Le tre ore con cui il pullman ci porta da Catania ad Agrigento permettono a me e Marco di schiacciare un lieve pisolino – utile giusto a ricaricare un minimo le batterie in vista della serata – e scrutare con attenzione i cartelli stradali che, chilometro dopo chilometro, ci segnalano paesi e cittadine di questa zona della Sicilia interna. Inevitabilmente si finisce per collegare alcune insegne alle squadre locali, rivangando nella storia delle loro tifoserie e chiedendoci se mai avremo modo di vederle all’opera. Magari tra le mura amiche, fattore che oggi appare tutt’altro che scontato. Non a caso uno degli esempi più fulgidi ci viene dato dalla fermata fatta a Canicattì, la cui società milita da qualche anno in Serie D, dovendo pagare però lo scotto di un campo non a norma ed essendo costretta all’esilio in quel di Ravanusa. Situazioni talmente comuni oggigiorno, che suscitano principalmente rabbia e ironia, anziché stupore. Ovviamente se a me il fatto dispiace, al mio compagno di viaggio lo manda totalmente in paranoia, facendolo perdere in un pessimismo cosmico di leopardiana memoria.
Ci rendiamo conto, a volte, di volerci estraniare in una realtà che probabilmente appartiene ormai a epoche passate. Malgrado la nostra perpetua ricerca della novità, dell’anima di una tifoseria e del monumento rappresentato da uno stadio. E ovviamente dalla sempiterna emozione nel visitare una città che vanta millenni di storia e tradizioni. Abbiamo abbandonato Catania, dopo il match tra gli etnei e la Turris, raggiungendo l’autostazione con una lunga camminata e programmando sia cosa fare la sera che la giornata successiva. In fondo ci accontentiamo ancora di poco, siamo ancora quei ragazzini che hanno cominciato a frequentare lo stadio in una determinata maniera e oggi trovano stimolante macinare oltre duemila chilometri, tra andata e ritorno, per seguire le nostre passioni immortali.
Un freddo e fastidioso vento proveniente dal mare accoglie la nostra discesa dal torpedone nel capoluogo. Non potrebbe essere altrimenti, Agrigento deve ricordarci subito che qua siamo a una manciata di chilometri dalla distesa blu che separa il nostro Paese dal continente africano e la sua storia affonda in radici lontanissime, che un po’ tutti individuano in quelli che la sera da lontano sembrano dei luminosissimi gioielli fermi sulla vallata, ma che in realtà sono i magnifici templi dorici grazie a cui questa zona è conosciuta in tutto il Mondo. Nota personale: la gran voglia di visitare questo lembo di terra è data, oltre che dall’esordio all’Esseneto, anche da tutto quel bagaglio culturale che sin da piccolo mi ha affascinato terribilmente a causa di un vecchio atlante datato 1972 – praticamente divorato – dove campeggiavano imponenti le foto della Valle più celebre d’Italia.
Il tempo di individuare la nostra stanza, lasciare i bagagli e siamo pronti a goderci il sabato sera agrigentino. Cosa possono fare due partitellari cronici dopo essersi goduti la cena e un giro nella movida del centro storico? Ovviamente nulla se non fare una camminata preliminare attorno allo stadio, per osservarne la solitudine notturna e coglierne le prime essenze. L’impianto girgentino appare sin da fuori imponente e non nego che su di lui abbiamo grandi aspettative. Peraltro, personalmente, c’è una sorta di “maledizione” legata all’Esseneto. Ho provato diverse volte a organizzarmi per raccontare una partita dell’Akragas, ma puntualmente i buoni propositi sono naufragati, sempre per cause di forza maggiore. Una su tutte: gennaio 2014, i siciliani devono ospitare il Savoia per un’importantissima sfida al vertice nel girone I della Serie D. Atteso il pubblico della grandi occasioni e, ovviamente, un corposo contingente torrese. Manco a dirlo, senza alcun motivo, si decide per il divieto di trasferta. Mandando dunque a monte i miei piani. Del resto questa è l’Italia della burocrazia e della disorganizzazione calcistica: scemo io che ancora me ne sorprendo o mi ci faccio il sangue amaro!
Sta di fatto che dopo un bel tour attorno allo stadio risaliamo per vicoli e scalette, fino a raggiungere la zona della stazione. Che ovviamente sarà la prima tappa l’indomani. Quando l’orologio ha ampiamente passato la mezzanotte possiamo concederci una visione più accurata del centro storico, che adesso risulta meno affollato. Agrigento è una di quelle città che più ha subito l’ondata degli affaristi del cemento nel secolo scorso. Bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale e divorata da costruzioni abusive nell’immediato periodo post bellico, ha faticato molto per far riemergere i propri splendori. Perché, sebbene la vecchia Akragas sia quella che si calpesta visitando la Valle dei Templi, quello che oggi è considerato il cuore cittadino è figlio della dominazione normanna (non a caso in cima alla collina svettano i resti di un Castello) che qui vi fondò Girgenti, toponimo che peraltro è stato ripristinato nel 2016, come avrò modo di spiegare più avanti. L’aria medievale che ancora si può respirare, le chiese in stile barocco, la statua del celebre poeta Camilleri (nativo di Porto Empedocle) e tutto il percorso sinuoso che da Piazza Pirandello a Porta di Ponte trafigge in due il cuore della città, restituiscono un’immagine che lascia intendere quanto nel retroterra storico di questo posto ci sia stata e ci sia tutt’oggi una certa abitudine alla centralità, alla predominanza e al benessere. Non è un caso se già i cartaginesi sferrarono numerosi attacchi nei confronti dei greci per sottrarne il territorio. Riuscendoci infine e regalando ad Agrigento anche la sua immancabile sfaccettatura araba, nonché uno dei quattro nomi avuti: Kerkent.
Ore 7 della domenica mattina. La sveglia suona incessantemente. Con somma fatica e ancora una buona dose di sonno arretrato, ci alziamo dai rispettivi letti con l’intento di prepararci alla lunga giornata. Un bel sole illumina e riscalda tutta la Sicilia, costringendoci ben presto a far a meno di giacche e felpe. Le viuzze del centro sono deserte quando le percorriamo alla chetichella avvicinandoci alla stazione, dove un solitario e confuso turista anglofono ci guarda come fossimo due alieni. Potremmo fare lo stesso con lui, considerato che dopo qualche minuto lo vediamo parlottare con due militari per chiedere informazioni sul proprio biglietto (sic!). Invece preferiamo concentrarci sullo scalo ferroviario, che al contrario di quanto si possa pensare è, in ordine cronologico e non di importanza, il secondo del capoluogo. In origine, infatti, fu l’attuale Agrigento Bassa (stazione di Girgenti) a svolgere il ruolo di crocevia per i passeggeri su strada ferrata, fin quando, negli anni trenta, venne deciso di erigere la nuova stazione Centrale, a essa collegata grazie a un tunnel di tre chilometri che passa esattamente sotto il centro storico.
Una storia, quella delle ferrovie della provincia di Agrigento, comune a molte consorelle siciliane. Stordite e devastate dalla cieca voglia di cancellare questo mezzo di trasporto da buona parte del Sud Italia a partire dagli anni ’50, con le miopi scelte politiche in favore del trasporto su gomma che produssero danni di dimensioni incommensurabili, di cui ancora oggi l’isola paga le spese. Basti pensare alle varie linee a scartamento ridotto (la Castelvetrano-Porto Empedocle su tutte, ma anche la Agrigento-Licata) che all’epoca costituivano un raccordo fondamentale per l’economia della zona, incentrata sulle cave di zolfo, ma anche un collegamento indispensabile per il polo commerciale di Porto Empedocle con Palermo, Caltanissetta e Catania. Porto Empedocle che da metà anni novanta non è praticamente più dotato di stazione ferroviaria: solo la volontà di alcuni appassionati ha fatto sì che negli ultimi tempi, sporadicamente dei treni turistici lo collegassero al capoluogo.
La stazione, la ferrovia, il treno, sono grandi contenitori della storia e delle tradizioni di un popolo. Sia perché rappresentano lo spostamento, sia perché sono uno dei fattori tangibili dell’ingegno e della volontà di accorciare i tempi. Ecco, nessuno me ne voglia se utilizzo questa frase ironica ora: diciamo che essendo una persona che ama la lentezza – pur dovendo spesso correre – in tal senso mi trovo a mio agio in Sicilia!
Fotografata la tabella degli orari e l’ultima insegna, è tempo di incamminarci verso la Valle dei Templi. Man mano che scendiamo le scalette osserviamo, maestoso, il mare stagliarsi all’orizzonte. Cosa che ovviamente la sera prima non avevamo potuto vedere. Il Tempio della Concordia, sicuramente il più celebre tra tutti quelli esistenti, è nitidamente distinguibile e imponente già a qualche chilometro di distanza. Immancabile è la seconda sosta all’Esseneto, ovviamente voluta dal mio prode compagno di viaggio, il quale ha una concezione del tempo tutta sua – cosa molto siciliana, aggiungerei – e in fin dei conti mi va bene così, malgrado al momento colpisca in pieno la mia frenesia di fare tutto il possibile nelle poche ore a disposizione. Da buoni camminatori seriali (alla fine conteremo oltre ottanta chilometri fatti in due giorni) non ci spaventiamo davanti agli oltre due chilometri che ci separano dall’ingresso del sito archeologico, avviandoci tra le varie chiacchiere sugli ultras e non solo.
Lasciando il centro abitato alle spalle, ai nostri lati cominciano a vedersi le prime costruzioni di quella che fu l’antica e fiorente Akragas, appellativo che deriva dalla primordiale denominazione di un fiume che scorre non lontano da qui e che oggi si chiama San Luca. L’acropoli akragantina venne fondata nel 581 a.C. da gelesi (Gela era allora una fiorente e potente città fondata da coloni provenienti da Rodi e Creta) intenzionati ad ampliare la ricchezza della propria stirpe ed evitare troppi assalti esterni, approfittando di una zona all’epoca non soggetta a troppe attenzioni da parte delle popolazioni più potenti. Il dominio greco durò quasi quattrocento anni, passando alla storia per i vari tiranni che lo contraddistinsero (su tutti il crudele Falaride, colui che favorì la creazione del toro di bronzo, un contenitore di suddetto metallo in cui venivano inserite vittime sacrificali e all’interno del quale veniva appiccato il fuoco, portando il malcapitato alla morte per ustione tra urla lancinanti che dall’esterno somigliavano a muggiti, e Terone, che ne favorì il massimo sviluppo economico) e per la costruzione della maggior parte dei templi durante il regime democratico instaurato dal filosofo Empedocle nel 471 a.C. A proposito di quest’ultimo, celebre fu una frase che lasciò ai posteri su Akragas e i suoi cittadini: “L’opulenza e lo splendore della città sono tali, gli akragantini costruiscono case e templi come se non dovessero morire mai e mangiano come se dovessero morire l’indomani”. Un richiamo a quella voglia di sfarzo e “piacere” a cui ho fatto cenno in precedenza.
Il successivo dominio cartaginese, quello romano (in cui il nome verrà latinizzato in Agrigentum) e, infine, quello normanno, danno solo l’idea di quanto questa porzione di Sicilia – già colonizzata e abitata da popoli pre greci come i Sicani – sia intrisa di storia. E questo ovviamente, oltre a esser parte integrante anche del presente, si rispecchia appieno sul manto verde del football. Sia nel nome del club cittadino che negli striscioni dei suoi tifosi. Sta di fatto che camminare nel cuore della Valle dei Templi non è solo una semplice “scampagnata” domenicale, ma si tratta davvero di una delle esperienze più belle e suggestive fatte in un sito archeologico italiano. Una incredibile commistione tra arte, natura e paesaggio. Per chi ha vasta immaginazione, appare sin troppo semplice tastare con mano, laggiù, le coste dell’Africa. Ricado così in un mio vecchio desiderio: quello di raggiungere Lampedusa in traghetto da Porto Empedocle, dopo – manco a dirlo – un bel viaggio in treno da Roma. Mi rendo conto quanto per il sottoscritto sia divenuto quasi imprescindibile lo spostamento via terra, per comprendere e raccontare meglio ciò che si fa e quello che si vede. Inoltre quel tratto di mare, funestato negli ultimi anni dalle morti figlie dei fenomeni migratori, ci ricorda anche quanto la storia del nostro Paese sia colma di paradossi e punti di incontro con chi oggi vediamo lontano anni luce dal nostro modo di vivere, malgrado la manciata di chilometri che li separa dalle terre emerse su cui sventola bandiera italiana.
Dopo esserci divincolati tra gli ultimi templi, aver ammirato gli esemplari di capra girgentana conservati nel parco archeologico e aver respirato a pieni polmoni la brezza marina, in grado di sferzare le vaste piantagioni di fichi d’India, possiamo dirigerci verso l’uscita. Mancano un paio d’ore al fischio d’inizio e c’è tutta una strada di ritorno, in salita, da fare. Ovviamente non ci nominate parole come taxi o autobus, l’unico mezzo di trasporto che conosciamo sono i piedi. Aggiungo: più il percorso è in salita, più è soddisfacente arrivare alla meta. Anche se ci sarebbe un piccolo cavillo: la fame. Gli stomaci cominciano a gorgogliare e a dirla tutta, sulla bellissima Via Panoramica Valle dei Templi non c’è traccia di rosticcerie et similia. Pazienza, siamo in Sicilia e non vogliamo credere che non ci sia nulla di aperto da qui allo stadio. Quando ci imbattiamo nel cartello di benvenuto ad Agrigento mancano ancora una decina di minuti alla meta. Che poi, come accennato, questo è un nome ripristinato dal fascismo nel 1927 (fino ad allora resisteva quello normanno di Girgenti) che aveva a suo volta italianizzato il toponimo latino di Agrigentum. Insomma scavando nella storia del toponimo di questa città, davvero si può dire che ogni dominazione ha lasciato un segno tangibile.
Siccome strada facendo ci imbattiamo anche nel palazzetto dello sport, non possiamo far altro che fermarci per scattare qualche foto e guardare, almeno dall’esterno, la struttura. Di primo acchito non sembra neanche male, sebbene la locale squadra di pallacanestro – militante in A2 – giochi le sue partite interne a Porto Empedocle, presso il PalaMoncada (che prende il nome dalla famiglia che per la prima volta ha condotto il club siciliano nella seconda categoria cestistica nazionale). Unico aspetto criticabile è l’esterno, lasciato palesemente a sé stesso e prigioniero dell’incuria. Andando avanti, finalmente, troviamo anche un posto dove rifocillarci. Tra polli che girano sullo spiedo e un caldo equatoriale, un vecchietto si palesa orgogliosamente dietro il banco vendendo spiedini e pasta al forno. Come dire di no? Ci prendiamo due porzioni, qualche birretta, un paio di spiedini e in un locale che sembra riportarci negli anni settanta consumiamo il nostro pranzo. L’ingresso allo stadio è prossimo, ma la sosta è davvero rigenerante, dopo un’intera mattinata passata a camminare sotto un sole che tutto sembra tranne che novembrino.
Capisco che sinora praticamente non ho mai parlato di calcio, di ultras e di tifoserie. Perdonatemi, ma davvero le cose sono così legate tra loro che chi ha voluto, già ha individuato diversi riferimenti al nostro mondo. Del resto qua hanno avuto il lusso di chiamare un gruppo Fossa dei Giganti, facendo la crasi tra uno dei “prefissi” più utilizzati dalle tifoserie organizzate e la leggenda che vuole questa zona abitata in origine appunto da giganti, i quali avrebbero fondato Naro dopo il Diluvio Universale, espandendosi poi in tutta l’attuale provincia. Questa leggenda oggi è ben stampigliata sul gonfalone comunale, dove i tre giganti Encelado, Fama e Ceo sorreggono tre torri. Un nome che, per ovvie ragioni, non ha mai potuto avere eguali in tutto il Paese.
Il club biancazzurro è tornato in Serie D lo scorso anno, nel tentativo di ricostruire una stabilità sportiva e, chissà, riconquistare quella Serie C persa qualche anno fa. Del resto il calcio agrigentino non ha mai goduto di un vera e propria continuità in fatto di risultati, cosa che giocoforza ha pesato e pesa tutt’oggi in fatto di seguito numerico e organizzato. Il pallone comincia a rotolare nei primi anni trenta, con la fondazione dell’Associazione Calcio Agrigento, che gioca le proprie partite interne al campo dei salesiani, poco distante dalla cattedrale o nella centrale Piazza Rosselli. Nel 1939 viene fondata l’Akragas, dai colori viola. Quest’ultima fino al 1952 resta una piccola squadra cittadina, riuscendo però a divenire il primo club dopo il fallimento dell’AC Agrigento, il cambio di colori in biancazzurro e l’adozione del simbolo comunale. L’US Akragas diviene quindi l’unica rappresentante del capoluogo, accattivando tifo e simpatie anche dei sostenitori del defunto Agrigento.
Dopo i primi trent’anni passati tra dilettantismo regionale e Serie D, a inizio anni ottanta arriva il salto nel professionismo. Più precisamente è il 1981 quando la società presieduta da Luigi Zicari ottiene la promozione in C2, mentre due anni più tardi arriverà anche quella in C1, portando in tripudio una città che comincia a sognare sempre più in grande. Tuttavia la C1 dura due anni – in cui spiccano le figure di Franco Scoglio e Francisco Lojacono in panchina -, seguita da un doppio salto all’indietro che riporta i girgentini in Serie D. Per poi vedere la società fallire a fine anni ’80, venendo però “salvata” dal presidente del Favara Franco Lentini, che con una fusione mantiene la categoria rinominando (obbrobriosamente) il club dapprima Agrigento-Favara (un po’ come se volessimo chiamare una squadra Bari-Foggia, non a caso questa squadra non sarà seguita dagli ultras) e poi Agrigento Hinterland. Nel 1992 si ritorna in C2, ma nel 1995 arriva il secondo fallimento, che stavolta porterà Agrigento e i suoi tifosi giù negli inferi del calcio regionale, con la nuova AS Akragas costretta a ripartire dal Girone M della Seconda Categoria.
In questi anni ci sarà addirittura un tentativo di ridar vita alla vecchia AC Agrigento, che raggiungerà il massimo livello del calcio dilettantistico nel 1999, fondendosi però l’anno successivo con l’Akragas e facendo tornare in città un solo club. Sono anni difficili per i siciliani, che solo nel 2014 riusciranno a riconquistare la Serie D, vincendo il campionato e tornando nel professionismo, dove rimarranno fino al 2018, quando arriverà il terzo fallimento della loro storia, cosa che implicherà l’ennesima ripartenza, stavolta dalla Promozione.
Le recenti vicende parlano di una bella scalata, culminata con la promozione in D lo scorso anno e l’opportunità di tornare a competere su scala interregionale. E gli ultras? Il movimento nasce a inizio degli anni ottanta, sulla scia degli ottimi risultati della squadra. Come detto è la Fossa dei Giganti Ultras Agrigento a dare il via alla tradizione curvaiola locale, popolando l’Esseneto con tutte gli strumenti in voga all’epoca: torce, tamburi, coriandoli e rotoli di carta. Da segnalare, in quegli anni, un sentito gemellaggio con i WUP del Palermo, rapporto poi andato perdendosi con le generazioni successive. Il gruppo comunque tiene botta per tutti gli anni ottanta e buona parte dei novanta, prima che la squadra venga inghiottita dai fallimenti. L’ultimo grande grido di quel popolo agrigentino è datato primavera 1992, quando l’Akragas riconquista la C2 vincendo lo spareggio contro il Calitri e vedendo le gradinate dello stadio stracolme, al cospetto degli impressionati giocatori ospiti, abituati al più mansueto pubblico del piccolo paese in provincia di Avellino.
Dagli anni duemila in poi diventa sicuramente più difficile portare avanti un discorso di aggregazione. Sia per un fatto di risultati sportivi che per la tanta emigrazione giovanile che riguarda la zona. Di sicuro va ricordata l’esperienza di Settore Rigido, gruppo che nel suo piccolo provò a creare un punto di rottura col modo tradizionale di vivere lo stadio e che sicuramente ha lasciato un notevole segno per quanto riguarda il pensiero ultras. Negli anni successivi tanti sono stati i tentativi di compattare le componenti del tifo, cominciando dal periodo in cui il contingente biancazzurro ha seguito il club dietro lo striscione Curva Sud. Oggi i gruppi principali sono Facce Toste e Sita Clan, che dietro allo striscione Figli della Valle raccolgono chiunque voglia sostenere i Giganti in maniera organizzata e assidua.
A proposito di giganti, direi che uno di loro è sicuramente lo stadio Esseneto. Con i suoi dodicimila posti (purtroppo non totalmente omologati) e la sua forma rettangolare, da vecchio stadio inglese, rappresenta senza dubbio uno degli impianti più belli di tutto il Sud Italia. Mura granitiche all’esterno, biglietterie incastonate dentro, ingresso degli spogliatoi in cui la società ha saggiamente creato una sorta di piccolo museo con foto d’epoca, maglie, gagliardetti, foto del tifo e di giocatori storici, una piccola ma funzionale sala stampa e dei bellissimi gradoni in cemento, senza quegli odiosi seggiolini a ricordarci che ora anche le sedute devono essere regolamentate e ordinate. Edificato nel 1930, questo stadio inizialmente era dotato delle sole due tribune, mentre dove oggi ci sono le curve si presentavano i settori “prato”. Queste ultime sono state costruite nel 1990 (anche se la Nord è inagibile e non è mai stata collaudata), allorquando anche il terreno di gioco venne passato da terra battuta a prato. Il nome è una chiara dedica all’omonimo atleta akragantino, trionfatore in varie occasioni alle Olimpiadi, nelle gare di velocità con bighe. Unica pecca, la mancanza delle torri faro. Una vera e propria stranezza se si pensa alla portata dell’impianto. Una cosa imbarazzante, invece, rimembrando l’ultimo, fondamentale, sponsor del club che ha disputato la Serie C, vale a dire l’Enel. Emblematico uno striscione permanente attaccato alla ringhiera della tribuna scoperta: “60 anni per quattro pali, vergogna!”. Impossibile dargli torto.
Tanto per rimanere in tema di situazioni imbarazzanti e triste comicità italica, l’ospite di oggi è quella Reggina (la chiamerò così, senza nomignoli ulteriori, chiedo venia ai signori “precisini”) protagonista di una delle tante, amare, storie di malaffare calcistico estivo. I calabresi sono passati dalla disputa dei playoff per la Serie A, a una metà classifica di Serie D. Il tutto nel giro di pochi mesi. La storia, che vede coinvolto l’imprenditore Saladini e che, in piccola parte, ho anche avuto modo di raccontare nell’articolo di Sambiase-Vigor Lamezia, è di quelle talmente sporche e sudicie, divenute consuetudine per il nostro pallone. Che sicuramente durante quest’anno avrò anche modo di approfondire con i diretti interessati. Per ora mi limito a parlare della presenza amaranto in terra sicula. La quale si aggira attorno alle cento unità. Numeri buoni? Pochi? Non saprei dire. Appare ovvio come il doppio declassamento, la storpiatura del nome e la delusione, abbiano allontanato molta gente, trovando in disaccordo anche curvaioli che evidentemente non si riconoscono in questo attuale progetto. Non giudico perché davvero sono situazioni complicate, leggibili al meglio solo se si vivono. Di certo chi ha scelto comunque di rimanere accanto a quella che idealmente è la sua squadra, si è posto su una strada coraggiosa. Sebbene, da un punto di vista puramente del divertimento, la D offra trasferte e palcoscenici difficilmente replicabili nel professionismo.
Venendo alla sfida odierna: la cornice di pubblico, forse, non è proprio quella delle grandi occasioni. Ma come detto, Agrigento non è una piazza facile in cui fare aggregazione. I tanti fallimenti, gli anni passati a giocare a pochi chilometri da casa, non hanno favorito una fidelizzazione forte e continua. Inutile girarci attorno: i risultati contano eccome per avvicinare gente allo stadio. E, in modo collaterale, anche per ingrossare le fila degli ultras. Tifo organizzato che presenta il proprio zoccolo duro dietro le consuete pezze e saluta l’ingresso delle due squadre con una bella – e sempreverde – fumogenata. Barattoli bianchi e azzurri che ricoprono la Curva Sud, inebriando le nostre radici. Dopodiché si comincia a tifare, sostenere un Akragas che sinora ha disputato un campionato a luci alterne, occupando una posizione di metà classifica. Ciò che mi viene subito da notare è la tanta gioventù che affolla la curva agrigentina, cosa che ovviamente se condotta su una strada giusta e intelligente, può volgere a favore del movimento ultras locale.
Del resto queste nuove generazioni ormai da qualche anno sono state in grado di segnare il passo della tifoseria, legando nuovi e alquanto sentiti rapporti di amicizia (vedi Siracusa, Andria, Frattamaggiore e Castellammare di Stabia) e rinverdendo rivalità storiche e mai sopite come Licata e Favara. Fare vita da stadio oggi è tutt’altro che semplice, anche nei bassi livelli. Diffide, repressione, divieti e abusi sono quotidianamente dietro l’angolo. Anche e soprattutto in realtà piccole come queste, dove sovente Questure e Commissariati alternato negligenza e repressione figlia di una totale mancanza di sensibilità per l’argomento che sono chiamati a trattare. Nulla di nuovo, ma fa sempre ridere pensare che la Questura di un capoluogo debba limitare a cento biglietti la vendita per un settore ospiti in una partita di quarta divisione (mi riferisco al derby con il Licata). Pensate quando verranno (quando sono?) chiamati a gestire cose più importanti e articolate…
Tornando al tifo, la performance dei padroni di casa è tutto sommato buona. Il sostegno non manca per tutta la partita e di tanto in tanto qualche fumogeno fa la propria comparsa. Cosa che non guasta mai, sebbene vengano sapientemente lasciati in terra. I cori sono quelli che bene o male si ascoltano in tutta la Penisola, ma ormai è molto difficile uscire dai binari della standardizzazione che social e iper comunicazione ci hanno imposto. Di sicuro per loro sarà importante mantenere questo assetto di curva e consolidarsi in una categoria importante e impegnativa come la Serie D. Le basi per far crescere una gran bella generazione ultras nella Valle dei Templi ci sono tutte, molto dipenderà dai fattori esterni. Molto altro dalle sorti sportive di un club che spesso non ha avuto gran feeling con la fortuna.
Nell’angoletto di stadio dove sono disposti i calabresi (a proposito, bellissimo, sembra il vecchio settore ospiti del Menti di Vicenza), sin dall’inizio è un coro a tenere banco. “Amore mio dai non essere gelosa, se amo la Reggina più di te, lo sai che bevo bevo bevo bevo, bevo, bevo perché son pazzo di te!”. Sulle note di Easy Lady di Ivana Spagna gli amaranto si divertono, riproponendolo diverse volte durante il match e facendolo diventare il vero e proprio tormentone di giornata. Per il resto, buona prova di tifo, senza mai una sosta, con tanti battimani e cori tenuti a lungo. Unico appunto, se proprio devo, è relativo al colore. Forse qualche bandiera in più non avrebbe guastato. Mentre capisco che la scarna presenza di pezze è legata all’attuale situazione che la Reggio Calabria calcistica sta passando.
In campo le due squadre impattano sull’1-1, ricevendo comunque gli applausi dei propri tifosi, che ben dopo il triplice fischio continuano incessantemente a tifare. Il sole sta andando a sparire, lasciando sull’Esseneto un cono d’ombra che, aiutato dal vento, ci fa avvertire i primi brividi della serata agrigentina. Abbiamo ancora qualche ora prima che il nostro pullman per Fontanarossa riparta, così ne approfittiamo per ascoltare le conferenze stampa e scambiare quattro chiacchiere con gli addetti ai lavori. In fondo gli istanti che seguono una partita, in queste categorie, sanno ancora profondamente di calcio genuino. Un calcio dove, peraltro, sono finiti vecchi nomi della nostra Serie A: in maglia biancazzurra, infatti, militano Morimoto e Llama, che molti ricorderanno in Serie A con la maglia del Catania.
Quando mancano trenta minuti alle 19 la nostra risalita verso Piazza Rosselli comincia. Abbiamo altre tre ore di viaggio davanti prima di salire sull’aereo per Roma. Cominciamo un po’ a trarre le conclusioni di queste due giornate, che come sempre ci hanno lasciato tutta una serie di storie e sensazioni addosso. Si cambia sempre un po’ dopo ogni viaggio. Nel bene ma anche nel male talvolta. Si cambia perché ci si rende conto, si conosce, ci si esalta e si rimane delusioni. I chilometri percorsi a piedi, le scarpe che non ce la fanno più e le gambe stanche ma soddisfatte, sono sempre una sicurezza quando si vuol uscire dal proprio guscio. Nella terra dei giganti ci siamo sentiti piccoli, minuti, rispetto a cotanta storia e anche rispetto a un Paese che anche qui cambia ed è cambiato velocemente. Per certi versi distante dal nostro modo di vedere, per altri rinfrancante. Di sicuro è un mondo che perde le peculiarità e i particolarismi, per questo conviene visitarlo quanto più e quanto prima possibile.
Testo Simone Meloni
Foto Simone Meloni e Marco Gasparri