Questa è senza dubbio la mia recensione dalla più lunga gestazione. Un po’ perché la lettura del libro è capitata in un periodo per me particolarmente denso di impegni. Un po’ perché ho più volte cambiato opinione in merito e forse non ne ho ancora una definitiva. Ma assolviamo subito gli obblighi tecnici prima di passare a parlare meglio del resto: “Tifo estremo: storie degli ultras del Bologna” scritto da Giuseppe Scandurra edito dalla “Manifesto Libri” nel 2016, lo potete chiedere al vostro libraio di fiducia indicando il codice EAN 9788872858431 o altrimenti cercarlo nei vari store online laddove, da una velocissima ricerca, il prezzo migliore sembra essere quello di IBS a 17 €.

Per passare dunque alla sostanza del libro, Scandurra, docente di Antropologia Culturale presso l’Università di Ferrara, vi ha dato corpo dopo una ricerca condotta secondo il cosiddetto “metodo etnografico”. Ossia, come diceva il suo padre ideologico Bronisław Malinovski, “vivendo in mezzo agli indigeni” per empatizzare con loro e cogliere quanto più da vicino il loro modo di pensare, i loro usi e i loro costumi. Scandurra ha fatto esattamente questo: per tre anni, dal 2012 al 2015 ha frequentato gli ultras del Bologna, le loro riunioni, i loro punti di ritrovo, le partite, i quartieri e ne ha ricavato interviste, dichiarazioni estemporanee, punti di vista su cui poi ha costruito una serie di riflessioni e valutazioni che, partendo dagli ultras emiliani, vanno poi a includere a tutto tondo l’intero mondo ultras, annesse e connesse le affinità e le diversità con il tifo inglese.

Letta con l’occhio interno e spesso chirurgico di un ultras, questa ricerca presenta alcune debolezze che, così a naso, per un ultras bolognese immagino possano essere assorbite come dei veri e propri cazzotti negli occhi. Come per inciso è un cazzotto negli occhi la sterminata serie di refusi, frutto di una revisione delle bozze a dir poco pessima, se non inesistente, e questo è veramente un peccato non di poco conto per un lavoro di portata accademica come questo.

La particolarità di questa ricerca è al contempo il suo vizio di forma: l’autore, come detto, in una sorta di sineddoche antropologica, per trattare del mondo del tifo ne prende a campione una parte di esso, cioè il microcosmo bolognese, che però riduce poi ulteriormente usando come referente privilegiato una sola delle sue espressioni ultras, indebolendone inevitabilmente la sua validità rappresentativa. Comunque, dal caso specifico riesce ad estrapolare alcune teorizzazioni del tutto nuove, come quella per la quale due entità in competizione all’interno della stessa curva, usino letteralmente i gemellaggi o le rivalità scegliendoli quasi in maniera tendenziosa, legandosi a soggetti invisi alla controparte o creando criticità e rivaleggiando con gli amici altrui per mera prova di forza. Non è una novità dal punto di vista storico, lo fecero le BAL a Livorno reinventandosi amiche dei ternani per questioni politiche, dopo che in passato c’erano state fortissime tensioni fra le parti, una sorta di “stalinista” – per usare un termine a loro caro – imposizione di potere. Però mai nessuno aveva trattato sociologicamente certi argomenti.

Qualcuno ricorderà i fischi del pubblico bolognese a “Caruso” di Lucio Dalla prima della partita contro il Napoli, all’indomani della morte dello stesso cantautore. Non era affatto un attentato alla memoria di Dalla, ma nei giorni successivi le polemiche furono ovviamente roventi e i sermoni moralistici ancora più ammantati di ipocrisia. Però nessuno dei vari e non richiesti analisti fu capace di inquadrare le ragioni di chi – scusate il gioco di parole – a ragion veduta aveva contestato questo patetico tentativo di lutto coatto. Solo chi non conosce i rituali del calcio poteva pensare di usare in maniera così meschina una morte per costringere due arcirivali a questa sorta di ecumenismo sportivo d’accatto. Osservati e interrogati in prima persona, le motivazioni dei tifosi sono parse molto più che plausibili, ma d’altro canto una presunta verità giornalistica che non ascolta voci discordi, non è che unilaterale strumentalizzazione, meno stupida solo di chi non la rileva.

Altro aspetto tipico del tifoso rossoblù che emerge da questo libro, è il concetto molto esclusivo di “bolognesità”: in una città pur storicamente aperta all’esterno, centro nevralgico dell’Italia sia in termini logistici che commerciali, sede della prima università del mondo, ma che quando si parla di calcio diventa possessiva come la più gelosa delle amanti. Il Bologna FC è la squadra dei bolognesi, dai quartieri centrali alla periferia passando per l’immediata provincia, ma refrattaria – anche solo come semplice passatempo – al vastissimo esercito di studenti o lavoratori fuori sede.

Ci sono insomma tante piccole analisi tutte molto pertinenti sul modo di essere tifosi a Bologna, ovviamente con gran parte delle attenzioni dedicate al modo di essere ultras a Bologna ma, come detto, la scelta del campione di riferimento alla lunga rivela diverse debolezze. Per quanto Scandurra abbia cercato di essere quanto più onnicomprensivo possibile, di ascoltare e far parlar tutti, alla fine ne viene fuori una visione dei fatti molto ex-Mods-centrica. Per chiunque mastichi un minimo di ultras o conosca anche solo alla lontana la realtà felsinea, è lapalissiano, anche a giudicare dalla gerarchia dei valori risultanti, che la linea narrativa sia stata in certo qual modo monopolizzata dai gruppi e dagli esponenti gravitanti attorno alla famosa “balconata centrale”, forse per una maggiore frequentazione dell’autore con loro o forse per una maggiore suggestione subita.

Proprio la citata “balconata centrale”, per esempio, è oggetto di una mitizzazione che onestamente ritengo eccessiva: pur volendo riconoscere ai Mods e ai loro eredi una certa importanza nella storia ultras locale e anche nazionale, sovraccaricare di simbolismo quella balconata e sostenere che chi la occupi si possa ritenere il detentore della supremazia in curva è, se non un ribaltamento della realtà, senza meno una visione parziale. Dopo i famosi fatti inerenti la rottura del gemellaggio con i romanisti, la china di questa “area ideologica” è stata a dir poco rovinosa, ma prima di allora, per sua stessa inclinazione, aveva sempre vissuto lo stadio in maniera “elitaria”, per cui non si capisce di quale egemonia si stia parlando, a quale egemonia potesse ambire un gruppo di rottura e non di certo “istituzionale”. Seppur la parentesi “Beata Gioventù” sia stata a suo modo una nuova primavera in balconata, tra parentesi finita anch’essa male, il continuo mutamento di sigle è poi emblematico di una certa instabilità ed è poco credibile l’estensione di un potere così volatile su tutta una curva.

Sempre nell’ottica dei dualismi interni, mi ha fatto specie veder riportati giudizi al vetriolo, da parte a parte, che immagino abbiano poi creato non pochi problemi nei sempre precari equilibri di un settore così ampio e multiforme. Non posso però biasimare per questo il ricercatore, che ha il dovere di raccontare senza filtri quello che coglie, se non vuol trasformare in agiografico il suo lavoro. Forse avrebbero fatto meglio gli ultras a usare più tatto o padronanza della dialettica, a ricordare chi avevano di fronte, anche se la promiscuità del cosiddetto “osservatore partecipante” può indurre ad abbassar la guardia.

Per chiosare, in un periodo e in un campo in cui la letteratura “tecnica” non fa altro che replicare se stessa in maniera davvero noiosa, proponendo al massimo stantia ricerca bibliografica, questo libro ha il merito di tentar l’esplorazione di nuovi campi e presenta parecchi elementi di novità che lo rendono senza dubbio meritevole di esser letto. Molto ambizioso, singolare e accattivante il tentativo di partire da una parte infinitesimale per capire il tutto, o viceversa raccontare come il macro mondo ultras sia reinterpretato in chiave localistica. Lettura di alto livello che si addice però più agli accademici che ai militanti, ai più curiosi dei quali la consiglierei comunque, eccezion fatta per i bolognesi che potrebbero rischiare il fegato a leggere dei loro panni sporchi lavati in pubblico. A conti fatti è però un libro più per esterni che per interni ed in ogni caso ha il non indifferente pregio, in un’opinione pubblica e in una letteratura arroccate su pregiudizi arcaici, di raccontare gli ultras con onestà e senza le solite lagne moralistiche.

Matteo Falcone