Arriva finalmente la serata di gala per la Dea che, aspettando di ritornare nel proprio tempio, è attesa alla Scala del Calcio: non per una partita qualsiasi ma nientemeno che per l’esordio casalingo in Champions League.

Come molti ricorderanno, le curve di Inter e Milan si dissero contrarie a dare in prestito San Siro ai bergamaschi e l’eco di quella polemica (assurda e sterile, ad avviso di chi scrive, visto che negli anni entrambe le milanesi hanno dovuto, per scelta o per obbligo, giocare in stadi altrui) ha superato l’estate ed è giunta sino a questo martedì 1 ottobre.

Me ne accorgo subito, anche se sono da poco scoccate le 15.00 quando giungo all’ombra delle inconfondibili rampe, insieme alla prime avanguardie orobiche.  Ma qualcuno ha fatto meglio o, quantomeno, ha giocato d’anticipo: il “Baretto” sotto la Nord, infatti, pullula già di tifosi che, senza troppa fatica, l’occhio allenato capisce essere neroazzurri sì, ma di Milano. Sono più o meno una cinquantina a presidiare quel territorio che, quando gioca in casa la Beneamata, è zona off-limits per ogni avversario: esercitano in questo modo il diritto a difendere il proprio territorio, visto che per quanto riguarda gli spalti il loro malumore è rimasto inascoltato. Certo non si sono radunati solo per bere una birra in compagnia ma, per contro, nemmeno provocano o, peggio, “accarezzano la schiena” – per dirla alla Manzoni – a quei tifosi bergamaschi che, poco avvezzi a certe dinamiche, magari gli passano a pochi metri di distanza, ignorando il potenziale rischio.

Vero è che dopo non molto tempo un paio di blindati dei Carabinieri si fermano nei paraggi e giocano un ruolo di dissuasione, ma il numero dei militari è davvero esiguo, del tutto insufficiente ad arginare e dividere le due fazioni qualora fosse scoccata una scintilla.

Detto del terzo incomodo, il grosso degli ultras orobici si è dato appuntamento al parcheggio di Lampugnano e da lì si muove, quando sono circa le 16.30. È un corteo compatto ma senza troppa tensione e senza troppo rumore, giusto qualche coro quando compare l’imponente profilo del Meazza, distante ormai poche centinaia di metri. 

Il servizio d’ordine ha pianificato una gimkana tra nastri colorati e transenne, cercando di incanalare i tifosi e di restringere la loro libertà di movimento. La cosa non è affatto gradita dai neroazzurri, anche perché temono che qualcuno li obblighi ad entrare subito nello stadio. Si alza qualche voce di protesta: “Non siamo in trasferta!” e poi, senza troppa difficoltà, dai lati del corteo alcuni piccoli gruppi rompono gli argini e vanno per conto loro. Caschi in testa e scudi in mano, i blu li rincorrono, li superano e cercano di sigillare la situazione.

Ricevute rassicurazioni che una volta guadagnati i cancelli di ingresso potranno sostare all’esterno senza forzature di sorta, i Berghem si tranquillizzano, la situazione rientra nella normalità e né dall’una né dall’altra parte si passa alle maniere forti.

Nel frattempo davanti al “Baretto” il cordone di divise si è fatto ben più corposo e la situazione resta calma, con buona pace di tutti tranne, forse, di chi già sperava di fare piovere diffide a piene mani.

Si è fatta l’ora giusta per entrare: dimenticandomi le falcate di un tempo, salgo scalino dopo scalino al posto assegnatomi al secondo anello e guardo lo stadio riempirsi. 

I biglietti messi in vendita riguardano l’intero primo anello ed il secondo anello arancio. Chiuse le due curve ed il terzo anello, se ci eccettua un settore del blu dove si collocheranno in ordine sparso i tifosi dello Shakthar.

La Nord bergamasca si posiziona al primo anello verde, esponendo sulla transenna il lungo “Atalanta folle amore nostro” che, proprio per le dimensioni, perde l’ultima parola. Non mancano le pezze “Diffidati”, “Claudio Libero” e “Tifo libero”, esposte sopra lo striscione. All’estrema sinistra del settore, lato tribuna centrale, i Forever in formato trasferta.

Il sostegno vocale parte sin dal riscaldamento in campo dei calciatori e proseguirà incessante fino al termine dei primi 45 minuti. Raramente, da spettatore terzo, ho sentito un’intensità simile su questi spalti; la conferma arriva anche da un fotografo che, non nuovo a calpestare l’erba del Meazza, mi conferma che la prestazione canora è di quelle che non si dimenticano. 

Sotto un certo profilo, appare anche una mezza prova generale in vista dell’ormai imminente battesimo della nuova Curva Pisani, vista la conformazione simile delle due gradinate.

Coreograficamente, la scelta della curva è stata quella di viaggiare “leggera”, invitando piuttosto la tifoseria a portarsi bandiere e bandierine per colorare l’esordio in Champions: più che lo sventolare dei vessilli neroazzurri o lo svettare dei “due aste”, lo spettacolo più imponente è quello delle migliaia di braccia che si alzano al cielo per i battimani.

L’Atalanta parte decisa a fare la partita e vogliosa di cancellare, soprattutto dal punto di vista mentale, il pesante passivo rimediato a Zagabria: prende subito le redini del gioco ma manca spesso il perfetto sincronismo di altre partite, tanto nella manovra offensiva quanto nei movimenti difensivi. Il match sembra però mettersi bene al quarto d’ora, quando Ilicic si guadagna un calcio di rigore, salvo poi sbagliarne l’esecuzione.

Passano dieci minuti, durante i quali gli ospiti provano anche le prime incursioni in area avversaria, e poi la partita svolta: appena un minuto dopo il palo colpito da Pasalic, Zapata segna di testa raccogliendo un ottimo cross partito dalla fascia destra.

Grande esultanza sugli spalti per la prima marcatura in Champions League, tanto che ancor prima che il gioco riprenda, la notte milanese è riempita da un Despacito che coinvolge quasi tutto il pubblico.  A ruota il “Forza Atalanta Vinci per Noi” che si guadagnerà il record della serata quanto a decibel. 

Giusto godersi l’attimo ma, soprattutto in campo, si avverte un po’ di rilassamento. Così, dopo una prima avvisaglia sventata da Gollini prima che l’arbitro fischiasse l’off-side, gli ucraini impattano al 41° grazie ad una verticalizzazione micidiale che vede Palomino partire con una frazione di secondo di ritardo sull’avversario. L’1-1 è servito e poco ci manca che si vada negli spogliatoi con il risultato ribaltato: su una punizione da fuori area nei minuti di recupero sono i legni a preservare il pareggio. 

La ripresa offre ritmi più soft per i primi 10 minuti. Saprò poi che un tifoso è precipitato dal 2° anello, fortunatamente con danni relativamente meno gravi.

Gasperini propone una doppia sostituzione e prova a modificare parzialmente il modulo: qualche buona occasione arriva ma va reso merito agli ucraini di lasciare pochi varchi ai vari Zapata, Ilicic, Gomez e, da metà ripresa, Muriel. Prendono coraggio anche i sostenitori appollaiati al terzo anello che, in un paio di occasioni, trovano modo di farsi sentire con un semplice “Shaktar-Shaktar” intervallato da battimani.

Gli orobici, stabilizzati su livelli più umani di tifo, insistono con voce e mani, trovando sovente seguito anche nel primo anello blu. L’ultima sferzata è il “Bergamo-Bergamo” a tutta curva con il quale chiamano allo sforzo finale i propri beniamini: la risposta non manca ed a pochi minuti dal termine prima Malinovskiy e poi il Papu si procurano due buone occasioni. 

Ma al cospetto della generosità (o, se vogliamo, dell’ingenuità) della “banda Gasperini” c’è l’esperienza (o, se vogliamo, la furbizia) di avversari di maggiore esperienza: prima Bobat spezza il ritmo dei bergamaschi e rimane a lungo a terra per crampi. Poi, alla ripresa del gioco, con un’Atalanta sbilanciata alla ricerca del raddoppio, colpiscono in contropiede e ribaltano lo score. Ormai è il 95° e la rimonta è impossibile, mentre qualche giornalista ucraino esulta dopo il triplice fischio incrociando le braccia alla maniera degli Hammers.

San Siro regala comunque il giusto tributo alla squadra: con questa unità di intenti, anche se la classifica del girone appare compromessa, c’è da credere che nelle prossime sfide europee nessuno si accontenterà del ruolo di comparsa e si giocherà fino in fondo questo sogno chiamato Champions.

Testo di Lele Viganò.
Foto di Alberto Cornalba.