Il nome di Alcides Ghiggia è legato indissolubilmente al 16 luglio. Il giorno in cui, nel 1950, segnò il goal che lo rese l’eroe del “Maracanazo” ed incoronò l’Uruguay campione del mondo in casa del favoritissimo Brasile. Esattamente 65 anni dopo, il 16 luglio 2015, Alcides Ghiggia muore. I campioni e il destino hanno sempre un rapporto del tutto particolare, nello scrivere la storia. Addio Alcides, RIP.
MF

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Quattro squadre superano il primo turno e si preparano ad affrontarsi in un girone all’italiana per decidere la classifica conclusiva. Mai come in questo caso una competizione appare già decisa ancor prima del fischio d’inizio: erano ormai trascorsi quattro anni da quando la Fifa aveva assegnato il Mondiale alla C.B.D., e nonostante le difficoltà incontrate tutto era filato alla perfezione. La statuetta dorata che avrebbe premiato i campioni del mondo luccicava già negli occhi di un intero popolo: la storia, una volta tanto, pareva scritta in partenza. Il calendario delle partite mette in programma, al primo round, il confronto tra Brasile e Svezia e quello (più equilibrato, sulla carta), tra Uruguay e Spagna.

L’esordio degli «auriverdes» conferma ciò che tutti si attendevano ma che, nella prima fase, non era stato verificato sino in fondo. Il samba dei padroni di casa stordisce subito la pur compatta formazione scandinava: la «diagonal» assicura sulla propria bontà di schema e Ademir, «punta de lanza», si scatena con un superbo poker, cui si aggiungono la doppietta di Chico ed un acuto di Maneca. Più arduo il compito degli «orientales» contro le «furie rosse» spagnole. Gli iberici si dimostrano formazione quadrata e di grande caparbietà. Segna Ghiggia alla mezz’ora, fulminando Ramallets dopo un’azione in «pared» (triangolo) con Pérez. La reazione della Spagna non si fa attendere e il cerbero Basora, centravanti del Barcellona, rovescia la situazione nel giro di soli dieci minuti. La «Celeste» era giunta al Mondiale in posizione di «outsider», e una sua eventuale sconfitta non avrebbe stupito più di tanto gli osservatori. A metà della ripresa sale in cattedra Obdulio Varela: la «garra» fatta uomo dà il «la» alla riscossa siglando personalmente il pari con un’imprendibile fucilata dal limite.

La formula, che prevede tre partite per ogni squadra, pone di fronte al secondo turno Brasile ed Uruguay: il destino ci mette però lo zampino e il big-match, per ragioni di cassetta, viene rinviato all’ultima giornata. «Quel» Brasile avrebbe fatto polpette di «quell’» Uruguay. Ma bastò un semplice spostamento di date per provocare il primo, grande terremoto nella storia del calcio. Il 3 luglio si disputano quindi Brasile-Spagna ed Uruguay-Svezia. E come qualche giorno indietro, la furia brasiliana si avventa sugli avversari: sette gol ad uno sono più eloquenti di qualsiasi discorso. Sul prato del Maracanà si assiste ad uno spettacolo di inusitata eleganza, tanto perfetto da fare invidia ai manuali di football: non uno, tra coloro che seguono la Rimet come tecnici, giornalisti o semplici appassionati, è più disposto a scommettere un centesimo sulla mancata vittoria dei brasiliani.

Al Pacaembu, nel frattempo, l’Uruguay si scopre forte: sotto di un gol di fronte al feroce contropiede svedese, la «Celeste» smette l’abito della modestia e si trasforma in una compagine riccamente convinta nei propri mezzi. E Ornar Miguez a firmare la rimonta: prima corregge di testa una corta respinta di Svensson poi recupera un pallone sfuggito alla presa del portiere per il 3-2 finale. Tutto avviene negli ultimi tredici minuti di gioco: in caso di successo svedese, il conto sarebbe già stato chiuso. E invece Brasile-Uruguay si tramuta in una specie molto particolare di finalissima: alla Seleçào è sufficiente il pari, e dopo le performances con Svezia e Spagna non si profila all’orizzonte altro tipo di risultato che la vittoria degli ospitanti.

Tra il 13 e il 16 luglio il Paese si addobba per la grande festa: vengono fatte preparare undici limousine che riportano ognuna sulla fiancata il nome dei singoli eroi, da Barbosa a Chico. Si organizzano nei minimi dettagli le sfilate per le strade di Rio, come per un gigantesco carnevale del futébol. Una nazione intera si identifica negli uomini in giallo-verde, che a loro volta sono pronti per entrare nella galleria degli eterni. Nelle ore precedenti il match prende il via una vera e propria guerra psicologica nei confronti degli ospiti: ovunque essi si avventurino, trovano ad accoglierli sempre un «4»: è il numero dei palloni predestinati a terminare alle spalle di Maspoli. Gli stessi dirigenti della AUF rimangono impressionati al punto da perdere la fiducia nei propri giocatori: nella riunione prima della partita si dichiareranno soddisfatti anche di un’onorevole sconfitta con un paio di gol.

«Juancito» Lòpez il Ct e Obdulio Varela «El Jefe» si ribellano ad una tale arrendevolezza: erano entrambi finissimi psicologi, capaci di estrarre il meglio da chiunque. Ed è proprio Obdulio (la sua fama è tanto grande che ancor oggi viene chiamato con il solo nome di battesimo) a caricare i compagni con parole semplici ma penetranti come raggi X. Un esempio: a Ornar Miguez, durante il percorso tra spogliatoi e campo, sussurra in un orecchio: «Non vedi che faccia da stupido ha il loro portiere? Vorresti farmi credere che proprio tu non sei in grado di segnargli almeno due gol?» e ancora a Schubert Gambetta, il mediano che aveva rimpiazzato l’infortunato J.C. GonzaIcs, aveva detto un paio di giorni prima: «Tu dovrai marcare Chico. Se gli fai toccare anche solo un pallone, poi dovrai vedertela con me di persona». Così detto era esploso in una grossa risata. Morale, Gambetta si sentì talmente tranquillo da addormentarsi su una sedia negli spogliatoi un’ora prima dell’inizio del match. Dall’hotel Paysandu in cui sono alloggiati, gli «orientales» scendono sereni all’Estadio Municipal, dove già dalle prime ore del giorno si erano dati appuntamento duecentomila fanatici vestiti di giallo e verde. I «vestuarioS)) dello stadio sono in condizioni pietose, e così i componenti della «Celeste» si recano in un vicino parco per ammazzare il tempo in attesa di rientrare nell’impianto. Il cesello psicologico di Obdulio trova compimento in una frase: «Ragazzi, oggi ho una gran voglia di correre».

E come un segnale, il dissotterramento dell’ascia di guerra: la pattuglia torna al Maracanà convinta di uscire con la Rimet tra le mani. All’entrata in campo dei ventidue gli spalti si trasformano in un tappeto multicolore, e quando l’inglese Reader dà il via alla gara, la sfida diviene ben presto una battaglia. Miguez colpisce un palo in contropiede, ma nessuno tra i brasiliani si rende conto del pericolo scampato. Bigode falcia un paio di volte Ghiggia ma all’accenno dell’ennesimo intervento sulle caviglie l’oriundo si ricorda degli ammonimenti di Varela e colpisce per primo. Gambetta tiene fede alle promesse e gioca una partita a sé con Chico: tra i due volano scintille. I primi quarantacinque minuti scivolano via con parecchie emozioni ma senza gol: ci pensa Friaça, in apertura di ripresa, in conclusione di un fulmineo contrattacco, ad aprire le marcature. Il gol, finalmente, sblocca la situazione, non solo sul piano del punteggio: la rete è validissima ma Obdulio, con grande intelligenza, raccoglie il pallone e insegue il direttore di gara, protestando per chissà quale irregolarità. Varela sa benissimo di non aver nulla cui appigliarsi, ma così facendo tiene in apprensione avversari e pubblico, “gelandone” l’entusiasmo. La vittima predestinata non pare aver scampo: quattrocentomila mani si allungano sulla Coppa, che tuttavia è come una saponetta bagnata. Al ventunesimo la ruota si ferma e prende a girare dalla parte opposta: Obdulio allarga sulla destra per Ghiggia, il quale supera Bigode e centra per l’accorrente Schiaffino. Pepe prende la mira e fa secco Barbosa, apparso un po’ distratto nell’occasione. L’ 1-1 è ancora favorevole alla Seleçao, che però non accetta l’umiliazione del pareggio e continua a giocare per vincere.

Ricorda Ornar Miguez: «Quel giorno era scritto che dovessimo vincere noi, non temevamo né Dio né demonio. Se Maspoli avesse giocato da centravanti, avrebbe segnato due gol, e se io avessi giocato in porta, avrei parato due rigori». Gli ultimi venti minuti segnano la fine del sogno brasiliano: qualsiasi azione gli uruguaiani decidano di intraprendere costituisce un pericolo per Barbosa. A undici minuti dal termine, il colpo del KO. Alcides Ghiggia raccontò così il momento cruciale del Mondiale: «Vedo Julio Pérez liberarsi di un avversario in dribbling. Scatto sulla destra quando lui mi lancia in un corridoio libero. Il mio angolo di penetrazione era abbastanza basso rispetto alla linea di fondo: quando vedo il terzino avvicinarsi a me, decido di tirare. Barbosa, per prevenire un eventuale cross, si sposta leggermente sulla propria destra e lascia uno spazio sufficiente tra sé e il palo. Chiudo gli occhi, batto con tutta l’energia che ho in corpo, e quando li riapro vedo il pallone in rete. In quel momento, diventiamo campioni del mondo».

Mancano dieci minuti alla fine. Il Brasile si getta disperatamente in avanti, annaspando come chi sta affondando nelle sabbie mobili. Varela urla come un ossesso, guidando i suoi compagni senza danni al novantesimo. Ultima emozione: quando Reader fischia tre volte girando le spalle all’azione, solo Gambetta se ne accorge. L’azione è da calcio d’angolo: sullo spiovente il mediano dal baffetto appena accennato blocca il pallone con le due mani e lo porta al petto. Passa un secondo interminabile, ma è tutto vero, da una parte e dall’altra. I pochi tifosi venuti da Montevideo scendono in campo con le bandiere al collo. Nella confusione, la Coppa sparisce, forse sottratta da mani gelose. Obdulio tuona: «Con o senza la Coppa, i campioni siamo noi». Il giovane Monin, al debutto in Nazionale, scoppia a piangere mentre qualcuno fa sparire il pallone. Più tardi, negli spogliatoi, l’arbitro inglese lo reclama come souvenir, e Varela gliene sottopone tre: Reader sceglie quello più consumato. Obdulio lo guarda allora con un ghigno beffardo stampato sul viso: il prezioso cimelio finirà a Montevideo … Sugli spalti, è l’Apocalisse: una decina di tifosi viene colpita da infarto, ovunque si scatenano risse furibonde e la notte è contrassegnata dal furore delle sirene delle ambulanze. La leggenda racconta che la mattina avanti gli inservienti trovarono in curva un ragazzo che, con la testa tra le mani, stava singhiozzando pensando a ciò che era avvenuto. «Nunca mais»: fu il titolo della «Gazeta Esportiva» sulla finale. «Mai più»: ci fu chi scrisse di un intervento divino in favore degli orientales. In realtà, la vittoria fu il frutto di un’ottima impostazione di gioco, indipendente dallo schieramento degli avversari, e dei proverbiali «attributi» del calciatore rioplatense. A Montevideo, giustamente, essa venne dipinta come un trionfo della volontà dell’uomo. Ed è probabilmente la versione più aderente ai fatti.