C’è un balcone a Roma che è detto “degli innamorati”. Un posto dove migliaia di coppie si sono giurate amore eterno, scambiandosi un bacio o semplicemente uno sguardo carico di sentimenti e significati profondi. Questo balcone – il Pincio – è un simbolo ben radicato nella cultura popolare romana. È sinonimo di bellezza, felicità e spensieratezza. Dal suo pulpito puoi vedere buona parte della Città Eterna. Scorgendo le cupole imponenti e gli immortali contorni di monumenti e palazzi dove da secoli scorre più o meno silente la vita.

Il sovraffollamento creato dai turisti di giorno finisce spesso per oscurarne la vera magia. Così sarebbe necessario salirci, almeno una volta, in un orario non convenzionale. Magari di sera. Fissando le luci dei monumenti che sembrano formare un tutt’uno con le stelle che in cielo brillano paciose.

Se qualcuno, durante la sua esistenza, avesse avuto poche occasioni per versare lacrime (di gioia o di disperazione) la sera a cavallo tra il 21 e il 22 luglio di ogni anno ha l’opportunità di recuperare. Almeno in parte. Sono gocce che scendono dagli occhi stimolate dall’acre odore dei fumogeni e dalla situazione angusta che si crea in quegli stretti vicoli tra il Pantheon e il Parlamento. Laddove migliaia di tifosi si radunano per celebrare un amore eterno. Senza limitazioni o incertezze. Sono, pertanto, lacrime che vengono prima dal cuore.

Ma torniamo al Pincio e al suo balcone. Una propaggine di Villa Borghese, quel parco che se ne frega altamente di tutti i problemi della città che lo ingloba e ancora oggi è pronto a mettere una mano sulla spalla di chiunque vi entri, promettendo qualche ora di pace e uno stimolo in più per credere nel proprio cuore e nelle proprie ragioni.

Dal Pincio si sono accese le ultime torce di una serata iniziata qualche chilometro più in là – ai piedi del Pantheon -, illuminandolo a giorno e facendo trasparire, con il diradarsi, il semplice acronimo ASR. Un marchio caro a tutta la tifoseria, stampigliato per alcuni minuti sul balcone degli innamorati. Quasi a volersi momentaneamente sostituire alla magia di un bacio e all’unicità di un abbraccio. A voler rammentare quanto quelle tre lettere siano forti, implacabili e cariche di significato malgrado da qualche anno alcune “teste pensanti” abbiano ben pensato di toglierle dallo stemma. Con la scusa di dover dar risalto alla parola “Roma”. Come se la città che è stata Caput Mundi e dove tutte le strade portano abbia bisogno di presentazioni. Cialtronerie partorite da chi la nostra cultura non solo non l’ha mai voluta accettare, ma probabilmente l’ha sempre disgustata. Ecco perché questo amore va manifestato. Perché chi ci sputa, lo calpesta e lo maltratta è giusto che venga messo alla gogna.

Quella gente ha urlato alla sottostante Piazza del Popolo che chi per l’ennesima volta ha deciso di passare questa serata di mezza estate nel cuore di Roma sa cos’è l’amore e sa come manifestarlo nonostante in tanti denigrino, minimizzino e snobbino questo sentimento.

E poi sapete cosa c’è? Che effettivamente questa data sta diventando sempre più uno dei pochi momenti in cui i tifosi possono esprimere liberamente il loro modo di essere. Estraendosi da quella macchina fredda, calcolatrice e senza obiettivi che è diventato un club, che da una parte ambisce a ritagliarsi un posto nell’Eden calcistico europeo (non riuscendoci neanche minimamente finora), ma dall’altro recide sistematicamente tutte le radici con la propria città e la propria gente. Perciò è fondamentale, di tanto in tanto, ricordare da quale parte sta battendo il cuore e quali arterie stanno trasportando il sangue del romanismo.

“Caciaroni”, indisciplinati e rabbiosi. Hanno marciato per Via del Corso. Riprendendosi per poco un luogo ormai adibito a “passerella” per i turisti. Trasformandolo in un tapis-roulant giallorosso. Quelle migliaia di ragazzi, uomini, donne e bambini mischiati indistintamente. Perché per loro l’amore, probabilmente, non ha mai avuto una sola destinazione o un solo luogo in cui manifestarsi. Perché chi ha detto che ne esiste solo un tipo? Chi può arrogarsi il diritto di giudicare l’amore altrui perché, magari, convogliato in una campo che per molti è stupido o superficiale come quello calcistico?

Se ci si ragionasse, forse, si capirebbe anche che il cuore non batte di certo per uno schema tattico o un’azione ben orchestrata in quanto tali. Ma per tutto quello che una maglia, le sue tradizioni e il suo retroterra folkloristico rappresentano. Per le amicizie e per le storie di vita vissuta. Per quegli abbracci fraterni e per quegli sguardi che si incrociano riconoscendosi, pure se nella propria vita non si sono mai conosciuti.

Di tutto questo i freddi calcolatori, gli ignavi e i mistificatori della realtà se ne facciano una ragione.

E magari pensino anche che al vecchio Campo Testaccio, oggi ancora divorato dalle erbacce e dalla noncuranza, un altro pezzo di cuore ha battuto a suon di cori, pirotecnica e striscioni. Parlo dei Fedayn, che là hanno deciso di celebrare il loro 22 luglio. Accendendo a festa un’altra zona pregna di Roma e di romanismo. Quella che i nostri nonni ci hanno raccontato e quella per cui nipoti e pronipoti da anni si battono per riaverne quanto meno un’idea, un pezzetto e una giusta riconoscenza.

Beato è chi riconosce l’amore, chi gli porta rispetto e chi lo esterna con serenità e ammirazione. Perché costui sarà sicuramente ripagato, anche nei momenti bui e tristi. Ripensando a un istante, a un anfratto o a un dolce minuto vissuto. Come queste tiepidi notti di fine luglio. Uguali agli abbracci e ai baci scambiati sul Pincio da ragazzi persi tra i loro sogni e le loro speranze.

Simone Meloni

Fedayn a Campo Testaccio