In un calcio moderno che brucia sogni alla velocità doppia di quella con cui li genera, a tantissime società l’ultimo titolo che resta è quello della cosiddetta “nobile decaduta”. Spesso e volentieri, al pesante fardello del passato glorioso corrisponde un presente in cui non sempre le società sanno essere all’altezza delle ambizioni delle piazze.

La gara che si disputa quest’oggi allo stadio “Esseneto” di Agrigento, valida per i playoff di Serie D, è l’ultimissima spiaggia per uscire dall’anonimato del dilettantismo e rilanciare la propria storia per due di esse. La locale Akragas ci arriva senza dubbio meglio a questo appuntamento con la storia, quantomeno dal punto di vista mentale e in quanto forte del fattore campo. Più articolato il discorso per l’Arezzo, che sbarca in Sicilia dopo aver eliminato un’altra compagine di prima grandezza come il Taranto, direttamente a domicilio, ma più in generale proviene da una stagione tra troppe ombre e poche luci, in cui avrebbe dovuto vincere a mani basse, secondo i proclami di inizio stagione, ma ha chiuso con l’esonero di Mezzanotti il proprio cerchio di prove nefaste.

Prova di altissimo livello da parte della tifoseria di casa. Sarà pure una frase fatta e ormai consunta, ma gli agrigentini hanno dimostrato seriamente di essere di categorie superiori con i propri oltre 4.000 presenti ed il tifo di grandissimo spessore, sia coreografico che in termini di potenza.

Carica di significati anche la presenza aretina, composta da una buona trentina di effettivi, che si sono sobbarcati la non facile traversata dalla Toscana fino all’isola. Gli amaranto ci credono, dopo l’impresa dello “Iacovone”, ma questa volta devono capitolare di misura e dire ancora una volta addio ai sogni di rilancio.

Mentre la crudele e beffarda lotteria degli spareggi, sbatte invece la porta in faccia all’Arezzo, l’Akragas si giocherà la semifinale contro Pomigliano per continuare a sognare. Peccato per i tifosi dell’Arezzo, che quantomeno tornano a casa con la consapevolezza di aver onorato fino in fondo il proprio blasone.

Testo di Matteo Falcone.
Foto di Sebastien Louis.