Per un istante mi sono immedesimato in un giovane forestiero. Che nulla sa di Roma e delle sue passioni calcistiche. Un forestiero che per la prima volta mette piede allo stadio Olimpico, incuriosito da quella che in Europa è senza dubbio una delle stracittadine più famose e ammirate. Nei suoi occhi dev’esserci stata molta gioia quando è riuscito ad accaparrarsi un biglietto, e la domenica mattina un po’ d’ansia mista a curiosità dev’essergli salita. Magari anche avendo percepito in parte ciò che significa questa partita nella Capitale.

Ho voluto fare questo tentativo per scuotere un po’ la percentuale di disincanto che spesso negli ultimi anni mi ha portato a questa gara. Ho voluto fare questo tentativo anche per cercare di prendere un po’ distanza da quel pensiero inconscio del “Quando ero più piccolo era tutta un’altra storia”. L’ho fatto anche per mettermi un po’ nei panni dei ragazzetti di oggi, di quelli che vivono il derby su ambo le sponde e che in fondo debbono provare sentimenti non troppo distanti da quelli della mia generazione e di quelle precedenti.

Ok, Roma-Lazio è cambiata (del resto, ditemi voi, cosa non è cambiato negli ultimi frenetici e vorticosi anni?). Non è più quella partita a cui le nostre mamme non ci volevano mandare, probabilmente a ragione, sebbene resti un match da bollino rosso, con due tifoserie che benché abbiano un raggio d’azione ristretto e represso rispetto ai bei tempi, rimangono vive e tutt’altro che “dolci” se stimolate. Non ci saranno più quegli spettacoli pirotecnici non inferiori a nessun Stella Rossa-Partizan e, rispetto a inizio anni duemila, non c’è più neanche quel fascino dell’alta contesa sportiva. Ma resta pur sempre una sfida ricca di spunti, che lascia agli occhi del forestiero, così come del giovane astante locale, un’immagine di passione e calore non così comune e né così scontata. Soprattutto nell’era dello sbriciolamento delle passioni, dell’aggregazione tacciata come pericolo pubblico. Roma mantiene uno sorta di rude purezza in ambito calcistico. E da qualche anno, debbo dire, la rivalità ha anche ripreso quota, con presenze allo stadio che sono finalmente tornate degne del nome che questa partita si porta dietro e uno sfottò corposo e continuo che serpeggia in città nelle settimane precedenti (e ovviamente anche in quelle successive, in base al risultato).

Malgrado le “inchieste” maldestre del Corriere della Sera e gli articoli provocatori dei soliti noti, l’aria che si respira all’esterno – incamminandosi verso l’Olimpico – è di quelle che ogni calciofilo non può che apprezzare: tensione, paura, spavalderia e tanta voglia di entrare per trovarsi davanti il nemico di sempre da fronteggiare. Il derby della Capitale lo capisci se lo vivi e se in città ci vivi, altrimenti risulta un po’ difficile pensare che sia così diverso da altre stracittadine. Roma è una città particolare: posta al centro dell’Italia ma che dai due estremi latitudinali del Belpaese ha assorbito vizi e virtù. Un posto dove spesso la gente manco si guarda in faccia, ma che quando si rapporta col pallone e con la sua magia immediatamente entra in trance, mostrando un lato molto particolare del proprio modo d’essere.

Ma soprattutto è un posto dove si è sempre vinto poco. Dove sommando le bacheche dei due club non si arriva a colmare un quarto di quelle delle grandi del Nord Italia. Ed in cui, dunque, il derby assume spesso e volentieri la valenza di un piccolo trofeo stagionale. Da esibire settimanalmente al dirimpettaio, con il classico modo guascone e smaliziato di dire le cose, tipico di una romanità pungente. Purtroppo da anni annacquata e in via di estinzione, va detto.

Venendo a questo derby (il numero 179 in gare ufficiali), il cammino di avvicinamento ci parla di un Olimpico sold out e di due squadre che navigano con relativa costanza nella zona Champions League della classifica. E allora dagli occhi del forestiero dev’esser assai suggestivo salire gli scalini di questo impianto monumentale e trovarsi di fronte oltre sessantamila persone vocianti, colorate e a tratte già arrabbiate, ancor prima che venga fischiato il calcio d’inizio. La verità? C’è una piccola parte di me che ancora oggi prova emozione dopo l’ultimo scalino, quello che permette di puntare lo sguardo sul manto verde e sentire il fiato del pubblico. È una di quelle cose che puoi fare anche miliardi di volte, ma che un minima parte ti restituiranno sempre un piccolo sussulto.

Le squadre rientrano negli spogliatoi dopo la fase di riscaldamento e la sacralità del confronto, degli insulti che cominciano a prendere quota, è rotta come ormai di consueto dallo spettacolo di luci, dalle urla gallinacee dello speaker e dalle canzoni da discoteca. Un calcio in faccia a decenni di storia di una partita in cui – ancor più delle altre – gli unici rumori consentiti dovrebbero essere quelli prodotti dalle due tifoserie presenti. Un afflato ancestrale che viene rotto da una patetica moda, che ancora non ho capito di preciso a chi piaccia, ma che purtroppo è ormai regola in tutti gli stadi d’Italia e non solo.

Ore 18, finalmente le due squadre fanno il loro ingresso in campo. Da qualche minuto le curve hanno srotolato le rispettive coreografie. I laziali riempiono il proprio settore con decine di cartoncini bianco-celesti-blu e la gigantografia di quattro personaggi simbolici per la storia del club e dei suoi tifosi: Luigi Biagiarelli (fondatore del sodalizio), Giorgio Vaccaro (colui che evitò la fusione con gli altri club che diedero vita alla Roma), Vincenzo Paparelli e Gabriele Sandri (rappresentati dal ragazzo con la sciarpa). Mentre sulla pista d’atletica viene esposto lo striscione “L’amor mio non muore mai”.

I romanisti rispondono con migliaia di cartoncini bianchi – spezzati da una linea orizzontale giallorossa – a far da contorno al telone raffigurante Attilio Ferraris IV poggiato su un pallone retrò; sullo sfondo lo storico simbolo del club con l’acronimo ASR e lo stemma SPQR che ricalca l’omonima effige presente presso la Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. In basso la scritta “1927: noi decidemmo di essere Roma!”

A rendere ancor più belle le scenografie diversi fumogeni accesi su ambo i fronti, alcuni dei quali lanciati in campo alla vecchia maniera. In Tevere coreografia organizzata dalla società con cartoncini giallorossi e una sorta di fumogenata. Considerazione a margine, senza intento di critica: il vedere la semplicità con cui i fumoni sono stati accesi in tribuna ha evidenziato – se ce ne fosse bisogno – come l’utilizzo degli stessi non sia certamente vietato per motivi di sicurezza, quanto per un mero mix di burocrazia e proibizionismo. Del resto se è possibile accenderne un bel numero (ovviamente, credo, con le dovute autorizzazioni) come fatto fare dal club, è chiaro che sia possibile anche permetterne l’utilizzo in altri settori (che ad oggi è punito con pene severissime se commisurate al reato).

Mentre gli occhi del forestiero sono pieni dello spettacolo visto sulle gradinate, le due squadre hanno dato il via alla disputa. E, a dirla tutta, non si tratterà d una gran disputa. Nel rispetto della tradizione del derby, sempre per essere onesti. L’unico sussulto sarà quello del gol laziale, procurato da un suicidio di Ibanez e finalizzato da Felipe Anderson. Una rete che consegnerà la stracittadina ai biancocelesti.

Questa è una partita da sempre difficile da leggere e commentare in fatto di tifo. La tensione che si taglia a fette finisce spesso e volentieri per inibire le voci e rendere difficile il supporto continuo e intenso. Con gli anni ho imparato parzialmente ad apprezzare ciò, leggendovi una grande dose di passione relativa alle squadre e al pallone. Un passione talmente forte che finisce per colpire lo stomaco e irrigidire ogni muscolo del corpo. Nel caso di fattispecie, come sovente succede, saranno i vincitori a realizzare una prova canora leggermente migliore rispetto ai dirimpettai. I laziali infatti riusciranno forse ad avere una maggiore intensità, mostrandosi in diverse occasioni con cori potenti e coinvolgenti. La Nord si metterà in mostra anche con una buona dose di colore, con sciarpe e bandiere al vento.

Ciò detto, la Sud non sta certo a guardare, proponendo numerosi battimani che coinvolgono anche i Distinti e cercando in ogni modo di spronare una squadra che non sembra riuscire ad avvicinarsi pericolosamente all’area avversaria. Sempre ottimo l’apporto dei muretti che, di concerto con la parte basse, scuotono il settore aiutando la coordinazione del tifo.

Ecco, complessivamente se devo trovare una pecca sta nell’aver perso una grande peculiarità del derby romano: gli innumerevoli striscioni sarcastici che contraddistinguevano questa sfida. Decine e decine di frasi ironiche e ficcanti che hanno resto la stracittadina della Capitale unica nel suo genere. Sicuramente la fine di questa “usanza” è da addurre principalmente alle stringenti limitazioni in fatto di striscioni che hanno colpito il mondo curvaiolo dal 2007 in poi. Agli occhi del forestiero sarebbe stato spettacolare leggere e decifrare suddetti messaggi, che credo abbiano incarnato perfettamente il modo di essere romani, nonché tifosi di Roma e Lazio.

Al fischio finale sono ovviamente i laziali ad esultare. Un successo vitale, che arriva dopo le sconfitte contro Salernitana e Feyenoord. Una vittoria che ovviamente passerà alla storia come quella del “Derby di Ibanez”. Corsi e ricorsi di una sfida che di tanto in tanto rende “idoli” giocatori autori di errori e strafalcioni letali alla casacca indossata in quel momento.

Mentre lo stadio sfolla il forestiero resta là, in tribuna. Da spettatore neutro. Ad osservare queste due tifoserie. Forse un po’ provinciali, sicuramente molto accalorate e attaccate alle proprie radici. Penso che se ne tornerà a casa con un’idea magari non buona di una città che cade a pezzi, ma bella ed esaltante in ambito stadio. Dove prevale ancora semplicità e dove si spera che niente e nessuno metta lo zampino per smantellare un confronto che nel nostro Paese resta ancora tra i più genuini, non solo in tema ultras. Il forestiero lo potrà raccontare nei giorni successivi, di quella gente che all’inizio sembrava così tranquilla e che durante quei cento minuti si è trasformata in una tribù di selvaggi innamorati, vogliosi di non osservare nessuna regola relativa alla buona convivenza!

Simone Meloni