Il movimento ultras rappresenta fin dalla sua nascita una delle espressioni più affascinanti e controverse del tifo calcistico. Non si tratta semplicemente di tifosi estensivamente detti, ma di veri e propri gruppi organizzati capaci di trasformare lo stadio in un palcoscenico di coreografie spettacolari, cori trascinanti e, sarebbe ipocrita negarlo, a volte anche di tensioni e scontri. O meglio, era così un tempo. Ora tutto ciò sembra essere, almeno apparentemente, sopito dalla forte repressione, tra le più intense del panorama occidentale.

A tal proposito, uno dei provvedimenti più discussi legati alla sicurezza negli stadi riguarda il frequente ricorso al DIVIETO DI TRASFERTA. Dal dopo Gabriele Sandri in poi, queste misure sono diventate la normalità e io che ai tempi mi trovavo a seguire un’onesta partita di Serie C2, dove stranamente non erano presenti tifosi ospiti, ancora ignaro delle nuove misure, fu una novità spiazzante ma purtroppo, documentandomi, capii subito che quelle sarebbero state le nuove meschine strategie del futuro.

Ed eccoci qui, a quasi vent’anni di distanza (come passa il tempo!) che quelle pessimistiche previsioni si sono rivelate tutte maledettamente esatte. In teoria si tratta di una misura preventiva, così ci dicono, come in un certo senso quando parlano di missioni di pace, quando vanno in guerra: vietare la presenza degli ultras in trasferta per evitare possibili incidenti tra le tifoserie avversarie è, alla fine, lo stesso artificio linguistico per arrampicarsi sugli specchi. È come prevenire gli incidenti sul lavoro vietando di lavorare o gli incidenti in autostrada chiudendo le autostrade. Nella pratica, numerose sono le critiche che andrebbero mosse a queste misure, soprattutto per il loro impatto sulla libertà di movimento costituzionalmente garantita a tutti, mentre più nello specifico si potrebbe definire devastante la ricaduta sull’identità e la sopravvivenza stessa del tifo organizzato.

Per molti tifosi e ultras la partita, ancor più se in trasferta, è il cuore della propria passione, la sua dimostrazione più alta e vera: attraversare il paese per sostenere la squadra, spesso con sacrifici economici e personali, è un gesto che va oltre la semplice adesione del consumatore allo spettacolo sportivo. È un rito, un legame profondo con i colori e la comunità. VIETARE sistematicamente le trasferte significa quindi colpire uno degli aspetti più simbolici e vitali del tifo. VIETARE e chiudere parzialmente o totalmente uno stadio, significa colpire il calcio al cuore. VIETARE a una persona di passare una giornata spensierata, al di fuori delle problematiche quotidiane, coltivare le passioni che sono il fulcro della vita, è un attentato indiretto alla vita nella sua essenza primordiale, alla pulsione alla felicità. VIETARE una trasferta in uno stadio da 58.000 posti, fuori città e senza particolari criticità non ha in definitiva nessun senso. E non c’è rivalità o altra ragione superiore che tenga.

È anche legittimo chiedersi se questi divieti siano davvero efficaci nel contrastare la violenza. In tanti casi sembrano solo spostare i problemi altrove, senza affrontare le cause profonde degli stessi: repressione, mancanza di dialogo e un clima generale di sospetto verso chi vive lo stadio in maniera intensa. Molti ultras rivendicano la loro identità come movimento sociale, con valori di solidarietà, territorialità e resistenza a un calcio sempre più commerciale e distante dai tifosi. Non si troverà probabilmente mai una soluzione. Perché nessuno ha interesse a trovarla e a molti va bene così. Chi ne sta pagando le conseguenze, alla fine non sono soltanto gli ultras ma tutti i tifosi, che molto spesso non vanno a vedere una partita di calcio, ma a vivere un clima di guerra dove al minimo sbaglio arriva il salatissimo conto da pagare. Gli unici a non pagar mai sono quelli che, a monte, con il loro approccio retrogrado sono quanto meno concausa di tutto ciò.

Massimo D’Innocenzi