Non sarà certo mio compito parlare del turbolento post partita di questo derby campano. Ma è sicuramente doveroso sottolineare come la cronaca dei fatti venga troppo spesso mischiata al sensazionalismo, alla più spiccia morale da bar nonché a una patetica forma di avanspettacolo – composta da termini e clamori ormai preconfezionati da decenni – che riesce a coprire di ridicolo la classe giornalistica al momento in cui questa sarebbe chiamata a fare soltanto il proprio mestiere: cronaca. E la cronaca dev’esser scevra da giudizi e condanne. Per quelli ci sono magistrati e organi preposti. Oltre che Osservatori e CASMS pronti a prendere la palla al balzo e interdire lungamente accessi a settori specifici o trasferte. Comprendo quanto sia difficile da rispettare questa forma di deontologia nell’epoca dei like e dei follower e in cui tutti – ma davvero tutti – debbono dire la loro su qualunque argomento, ma così si è giunti ormai alla morte di una professione e della sua credibilità. E non certo da oggi.

Professionalità inoltre non vuol dire essere in grado di propagare nomi, targhe, foto ravvicinate e dettagli personali. Questo oggigiorno sfugge ai più, ma l’interesse e la completezza della notizia non si misurano in base ai dati sensibili spiattellati a destra e a manca o a ricostruzioni fantasiose, capziose e scopiazzate da questa e da quell’altra rivista. La cronaca non dovrebbe essere un ente morale o un’anagrafe aperta a tutti.

Avellino-Paganese non era partita da bollino rosso finora. Lo è diventata probabilmente da oggi e questo testimonia come – nel bene e nel male, piaccia o meno – il movimento ultras non muore ma si evolve. Si avvicendano le generazioni, si affievoliscono vecchie dispute e se ne accendono altre. Certo, fra le due piazze non c’è mai stata simpatia. Ma del resto sarebbe inevitabile il contrario: paganesi un tempo amici dei salernitani, avellinesi da sempre in ottimi rapporti con i nocerini. In più la poca propensione dei campani nell’ignorarsi. Insomma, gli ingredienti perché un giorno si appiccasse la miccia c’erano tutti.

Arrivo nei pressi dello stadio Partenio con il cielo che di tanto in tanto si lascia andare a qualche schizzetto di pioggia. Del resto le nuvole nere che ammantavano il cielo già in autostrada, lambendo le montagne circostanti il capoluogo irpino, non lasciavano presagire nulla di buono. In una domenica come questa ci sono ben poche cose da fare, se non comprare il biglietto e recarsi allo stadio. È la classica giornata per i tifosi incalliti oltre che un importante crocevia per le differenti ambizioni delle due squadre. A Pagani sono stati venduti 361 biglietti su disponibili, ottimo numero per una tifoseria che negli ultimi anni ha intrapreso un ottimo e palese percorso unitario. Su fronte casalingo sono circa duemila i presenti tra biglietti e abbonamenti. Un numero ovviamente non esaltante che rispecchia il pessimo periodo storico che l’Avellino sta attraversando e il suo mediocre inizio di campionato. Per il resto i numeri a cui siamo ormai abituati sono questi: il disamore verso il calcio è lapalissiano e per nulla biasimabile. Tra divieti, repressione, prezzi dei biglietti fuori ogni logica, orari improponibili e poca credibilità anche verso il suo aspetto prettamente agonistico è un miracolo che qualcuno ancora presenzi. Che il più delle volte sono proprio gli ultras, cioè quelli che molti dei cavilli burocratici pensati da ministeri e leghe avrebbero dovuto distruggere.

A tal proposito permettetemi di sogghignare di fronte alle parole di Ghirelli, presidente della Lega Pro: “Siamo pronti a chiedere i danni d’immagine per quanto successo ad Avellino”. Purtroppo l’immagine della Serie C è stata lesa e ricoperta di letame da ormai tanti anni e non certo a causa del comportamento esuberante dei tifosi. Tra fallimenti incontrollati, partite vendute, squadre che non riescono a finire il campionato, società indebitate che non si presentano alle partite, stadi fatiscenti e spesso non fruibili completamente e un’altra lunga serie di amenità, potremmo tranquillamente dire che non si possono chiedere i danni per un’immagine che da tempo immemore è morta e sepolta. Comprendo la smania di dire per forza qualcosa, ma quasi sempre il silenzio è oro.

Quando le squadre entrano in campo i paganesi stanno sistemando pezze e bandiere mentre la Sud si è già compattata nell’anello inferiore dando inizio alle danze. Quella degli avellinesi sarà una bella prova canora che si protrarrà per tutti i novanta minuti. Se i numeri non sono di certo lusinghieri il tifo è comunque compatto e degno di nota. Sugli azzurrostellati penso ci sia ben poco da dire se non che stanno vivendo un periodo di forma smagliante. Davvero ineccepibili: manate, bandieroni, cori intensi e un ordine nel disporsi che mette quasi paura: tutti dietro le pezze e nessuno davanti a guardarsi la partita senza tifare o – peggio ancora – intralciare i lanciacori. Bello vederli aumentare il volume proprio nel momento in cui la loro squadra viene travolta dagli avversari.

In campo, dopo un primo tempo equilibrato, l’Avellino dilaga nella ripresa con i gol di Di Gaudio, Tito e Gagliano. Un tris secco che conferma le ingenti difficoltà della Paganese in trasferta (anche se oggi le cinque defezioni hanno sicuramente penalizzato oltremodo la squadra di Grassadonia) e rilancia gli irpini al terzo risultato utile consecutivo.

Il post partita – una volta tanto senza la musica a coprire ogni suono – è tutto delle due tifoserie che per una decina di minuti si concedono un possente botta e risposta di insulti, seguendo la scia delle provocazioni già intercorse durante la gara. Il resto è materiale di “cronaca” a cui non presto neanche il minimo commento.

Nel frattempo ha smesso di piovere e dietro Montevergine si è fatto spazio qualche leggero raggio di sole che fatica a permeare lo strato di nuvole ancora presenti. Mi lascio lentamente alle spalle il Partenio e l’Irpinia godendomi il ritorno tra partite sentite alla radio, visione dei risultati del weekend e il più classico dei treni regionali stracolmi che da Napoli si muove lentamente alla volta della Capitale.

Simone Meloni