Caltanissetta Centrale. Ultima stazione di un viaggio lungo. Uno “svolazzo” errante che mi ha portato a percorrere mezza Italia su rotaia. Come qualche anno fa, ai tempi della scuola saltata e le trasferte senza soldi e senza orari di ritorno. Un viaggio a ritroso ancor prima che in avanti. Sapori che ritornano su per qualche istante e ricordi che riaffiorano guardando una stazione o il panorama che sempre più selvaggio si staglia andando verso Sud.

I miei anni più spensierati sono passati di qua.

A Caltanissetta ci sono arrivato prendendo l’ultimo convoglio. Un moderno minuetto che fa la spola tra lo scalo di Xirbi e la stazione Centrale. Nove minuti in cui passare velocemente da una zona brulla e di campagna alla città.

La Sicilia è quel posto che ti sa subito dare un’idea chiara di sé: il tempo si è fermato e molti dei suoi aspetti mantengono un fascino arcaico. Quasi scevro da tutte le contaminazioni moderne e forestiere di cui parte dell’Italia peninsulare si è indebitamente appropriata. Affossando spesso le proprie doti e i propri fregi.

Eppure questa apparente arretratezza cela anche l’orgoglio del suo popolo. Assieme alla sua cultura millenaria e variegata e a un senso della vita che pur restando attaccato alla propria terra e al proprio passato riesce – seppur non in maniera appariscente – a guardare in avanti. Per chi non è di queste terre, per chi questa isola che punta uno dei suoi angoli verso l’Africa la conosce poco e per chi si affida soltanto ai luoghi comuni o allo stereotipo del siciliano conosciuto in tutto il mondo, forse risulterà difficile credere che la sua gente ha un’operatività mentale, una creatività e un modo di trattare il forestiero che in poche parti del mondo sono riscontrabili.

San Cataldo è la mia destinazione finale. Per chi è cresciuto come me con il Supertifo che fu, questa località non ha bisogno di molte presentazioni. Ero “picciotto” quando il Commando Neuropatico faceva le sue apparizioni su quelle pagine. Vedevo quei campi impolverati, immaginavo quel sole “cuocere” gli spettatori e potevo persino sentire, di rimando, l’odore dei fumogeni e delle torce fondersi con quello degli agrumi e del profondo meridione.

Inoltre venire da queste parti significa anche uscire bruscamente dall’immagine classica della Sicilia. Quella del mare cristallino e delle spiagge spettacolari. All’interno di questa regione c’è un altro mondo. Fatto di colline e prati sterminati. Cave di zolfo e sali disseminate qua e là – a testimoniare l’epoca dei “carusi”, bambini divenuti uomini a suon di sostanze malsane inalate e morti arrivate scendendo precocemente in miniera –  e paesaggi lunari che a stento troviamo anche sui cataloghi della agenzie turistiche.

Non avessi letto qualche anno fa la versione integrale dello stupendo Germinal di Emile Zola probabilmente non resterei così affascinato da questo aspetto.

Ma la Sicilia in una cosa è unita, unica e imprescindibile: il senso di “sicilianità” dei suoi figli. E questo ne fa un posto solo. Da Trapani a Catania e da Palermo a Messina.

Quindi il sacro si fonde con il profano e interseca inevitabilmente ogni aspetto della vita quotidiana.

È la settimana santa. E questo non può esser un qualcosa di semplicemente cronologico. Anche per chi – come me – non è credente e guarda l’aspetto religioso sempre con diffidenza. Capitare a San Cataldo in questo periodo vuol dire immergersi fino al collo in tutte le sue tradizioni e i suoi costumi. In quello che è tra i periodi più sentiti e vissuti dal popolo. E non possiamo ignorare tutto ciò se vogliamo anche raccontare la sua sfaccettatura sportiva, i suoi ultras, la sua squadra. Ma forse vale un po’ per tutta l’Italia. Del resto guarderemmo il calcio con gli stessi occhi se non mantenesse ancora un forte legame con le comunità locali? Noi che prima di pensare agli schemi di gioco cerchiamo di capire se uno stendardo in Curva rimanda a un gonfalone comunale o a un particolare giorno per la città in questione.

Sancataldese-Gela si gioca giovedì. Nel bel mezzo della festività. Nel bel mezzo della “pazzia” che in questi giorni pervade bambini, donne e uomini di ogni età. Ancora non so che pure per me sarà foriera di sorprese e grandi emozioni. Perché l’inaspettato è quello che ti colpisce in profondità e lascia per sempre un segno. Nel bene o nel male.

Il ritorno in Serie D dopo quattordici anni ha riacceso un interesse mai sopito nei confronti dei verdeamaranto. Un interesse che il Commando ha tenuto in vita con iniziative, colpi di scena e soprattutto presenze costanti. Ovunque, passando per i campetti anonimi della provincia alle amichevoli epiche in posti come Favignana, perché malgrado le porte chiuse “andare a seguire la squadra su un’altra isola era un qualcosa di troppo bello per noi”. Sono cresciuto con criteri di “malattia mentale” troppo simili per non rimanere colpito da tali affermazioni.

Ricordo le pazzie fatte con il mio gruppo, le serate senza senso a fare cose senza senso, o la necessità di essere ad Ivrea per il Carnevale delle Arance o in qualche campo sperduto a seguire amichevoli di cui forse neanche parte della dirigenza era a conoscenza.

Non è un caso che il Commando si identifichi dietro al numero 22. Un numero che nella cabala indica i “pazzi”. Un epiteto usato a mo’ di scherno dagli avversari ed abbracciato con fierezza dai sancataldesi. Che ne hanno fatto un motivo di vanto.

Se ultras è aggregazione – e per me è principalmente questo – a San Cataldo, come succede ancora in qualche piccola realtà, sembra davvero di fare un passo indietro nel tempo e tastare con mano quel filo che unisce in una sola comunità ultras, tifosi e persino chi non ha interesse a seguire il calcio ma riesce comunque a percepire quanto, attraverso questo strumento, la comunità possa essere forgiata e rafforzare i propri legami, oltre al proprio senso di appartenenza.

Ed è una comunità che ti difende e ti spalleggia malgrado le diversità. Sarà per questo che nonostante la mia miscredenza, quello che vedrò a pochi minuti dal fischio d’inizio sarà in assoluto tra i momenti più belli e significativi vissuti a margine di uno stadio.

Qual è la grande piaga che flagella il movimento ultras attuale? Forse non è neanche la repressione cieca che vieta di far entrare un tamburo o un megafono. O almeno non è ai livelli dell’uso incondizionato, arbitrario e incontrastato del provvedimento di Daspo. Una sorta di panacea ormai utilizzata per acquietare qualsiasi tipo di situazione. Anche quelle che un tempo erano risolte facilmente con un pochino di buon senso. Spesso – a questi livelli – dal maresciallo di turno o dai carabinieri di paese.

Le diffide sproporzionate hanno colpito anche i ragazzi di San Cataldo, qualche stagione fa, in seguito a una rissa scoppiata sugli spalti di Raffadali. Non un contesto ultras, ma una “semplice” rissa con il pubblico normale, poco avvezzo a sopportare l’esuberanza degli ultras. Non c’è bisogno di molte spiegazioni: chiunque ha frequentato i campi delle serie inferiori sa benissimo che spesso i veri pericoli non vengono da gruppi ultras avversari, bensì dal pubblico normale. È il bello/brutto del dilettantismo. In certi posti trovi il pastore che viene allo stadio con la zampogna, in altre il  delinquente locale pronto a farsi giustizia da solo.

Una dozzina furono le interdizioni che piovvero. Tante. Tantissime per un paese di 23.000 anime e un gruppo che abitualmente porta una cinquantina di effettivi sugli spalti. Diffide pesanti, sproporzionate per l’appunto. Anni e anni lontani dagli stadi, firme e laute spese legali. Una solfa che ormai conosciamo a memoria e che fa sovente esclamare la triste frase: “Se facevi una rapina te la cavavi con meno”. Di sicuro una condizione che pone qualunque gruppo a un bivio: scioglimento o gestione oculata per reclutare altri ragazzi e formarli, in maniera da non far perdere la tradizione acquisita comunque in anni di attività. A San Cataldo si è optato per la strada più difficile. Credo non ci sia stata nemmeno tanta esitazione. E il fatto che i giovani o i meno “longevi” si siano formati in una certa maniera, la dice lunga su quanto nel nostro movimento sia importante la continuità tra le generazioni attraverso la continua interazione fra le stesse.

Sono le 14.20. Mancano quaranta minuti al fischio d’inizio. Qualcosa sta per trasformare questa giornata in indimenticabile proprio per quei ragazzi che allo stadio non possono andare. “Hanno tolto le diffide!”, grida qualcuno. Il tempo di verificare, un andirivieni affolla i pochi metri che separano il vecchio e affascinante Valentino Mazzola con le strade del paese e in men che non si dica scatta una vera e propria festa a pochi passi dai cancelli. È la Settimana Santa, quella in cui “Il pianto di Maria” (una musica che viene suonata dalla banda durante le processioni e che caratterizza questo periodo) irrora le arterie di San Cataldo ed entra nelle vene dei suoi abitanti. E lasciatemi dire – da non credente – che mi piace immaginare che sia stato proprio il fato a regalare questo connubio a chi – tutto ad un tratto – da “soggetto socialmente pericoloso” ha potuto varcare i cancelli dello stadio e rimettere nuovamente i propri piedi sui gradoni.

Ci sono storie di libertà repressa e sogni tenuti forzatamente lontani. Qualcuno piange e qualcuno non ci crede. Per me che la repressione la vivo in maniera marginale, pur sapendo bene cosa significhi e quanto renda “carbonaro” e infimo il nostro mondo, è un’emozione forte vedere come anche tanti tifosi della gradinata oggi si uniscano ai curvaioli per celebrare l’evento e festeggiare tutti assieme.

Sì, ultras è aggregazione. E l’aggregazione è il sale della nostra vita. Guai a chi vuol togliercela o troncarla.

Mi catapulto nello stadio. Un tourbillon di accenti a me sconosciuti mi investe negli spogliatoi, nonostante la fretta cerco di decifrarne la provenienza o almeno il significato superficiale di alcune parole. Devo consegnare il documento e prendere la pettorina. Il sole batte forte sulla mia testa e neanche i 600 metri di altezza sul livello del mare si fanno più sentire. Essendosi fermata la spinta selvaggia del Dio Eolo è il fraseggio dei raggi solari ad impossessarsi lentamente di ogni forma vivente a lui sottostante. Me compreso. Che con la più classica delle pettorine gialle riesco ad accedere finalmente sul manto erboso.

Si tratta di erba sintetica. Per poco non sono riuscito a calcare la gloriosa sabbia che fino a poco fa ha caratterizzato il Mazzola. Il vecchio Palmintelli di Caltanissetta, poche ore prima, me ne ha fatto saggiare l’essenza. Perché nel mio cuore i campi della Sicilia rimarranno proprio quelle distese giallognole con le muraglie decadenti e mattonate a fargli da contorno. E comunque se qua manca il primo “ingrediente”, il secondo c’è ed è davvero importante. Pertanto i mattoncini fanno da cornice allo spettacolo. Quasi come fosse un castello con al suo interno i Reali pronti a dar spettacolo con uno dei balli di corte più importanti dell’anno.

Ci sono anche i tifosi ospiti. E qua mi sento in obbligo di aprire un capitolo: fino ad oggi i miei contatti con i gelesi si erano fermati a un paio di partite di inizio anni 2000. Erano i tempi della Serie C2 e la compagine biancazzurra venne inserita nello stesso girone della Lodigiani. A dire il vero non ho un grande ricordo di loro e per questo negli ultimi tempi sono rimasto molto incuriosito da diverse foto viste in giro per la rete. Immagini che davano davvero una bella impressione della Curva Boscaglia. Il fatto di poterli vedere all’opera mi incuriosiva e non poco.

Sin dall’inizio sapevo però che avrei trovato una tifoseria divisa: Indians da una parte e Vecchio Stile dall’altra. Ovviamente non sta a me giudicare (non conoscendo peraltro le dinamiche interne) però sicuramente questo rappresenta il freno per una tifoseria che invece, complessivamente, mostra di aver fatto davvero passi da gigante sotto l’aspetto del portamento, della costanza e dell’approccio allo stadio. Questo è quello che ho avvertito vedendoli e – ripeto – è davvero un peccato che non abbiano fatto il tifo tutti assieme (cosa che peraltro avrebbe evidenziato un numero totale di tutto rispetto, considerando che il Gela non ha praticamente più nulla da chiedere a questo campionato).

Al giorno d’oggi, con le costanti invettive nei confronti del movimento ultras, penso che la compattezza sia un valore fondamentale per portare avanti il discorso di curva, oltre a permettere un maggiore coinvolgimento da parte del pubblico normale e dell’intera città. Ciò detto ovviamente nel massimo rispetto delle scelte di tutti.

Il campo peraltro premia inaspettatamente gli ospiti, con uno 0-3 che rimanda la matematica salvezza Sancataldese alle prossime giornata.

Se il risultato è catastrofico altrettanto non si può dire per la tifoseria verdeamaranto. Al netto della “stratosferica” notizia del rientro da parte dei diffidati, il Commando sfodera un prestazione pressoché perfetta. Senza ricorrere alla fredda cronaca del tifo, mi basta dire che sembra di essere al cospetto di una tifoseria di inizio anni 2000, con l’aggiunta di un materiale curato e di un posizionamento ordinato e d’impatto: tanto “modello italiano”, che può far solo bene. C’è bisogno di piccole immersioni nel passato per migliorare il futuro prossimo.

Numericamente il Mazzola si riempirà con circa 800 spettatori, di cui un centinaio a tifare costantemente. Nel gruppo spiccano poi le presenze delle tifoserie amiche: Enna, Canicattì e Serradifalco. Tutti confluiti a San Cataldo in questa giornata storica, almeno sotto l’aspetto ultras.

Finisce con la squadra di casa richiamata sotto al settore. Giocatori redarguiti che escono dal campo a testa bassa. La salvezza ora è d’obbligo per chi in questi anni si è sbattuto non vedendo mai un filo di luce ed ora assapora dolcemente la possibilità di affrontare nobili trasferte attraversando lo Stretto.

Anche questo fa parte del misto sacro/profano. Anche questo andrà a ingrossare le fila della processione serale. Ci saranno le “Vare” (statue raffiguranti immagini sacre) portate a spalla dai sancataldesi e poco dopo ci saranno bar e rosticcerie prese d’assalto. Arancine, birre, vino e teli viola in segno di lutto per la morte di Cristo a esaltare il modus vivendi di un posto. Difficile da capire, difficile da spiegare. Un microcosmo in un altro microcosmo, quello della Sicilia.

È anche e soprattutto per questo che la sciarpata finale dei sancataldesi ricalca le note del “Pianto di Maria”. In realtà la partita è soltanto uno degli eventi contenuti nel programma della settimana santa. E gli ultras – lasciatemi dire – ne sono degli interpreti perfetti.

Mentre il sole cala e fa unire il cielo con l’orologio del paese, la vita notturna comincia a scorrere, tessendo rumorosamente la tela dove quest’anno è stato scritto un pezzo importante di storia sportiva, culturale e del tifo di San Cataldo.

Simone Meloni