È un vecchio adagio dei calciofili, a memoria (notoriamente labile la mia…) reso famoso da “Febbre a 90°” di Hornby: per quelli come noi gli anni non iniziano il primo gennaio, ma con la prima partita della nuova stagione calcistica.

Adagio per adagio, visto che un noto detto vuole che chi fa una data cosa all’inizio dell’anno poi la faccia per tutto l’anno, non perdo il buon auspicio e decido di seguire questo Libertas-FK Sarajevo, Primo turno preliminare di Europa League. La vecchia Coppa Uefa, per i nostalgici.

Piccolo inciso prima di proseguire: la Libertas, giusto per chi si stesse chiedendo che squadra sia, appartiene alla federazione della piccola Repubblica di San Marino. Non ha bisogno di ulteriori presentazioni la squadra della capitale bosniaca, specie per chi, come noi amanti del mondo ultras, ha sempre ammirato le gesta della “Horde Zla” (che sta per “L’Orda del male”), una delle realtà più affascinanti del movimento balcanico.

Tralasciando la prevedibile e modesta attrattiva tecnica, i miei motivi di interesse sono tanti e vari. Per prima cosa tornare all’Olimpico di San Marino è una questione di “vendetta” personale: dopo essermi perso lo scorso anno la “United Force” del Rad Belgrado per un grossolano errore di valutazione, credendo non venissero in tanti data la distanza, il pieno periodo vacanziero e il rassicurante 4-0 dell’andata, non voglio commettere lo stesso sbaglio per la seconda volta.

Esserci è anche una ragione di “cortesia per gli ospiti”: oltre al solito manipolo di corrispondenti della zona, attendiamo in Romagna anche il buon Simone da Roma e Remo (non è un gioco di parole…) dalla Svizzera.

Recupero Simone in stazione che è ora di pranzo, ci dirigiamo alla volta della piadineria per eccellenza di Rimini, affogando un’ottima doppia piada con abbondante birra e tante chiacchiere sul mondo ultras.

Pian piano le nostre fila si ingrossano con il resto dei componenti attesi. Ci perdiamo in ipotesi sui numeri che porteranno i bosniaci, svariando tra considerazioni e paragoni di ogni sorta, in una forbice di valori che passa dal pessimismo cupo di chi ne prevede non più di una cinquantina e l’ottimismo di chi, memore dell’ottima incursione serba dell’anno prima, spera in 3-400 unità al seguito.
Il tempo passa così in fretta che è già ora di recuperare l’ultimo componente, l’amico svizzero: l’appuntamento è in un noto pub del lungomare, per cui, prima di involarci alla volta di San Marino, non perdiamo l’occasione di farci un altro paio di pinte e un bel po’ di chiacchiere su realtà svizzere e tedesche, scivolando inevitabilmente sul tifo di casa nostra e su quanto sia stato di esempio per gli ultras di tutta Europa. Piuttosto che capitolare verso una sbronza malinconica, decidiamo che è ora di dirigerci verso il monte Titano.

Nelle gare internazionali, l’organizzazione è di gran lunga più capillare di quella spensierata di quando gioca il San Marino della nostra Lega Pro. Forti però dell’esperienza in San Marino-Inghilterra, non sbagliamo un colpo e in men che non si dica troviamo il vialetto d’ingresso riservato alla stampa, parcheggio e accrediti. Manca solo da sistemare Remo: rimediamo un biglietto omaggio tramite il nostro corrispondente Giobo e alla fine, tra campo e tribuna, siamo tutti dentro.
Rispetto alla già citata gara di qualificazione ai Mondiali 2014, quantità e qualità dei bosniaci sono inversamente proporzionali a quelle degli inglesi. Modesti i numeri, 200 circa a fronte dell’impressionante muro di 5.000 tifosi d’Oltremanica, paragone comunque poco attendibile visti i diversi contesti calcistici, geografici ed economico-politici delle due nazioni.

Il confronto diventa crudele se si valuta il discorso qualitativo e stilistico, laddove i ruoli paradossalmente si ribaltano: folcloristici al limite del ridicolo furono gli inglesi, al punto da indossar loro i peggiori stereotipi balcanici, con tamburi e una corposa sezione di trombe e fiati vari, degni di una fanfara di un film di Goran Bregovic; i granata di Sarajevo invece si presentano sobri, asciutti, compatti, con gli striscioni tenuti a mano e con una potenza sonora altamente soddisfacente, considerate le forze numeriche in campo. Belli da vedere ma anche da sentire, visto che alla buona potenza affiancano un’ottima continuità.

L’unica sigla che li rappresenta è appunto “Horde Zla”. A contorno vari drappi, da quello bianco recante nome e stemma della città, passando per “Srebrenica never forget”, chiaro riferimento al “simbolo” della pulizia etnica durante l’ultimo conflitto nella ex Jugoslavia, finendo con l’effigie di Vedran Puljic, il tifoso del Sarajevo morto durante gli scontri di Siroki Brijeg nel 2009.
Gli anni trascorrono ma la “polveriera balcanica” è sempre pronta ad esplodere alla minima scintilla: in quest’ultimo caso la contrapposizione fu tra mussulmani, maggioranza etnica della capitale, e croati che sono invece la maggioranza a Siroki Brijeg.
Sfortunatamente, a margine di questi scontri, il 24enne Puljic rimase a terra senza vita. Da lì è stato un delirante susseguirsi di “versioni ufficiali” che forse sarebbe più corretto definire “versioni che fanno comodo agli ufficiali… di polizia”. Dapprima si parlò di “morte sopraggiunta per una ferita bianca, probabilmente un sasso”, disse l’allora portavoce della polizia cantonale. Un po’ come il “l’hai ucciso tu con il tuo sasso!” che risuona ancora nelle menti di molti in Italia. Il verdetto dell’autopsia è però poi giunto inesorabile e alla fine è saltato fuori che ad uccidere il ragazzo è stato un colpo di pistola. Come si può scambiare, pur a occhio nudo, una sassata con un colpo di pistola? A rischio di dietrologia, ma il dubbio che qualcuno avesse qualcosa da nascondere sale prepotente.
La storia, dice qualcuno, la scrive chi detiene il potere, per cui agli annali è passato che ad uccidere Puljic è stato un tifoso avversario che avrebbe rubato la pistola ad un poliziotto e poi sparato. Tifoso avversario che, guarda le stranezze del caso, dapprima si era consegnato alla polizia e nelle ore successive rocambolescamente evaso di prigione. Perché dovrebbe evadere uno che un attimo prima aveva confessato e si era consegnato spontaneamente?
La “voce del popolo, voce di Dio” racconta invece un’altra verità: fu tutta una messinscena, ad uccidere Vedran fu la polizia, che quel giorno si fece trovare impreparata ed esplose più e più colpi di pistola per cercare di sedare la folla. Se oggi c’è appeso solo il volto di Vedran nella Curva del Sarajevo e non una sfilza più lunga, lo si deve solo alla fortuna. Altro che chiacchiere e oscene verità di parte.

Tornando alla stretta attualità e alle varie insegne di cui parlavo, ve ne sono un paio che sottolineano la presenza dei tedeschi “Ultras Dynamo” di Dresda, gemellati dei bosniaci.
Per restare più o meno in termini di “colore”, da segnalare due sciarpate, una delle quali usata per salutare l’ingresso in campo delle squadre. Niente torce, ed è un po’ una sorpresa, abituati come siamo ad associare immediatamente, a livello mentale, le tifoserie dell’Est all’uso smodato della pirotecnica.

Del tifo vero e proprio, inteso nel senso vocale, non posso farne una minuziosa descrizione perché non se ne capiva poi molto, a parte i cori con cui si omaggiava appunto la memoria di Vedran Puljic e quelli per salutare la presenza degli amici di Dresda. Limitandomi a considerare potenza e continuità, nel primo tempo sono stati davvero su ottimi livelli, con bei boati e davvero poche pause. Pure quando la loro squadra è riuscita nell’indecente impresa di farsi raggiungere sul pari dai semi-dilettanti della Libertas, dopo essere passata in vantaggio a pochissimi minuti dal calcio d’inizio, non hanno fatto nemmeno una piega o avuto un pur minimo calo di voce, tanto che solo vedendo l’irrefrenabile gioia dei sammarinesi ho avuto la certezza che il goal fosse stato definitivamente convalidato.

Con il passare del tempo, hanno poi raddoppiato gli sforzi e proseguito con la stessa tenacia, venendo ripagati con un nuovo vantaggio, questa volta sempre a pochissimi minuti di distanza ma dal fischio che ha mandato tutti negli spogliatoi.
Nei secondi quarantacinque minuti non si vede nulla di nuovo in campo. Il risultato resta immutato fino al triplice fischio finale, con la variante che, questa volta, gli undici dell’FK Sarajevo hanno cercato di tenere sempre una giusta tensione mentale per non venir di nuovo castigati dai ragazzi della Libertas, che, va detto, hanno onorato l’impegno con grandissimo agonismo, vendendo cara la pelle in ogni contrasto.

Al triplice fischio finale, altra parentesi bellissima nella sua spontaneità, sempre gli atleti della Libertas sono andati sotto il settore che ospitava i tifosi avversari per applaudirli. Altrettanto sincero è stato l’applauso con cui gli stessi hanno ricambiato, levando poi il coro “Campioni, Campioni” che nel loro accento, misto ad una scarsa conoscenza dell’italiano, è risuonato come “Ciampioni”, forse mutuato dalla pronuncia dell’inglese “Champions”. Cavilli a parte, la portata del momento non è stata scalfita minimamente.

A proposito di questioni fonetico-linguistiche, nel secondo tempo, il tipo di cadenza balcanica, quasi mono-tonica e molto aspra, alla lunga è diventata a tratti cantilenante, ai limiti del fastidioso, forse anche perché la stanchezza cominciava a farsi sentire anche per loro. Non è venuta invece meno la costanza, non è diminuita la frequenza e la bellezza dei battimani, sempre eseguiti dalla maggioranza dei presenti, tutti con le braccia belle larghe, cosa che ha reso molto in quanto a colpo d’occhio.

Finisce dunque così una partita in cui il tifo è stato tanto appassionante quanto poco attraente è stato il tasso tecnico mostrato in campo. Questo nonostante l’assenza di una qualsiasi controparte, cosa che se da un lato ha permesso ai sarajevesi di giganteggiare, non ha però offerto quel certo incentivo che un confronto fra fazioni stimola. Poco male, perché il pensiero di tutto il nostro gruppo, mentre ci riassembriamo a fine gara, è unanime: la “Horde Zla” non è un bluff da cartoline o da pornografia ultras su internet, bensì una realtà massiccia e valida sia in quel che abbiamo potuto vedere con occhio, che a ciò che abbiamo potuto solo immaginare scrutando la composizione della loro arcigna prima linea.

Raccolti in capannello fuori dalle mura dello stadio “Olimpico”, ci perdiamo in una girandola di chiacchiere ulteriori, fino a quando persino le luci dei riflettori si spengono e ci costringono a battere in ritirata. Recuperate le auto scendiamo verso valle, troviamo un buon rifornitore di birra e continuiamo fino a notte inoltrata a parlare di ultras con questa insolita compagnia proveniente da vari angoli d’Italia, con un tocco di Svizzera: la bellezza del mondo ultras non subisce il limite dei confini o del tempo che passa.

Testo di Matteo Falcone.
Foto di Gilberto Poggi.
Video di Simone Meloni.