, Bologna, Perugia o portando ben 7.000 persone nella serata in cui a diventare teatro è stato il “San Vito – Marulla”.

Ma girando nel parco si possono notare anche alcune panchine a ricordare l’impegno importante degli ultras in questa causa: una rossoblu con l’evidente scritta “Anni Ottanta” per quel che ci riguarda più da vicino, un’altra rossoblu per ricordare e ringraziare il contributo della Nord di Genova o una nerazzurra la cui targa a margine testimonia il coinvolgimento della Curva Nord Bergamo.

La presenza di Genoani e Atalantini di cui sopra, lascia intuire che anche le vostre amicizie sono state ereditate pari pari da quelle del passato. Quali, ad oggi, i rapporti d’amicizia ufficialmente in piedi? E fra questi, ce n’è qualcuno del tutto nuovo, nato e cresciuto esclusivamente all’interno del vostro gruppo? Qualcuno che invece è andato perduto?

Alcune amicizie le abbiamo ricevute in eredità dalla storia e continuiamo a crederci fortemente, come quelle con Caserta e Ancona che ormai riguardano le città in blocco, trascendendo ogni discorso di singoli gruppi o persone.

Quella con i ragazzi dei “Frentani non tesserati” di Lanciano invece, è del tutto nuova, allacciata tramite la “Banda Free”, uno dei gruppi che condivide con noi le giornate sui gradoni della Tribuna A e che avevano già in atto un’amicizia personale con loro.

Alcune altre, proprio come quelle con Genoa e Atalanta, sono infine state testardamente riprese da noi, che avevamo ancora rapporti personali in piedi, dopo che il logorio del tempo le aveva lasciate cadere nell’oblio. Questo anche a causa di tante vicissitudini che il movimento ultras cittadino ha vissuto dallo scioglimento dei “Nuclei” in poi, al quale nessun gruppo ha saputo sopperire in longevità, e quasi nessuno in continuità o condivisione allargata e partecipata degli intenti.

Salimmo in gruppo per Genoa-Palermo appunto per chiarire la nostra posizione nei confronti della Nord genoana e da lì il rapporto non ha fatto che crescere e rafforzarsi. Per quel che riguarda specificatamente la Nord di Bergamo, dobbiamo invece ai ragazzi di Amantea il ringraziamento per avere, nel frattempo, continuato a portare avanti il rapporto. In virtù di questo è stato molto più semplice riprendere i fili di un discorso che, come succede fra veri amici, sembra di aver interrotto solo il giorno prima anche quando è da un po’ che non ci si vede.

Alla stessa maniera vorremmo recuperare l’amicizia con Pisa e stiamo lavorando a questo, anche se al momento le cose sono ancora in divenire. Purtroppo ben diverso è invece il discorso con Terni, Messina e Nocera con le quali, nonostante quanto di bello e sincero ci fosse stato in passato, le cose si erano ormai deteriorate al punto che per noi è stato impossibile anche solo pensare di riallacciare i ponti. Se può sempre dispiacere quando finisce un’amicizia, la pagina più triste in assoluto è quella che riguarda la fine del rapporto con Nocera, avvenuta per dei cori contro i tesserati che, con un po’ di buonsenso, potevano essere evitati. Oltretutto a pochi giorni dalla morte di Piero Romeo che loro onorarono con due striscioni bellissimi.

Altre amicizie non riguardano specificatamente il nostro gruppo, ma altre sigle all’interno della nostra tifoseria.

Quindi, stando a quanto dite sul “caso” Nocera, la vostra posizione precisa sulla tessera qual è?

Come già detto, nella nostra prima apparizione ufficiale a Cremona, partimmo senza tessera del tifoso perché siamo assolutamente contrari e continuiamo ad esserlo. Ma è una contrarietà “ragionata”, nata dopo una riunione a viso aperto fra tutti gli appartenenti al gruppo: nelle nostre componenti più anziane, non volevamo assolutamente essere di freno a tutti quei giovani che, solo per un limite anagrafico, non avevano mai potuto vivere l’ebbrezza di una trasferta. Ancor più in virtù di una contrapposizione che altrove era solo una posa sterile da imprimere su due aste o adesivi, senza alcuna battaglia concreta alle spalle o peggio rinnegata dopo qualche tempo tesserandosi in massa. Eppure i più giovani, anche senza condizionamenti, scelsero senza tentennamenti per il non tesseramento, ugualmente come fece la quasi totalità del gruppo.

Ma è la “nostra” posizione e se non abbiamo voluto imporla con forza al nostro interno o verso i più giovani, men che meno vogliamo farne una “bandiera” da sventolare moralisticamente in faccia agli altri per sentirci migliori. Oppure, peggio ancora, un precetto ortodosso ed estremista in nome del quale immolare altre amicizie.

Siete consapevoli che ciò potrebbe dire non tornare più in trasferta? E come si tiene in vita un gruppo una domenica sì e una no? Come si fa gruppo senza la trasferta, la quintessenza dell’essere ultras?

Siamo consapevoli eppure convinti delle nostre scelte. D’altro canto siamo un gruppo che, nel rispetto del nostro retaggio, ha una fortissima impronta aggregativa e sociale, perciò quando la trasferta ci obbliga a non andare allo stadio, riempiamo questi vuoti con tutta una serie di iniziative extra che però servono ugualmente a tenerci tutti insieme, impegnati attivamente, cementando lo spirito di gruppo. Abbiamo organizzato un maxi-schermo al Parco di Piero per seguire la partita tutti assieme, cene e pranzi popolari, dibattiti, tornei, alcuni dei quali di alto livello come il “Torneo della Controcultura” a novembre o il recente “Torneo Piccoli Ultrà” nel quale abbiamo coinvolto tante squadre giovanili locali, affiancato “La Terra di Piero” nelle loro iniziative di solidarietà e tanto altro ancora.

Contestualmente, in quelle maledette domeniche lontano dallo stadio, stiamo portando avanti un percorso di riavvicinamento e valorizzazione della provincia, dalla quale abbiamo sempre avuto un apporto importante in termini di partecipazione, spesso dandola un po’ troppo per scontata. Così abbiamo deciso di passare qualcuna di queste domeniche nei campi delle categorie inferiori con i nostri amici (e al cospetto delle loro squadre cittadine) di Amantea, Acri, Trebisacce, Villapiana, Longobardi, ecc. per dimostrare tangibilmente la nostra riconoscenza nei loro confronti.

Oltre che con la provincia poi, ci muoviamo sempre spalla a spalla con le tante anime, più o meno grandi in termini numerici o vecchie in termini di militanza, che hanno scelto di sposare la nostra linea e spostarsi al nostro fianco in Tribuna A. O “A Tribuna” come la indichiamo nel nostro materiale, che giocando con il dialetto sarebbe genericamente “la tribuna”, dato il sogno segreto e già menzionato di tornare alla madre di tutti i tifosi cosentini, ossia quella “Tribuna B” dove nacquero i primi ultras organizzati in città.

Avendo già parlato di rapporti d’amicizia e di quelli con gli altri gruppi, veniamo invece alle rivalità, a quelle che sopravvivono, a quelle che possono sopraggiungere.

Tutte le rivalità, da quella notoriamente più sentita contro Catanzaro a scendere verso le semplici antipatie, risentono della distorta lente sotto la quale sono costrette ad essere vissute. Gli anni più ruspanti e turbolenti sembrano preistoria del tifo, oggi fra tessere, tornelli, scorte che partono già dalla città ospite, caro-biglietti, biglietti acquistabili solo in prevendita, anticipi e posticipi spesso decisi all’ultimo, abusi della propria posizione da parte di televisioni e poteri forti in genere, compreso quello “esecutivo” in divisa, di queste rivalità se ne vive solo l’illusione. Oggi le tifoserie arrivano direttamente dal casello al settore. Solo avvicinarsi è impossibile per le varie zone blindate e quando si prova ad inventarsi qualcosa, si finisce per pagare prezzi salatissimi ben oltre le proprie reali colpe.

Per il principio dei vasi comunicanti, quanto represso da un lato va per forza di cose a esplodere da un altro. Difficile oggi provare lo stesso odio cieco contro un rivale che alla fine subisce le tue stesse angherie. Inevitabile poi che questo odio finisca per riversarsi in maniera maggiore verso lo Stato e i suoi apparati, forze dell’ordine in primis. A livello sociale poi, venendo da un contesto molto particolare ed avendo sempre condiviso ogni rivendicazione proveniente dal ventre della nostra città, sentiamo come sempre più urgenti tutta una serie di altre battaglie, politiche nell’accezione più pura del suo termine. La cattiva sanità, l’emergenza abitativa, il lavoro, la militarizzazione sempre più vasta delle strade, i diritti in genere sempre più assenti, ecc. portano inevitabilmente una tifoseria come la nostra, storicamente proiettata nel proprio contesto sociale, a divergere dal classico contesto di scontro interno, a diversificare e dirottare altrove parte delle proprie energie.

Ciò, per evitare stupide ironie, non significa che rifiutiamo lo scontro in toto: pur essendo stata storicamente una tifoseria più aggregativa che violenta, abbiamo dimostrato negli anni quantomeno di non esserci tirati indietro, quando le occasioni lo richiedevano. Non si può negare ciò che è nella propria natura, prima o poi in un contesto conflittuale come lo stadio può sempre succedere qualcosa, semplicemente noi rifiutiamo la logica dell’autolesionismo gratuito solo per atteggiarci a duri e cattivi, oppure la martirizzazione della figura del diffidato in una gara senza senso a chi ne ha di più. Le cose, in ogni caso, vanno fatte sempre con la testa, non per aderire ad uno stereotipo o ad una moda.

Restando sul tema “rapporti”, in che modo vivete quelli con la dirigenza o i calciatori? 

Con la società, così come con i calciatori, la linea è quella di mantenere una certa distanza, non tanto per diffidenza ma per autonomia. Noi siamo tifosi del Cosenza, l’unico valore immutabile nel tempo, non di chi va e viene come i suoi amministratori sportivi o i suoi atleti. Certo c’è sempre quella classica dialettica tifoso-società o tifoso-calciatore che ti porta ad interfacciarti o a rispettare più o meno l’operato di qualcuno e a palesarlo in vari modi, ma in genere la tendenza è all’equidistanza.

L’unica bandiera vera a Cosenza è stata Gigi Marulla, come si può dedurre dall’intitolazione dello stadio, dai murales che lo ritraggono in giro per la città o dal bandierone con il suo volto che domenicalmente sventoliamo. Con le debite proporzioni, è stato per noi quello che per Napoli è stato Maradona: con lui abbiamo vissuto i nostri momenti migliori ed accarezzato i sogni più belli, poi sfortunatamente sfumati, quindi è inevitabile che il suo ricordo sia impresso a fuoco nella memoria del tifoso rossoblu.

Ci sono poi altri calciatori che per motivi vari portiamo ancora nel cuore, a partire da Denis Bergamini al quale non a caso è intitolato una curva dello stadio e per il quale, ancora oggi, continuiamo a chiedere giustizia sostenendo le iniziative dell’associazione “Verità per Denis”, visti anche i troppi punti oscuri nella sua morte (raccontati egregiamente nel libro “Il calciatore suicidato” di Carlo Petrini, tra l’altro).

Per storie ugualmente tristi, hanno colpito l’immaginario collettivo altri due calciatori che dalla vita non sono stati ripagati con la stessa generosità che riversavano in campo: uno è Massimiliano Catena, a cui è dedicata l’altra curva dello stadio, la Nord; vestì la maglia del Cosenza migliore, quello che arrivò allo spareggio contro la Salernitana per rimanere in B, ma nel 1992 la sua giovane vita finì contro un guard-rail.

L’altro è Carmelo Imbriani, la cui storia più recente sarà ancora fresca nel ricordo di molti: dopo aver vestito la maglia del Cosenza come calciatore, allorquando ricopriva la carica di allenatore del Benevento, commosse l’Italia calcistica in una conferenza stampa in cui annunciava di volersi ritirare perché malato di cancro. Tanti tifosi, e noi fra questi, hanno lottato al suo fianco seguendone la battaglia con striscioni e cori di incoraggiamento. Anche se alla fine tutto è stato vano, resta il ricordo e l’esempio di dignità con cui ha affrontato momenti davvero duri. Perché in fondo sono le sconfitte a forgiarti lo spirito, molto più delle vittorie, e di sconfitte a Cosenza ne abbiamo patite tante, in tutti i sensi.

Chiudiamo il cerchio dei rapporti, parlando di quello con gli organi di informazione. In tante piazze c’è una sorta di chiusura a priori verso ogni forma di comunicazione, anche autonoma, secondo una teoria che – estremizzata – vorrebbe ogni apertura all’esterno come un tradimento dell’ideale primigenio e più puro. Voi come vi ponete?

La nostra posizione non è preclusiva. Valutiamo le cose singolarmente e per quello che sono, almeno per quel che riguarda il rapporto con la stampa in genere. D’altronde anche quello stereotipo maleodorante dell’omertà, che tanto acriticamente è stato esaltato in certi contesti, sarebbe un po’ stridulo per noi che da sempre ci facciamo vanto della lotta diretta per la riconquista degli spazi sociali e delle strade. Lotta che ovviamente non abbiamo mai delegato a terzi, men che mai a soggetti che – come tanti altri – alla nostra città hanno indubbiamente più tolto che dato.

Crediamo altresì al confronto a 360° purché onesto, compreso quello attraverso alcuni canali da noi direttamente gestiti, come la pagina ufficiale del gruppo, ovviamente portata avanti ad una certa maniera, raggiungibile scrivendo “ANNI Ottanta Cosenza” su facebook. Abbiamo poi anche una fanzine, “Voce Ribelle”, anch’essa con un suo spazio autonomo su facebook, fotocopiata in proprio e che distribuiamo durante le partite interne, a fronte di una piccola donazione almeno per coprirne le spese. La particolarità della fanzine, oltre ai classici editoriali, al punto sulle attività del gruppo, ecc., è la parte finale che viene sempre dedicata alla musica: dai cantanti ai movimenti sottoculturali, passando per le piccole realtà locali da valorizzare e finendo agli eventi storici; è per noi un modo come un altro di fare “cultura”, di allargare lo sguardo sulle mille sfaccettature che si intersecano con il mondo del tifo.

Non a caso peschiamo anche tantissimo nell’iconografia pop, musicale e non solo, come dimostrano bandiere e pezze come quella con la copertina di “War” degli U2, il “Taxi Driver” di De Niro, Syd, ecc. tutti ovviamente dal marcato retrogusto “anni ottanta”.

Ci piace credere che questi tentativi anche semplici di fare cultura e contro-informazione, vadano a centrare il bersaglio grosso ogni tanto, visto che ci è pure capitato di vederci sequestrare le fanzine, per esempio, per contenuti fortemente critici sull’operato delle forze di polizia.

Tipicamente degli anni ’80 è anche la scelta di aprire una sede, una scelta quasi contraria ai tempi che corrono e in cui i più decidono di far perdere ogni riferimento di sé, di non essere individuabili, di farsi movimento non più monolitico ma fluido per sfuggire alla repressione.

Per noi è invece necessario il percorso inverso: ci piace metterci la faccia in tutte le cose che facciamo, non abbiamo nulla da nascondere e abbiamo sempre pagato i nostri errori, spesso anche in sovrapprezzo. Per cui non rinunciamo alla possibilità di essere punto di riferimento per la nostra comunità, di difendere i pochi spazi sociali che ci restano e di conquistarli laddove possibile. La sede ha per noi una valenza enorme, a parte il grande impegno per aprirla, è un continuum della nostra attività allo stadio, un modo per cementare ulteriormente il gruppo, la seconda casa in cui costantemente ci confrontiamo, facciamo riunioni, produciamo materiale, prendiamo decisioni, ecc.

In tutti questi anni abbiamo visto tantissimi (la maggior parte dei gruppi), scegliere la tattica pur rispettabile dell’arretramento e della dispersione per “confondere il nemico”. Quanto questa tattica sia stata proficua è sotto gli occhi di tutti. Il risultato più evidente è stata la morte di tutti i grandi gruppi guida in senso classico, quelli della tradizione storica italiana, che hanno fatto invidia e scuola al mondo. Sciolti i gruppi ci siamo raccontati tante belle favole, che anche se ci cacciavano dagli stadi ci avrebbero rivisto nelle strade, che saremmo sopravvissuti come singole cellule di uno stesso organismo, ma a parte qualche eccezione, la regola ci parla di un movimento ultras in forte declino in Italia, sia di numeri che di qualità, per quanto resti sullo sfondo un potenziale comunque notevole. Noi abbiamo deciso di puntare i piedi, in questo senso, e di non fare nessun passo indietro.

Nel corso di quest’intervista, in un modo o nell’altro è sempre affiorata una certa vostra attitudine alla politica, eppure personalmente ho l’impressione che l’impronta sia meno marcata rispetto all’epoca dei progenitori “Sconvolti”.

Effettivamente all’inizio l’idea era quella di un gruppo apolitico, senza simboli che richiamassero ad una determinata area ideologica, ma non avevamo fatto in tempo a vagliare il proposito, che qualcuno aveva già disegnato la stella a cinque punte con il Che al suo interno, che piacque subito tantissimo ed è tuttora il nostro simbolo principale.
Diciamo che allo stato attuale facciamo molta meno “uso” della politica rispetto a chi nel passato ci ha preceduto: fermo restando che diversi ragazzi sono attivisti delle varie realtà antagoniste locali, le loro istanze non sono poi traslate pari pari allo stadio; ci può essere spesso una convergenza, sui temi sociali che riguardano la città e/o che anche a noi stanno a cuore. Certo non è necessario che chi si avvicini a noi debba per forza avere una rigorosa formazione politica alle spalle, anzi c’è anche chi di politica non ne capisce assolutamente niente: la spinta più urgente che ci ha riportato allo stadio, o che ha portato tanti giovani a convogliare nel nostro gruppo, è stata quella di ricostruire un gruppo ultras nel solco di quella tradizione che negli anni ottanta era stata impostata a Cosenza.

Portiamo ancora e porteremo sempre la bandiera palestinese, perché siamo molto solidali e vicini a quella causa. Ci battiamo ancora e continueremo a farlo affinché si appianino almeno in parte le ingiuste disparità che abbiamo davanti agli occhi, in contesti veramente desolati come in Africa o in quelli a noi più vicini, siano pure delle “modeste” (che poi tanto modeste non sono) barriere architettoniche. Certo non permetteremo mai ad altri di mettere il cappello sopra le nostre battaglie e di rivendicarle in nome di un movimento politico istituzionale, ma continueremo nel nostro piccolo a tenere sempre a mente che, oltre che ultras, siamo prima di tutto esseri umani.

Intervista raccolta da Matteo Falcone.
Foto di Gianluca Romita.