Ammetto, e non nego, di aver sempre guardato alle tifoserie organizzate nell’ambito del basket e dei palazzetti in generale con un occhio di sufficienza, per non dire con fastidio.

In Italia per me c’è il calcio, punto. Il resto è roba buona per chi vuole vedere una squadra vincere, con i soldi che si spendono per una squadra nella C calcistica se ne mantiene facilmente una in prima o seconda serie del basket.

Ampliando però la cosa al livello umano, integrando il discorso del tifo nella vita quotidiana e vedendo negli anni come ruotano le cose nei mondi delle curve, ho capito che in fondo lo sport è un pretesto. Un pretesto a metà, direi, dato che va garantita la presenza se ci si auto etichetta come tifosi, e che il tifo, per essere costante e cosciente di sé stesso, deve essere un fattore presente anche quando i risultati latitano.

Quindi, in sostanza, si può decidere di seguire dei ragazzi in pantaloncini che corrono dietro a un pallone a spicchi o che cercano di buttarla dentro a una porta più volte di altri 11 loro avversari.

Con queste basi, oggi ho conosciuto i ragazzi della Baraonda Biancorossa di Pistoia, radunatisi per un pranzo per festeggiare i 10 anni del proprio gruppo. In queste occasioni, il punto è sempre lo stesso: si annullano le distanze e le strutture mentali che si erano create. Stringendo la mano a questi ragazzi è distante la eco di una loro presunta scelta opportunistica, così come si annulla il presunto fragore di lame e il rumore sordo dei pugni che, secondo alcuni giornali, caratterizzerebbe la vita di chi frequenta i vecchi settori popolari di stadi e palazzetti.

La Baraonda, scopro, non fu una novità dal punto di vista del tifo legato alla palla a spicchi nella città toscana; non era quindi scontato sopravvivere, dove altri avevano già subito una sconfitta.

La sala si presenta festosa, con vari tavoli per ragazzi del gruppo, fidanzate, parenti; nessuna emarginazione sociale quindi. Fioccano i ricordi e gli aneddoti, dalle tensioni dei tempi iniziali con i ragazzi della curva calcistica fedele alla Pistoiese fino ad alcune iniziative benefiche affrontate insieme in tempi più recenti; davanti a me ho due generazioni di persone che hanno fatto i conti con sé stesse e con le non rare e dispendiose trasferte nell’Italia del pallone a spicchi.

La Sardegna e la Sicilia sono mete perennemente presenti nei calendari, e per questo i giovani mi spiegano che è importante agire come un unico fronte, dato che loro non sono ancora in grado, per motivi economici, di garantire costantemente il sostegno fuori casa.

Trovo tanta consapevolezza in ciò che si ha da fare per una squadra a cui, senza obbligo esterno, si giura il proprio amore, ottenendo in cambio sì di partecipare alla massima serie, ma correndo perennemente il rischio di retrocedere.

A fine pranzo molti cori, anche per i ragazzi dei Rude Boys Torino giunti fin qui per l’occasione, poi qualcuno torna alla famiglia, i più giovani si spostano in centro. Insomma, nessuna autocelebrazione esagerata.

In Italia anche le squadre di provincia, calcisticamente parlando, hanno la propria storia fatta di spareggi, promozioni, antiche vittorie, derby e fallimenti da raccontare; forse oggi ho assistito a una pagina di storia della Pistoia della palla a spicchi.

Pistoia e i suoi colli con la natura che  risvegliandosi dal torpore invernale adornano il tutto fanno capire perché si debba essere orgogliosi di portare avanti il nome di questa città.

Amedeo Zoller