La notizia è rimbalzata all’impazzata fin dai momenti successivi alla sentenza, ieri pomeriggio, e non poteva essere altrimenti. È una vittoria a suo modo storica, un po’ come il corrispettivo della qualificazione in Europa per l’Atalanta degli Ultras. E non solo: più ampiamente può considerarsi una vittoria dell’intero mondo ultras.

Non è enfasi retorica e non vuole essere apologia di quella violenza contestata in sede dibattimentale, come l’opinione pubblica più facilona potrebbe o vorrebbe far credere. Ma andiamo con ordine e ripartiamo dall’inizio: il processo inquadrava una serie di episodi avvenuti nell’arco temporale fra il 2006 e il 2010 in cui si verificarono alcuni incidenti passati al vaglio degli inquirenti, da quelli famosi per l’inchino ai catanesi citati anche dalla PM Carmen Pugliese, passando per gli scontri con gli interisti, le contestazioni a Zingonia nei confronti dei Ruggeri, finendo con quelli della Berghem Fest per contestare Maroni e la sua tessera del tifoso.

L’accusa ha chiesto condanne di 6 anni e 4 mesi per il Bocia e di 3 anni e 8 mesi per gli altri quattro. Per un sesto imputato è stata chiesta l’assoluzione già dalla PM in quanto la sua implicazione, daspo compreso, si è rivelata del tutto infondata nel corso del processo. Il reato contestato, ed è questo il nodo cruciale attorno al quale s’è tanto parlato, giuridicamente e giornalisticamente, è di “associazione a delinquere”. Cioè eventi del tutto scollegati nello spazio e nel tempo, in cui spesso non c’erano nemmeno gli stessi attori, sono stati messi insieme in maniera un po’ coatta per imbastire un castello di accuse davvero notevole ma dalle fondamenta di carta.

«Si tratta di un’associazione armata, perché sassi, bastoni e mazze sono armi. E, dunque, va contestata l’aggravante del quarto comma dell’articolo 416 (cioè l’associazione a delinquere)» ha sostenuto la PM. Per gli avvocati della difesa invece. Andrea Pezzotta, Enrico Pelillo, Federico Riva e Giovanni Adami, gli imputati erano da considerarsi «concorrenti ma non associati». Gli avvocati del Bocia si sono spinti fino ad ammettere che «i reati sono stati commessi, ma non vuol dire che abbiano un denominatore comune». Pretendere che la comune identificazione in una tifoseria sia la riprova dell’organicità e della programmaticità delle azioni criminose è stata una scelta avventata e del tutto sbagliata, a giudicare dalla sentenza emessa: lo stesso avvocato Pelillo aveva definito inesistenti le prove di un disegno criminoso comune, ironizzando su questa teoria dicendo che, su queste basi labili, persino lui che frequenta lo stadio è imputabile di associazione a delinquere. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Adami e Riva che hanno parlato di «un’inchiesta basata sul nulla e facendo passare per associati dei reati invece fini a se stessi».

Assoluzione con formula piena: il reato non sussiste. In questi termini s’è pronunciato il giudice Giovanni Petillo, dopo un’ora di Camera di Consiglio. Da qui la riflessione si dovrebbe fare più ampia e magari investire anche l’altro tormentone che in questi giorni, e da un po’ di tempo a questa parte, sta riguardando ancora una volta il mondo del tifo. In Commissione Antimafia infatti, presieduta da Rosy Bindi, nota esperta del mondo del calcio e del suo indotto, hanno sfilato vari esponenti delle società calcistiche, tutti di altissima levatura morale come il presidente del Genoa Preziosi, Lotito della Lazio, De Laurentiis del Napoli e Tavecchio della FIGC.  Argomento all’ordine del giorno, le infiltrazioni mafiose nei campi di calcio.

Il problema c’è, non lo si può negare o minimizzare. Il caso Juventus lo ha dimostrato ed è oltretutto elementare che seguendo i soldi, come diceva un mio omonimo molto più accreditato, si trovi inevitabilmente la mafia a fiutarne le tracce. È di conseguenza normale che in una “azienda” con un giro di denaro come quella calcistica, ci possano essere margini attrattivi per mafie di diverso tipo.

È altrettanto innegabile che all’interno delle tifoserie (o di determinata parte di esse, per essere più precisi) si possano annidare soggetti in odore di mafia (come tra l’altro ce ne sono anche nelle dirigenze calcistiche e nelle istituzioni politiche così brave a far lezioni di morale). Restano da tracciare nettamente i confini e capire bene quante e quali delle loro azioni avvengano in “associazione” con altri tifosi o presunti tali, quante e quali invece siano ascrivibili a contesti del tutto estranei allo stadio, fin dove il resto della tifoseria è connivente, fin dove invece vittima e fin dove del tutto estranea. E a tracciarlo devono essere (permettete la licenza poetica) gli “sbirri” di professione: pretendere la delazione interna da un mondo estraneo a questo discutibile metodo di affermazione della legalità è a dir poco assurdo, anche se non far la spia presta poi il fianco alla strumentalizzazione vomitevole di chi in quella data Commissione è andato a recitare il ruolo dell’anima bella, dando una mano di vernice al loro personale sepolcro dell’ipocrisia. Così in un colpo solo ne sono usciti come vittime, quando spesso sono stati i primi carnefici del calcio in senso lato, e poi si sono scrollati anche l’incombenza di affrontare direttamente un problema, quello della mafia, che riguarda essenzialmente le società e solo in seconda battuta e in misura di gran lunga inferiore le curve.

Pacifico poi, infine, che se si parla di ultras in senso ortodosso, queste pratiche e questi soggetti non sarebbero nemmeno qualificabili come tali, mentre se parliamo di mera statistica, tutto si risolve ad una minoranza di persone, in una minoranza di curve (pur di una certa importanza in termini di blasone, anche se più per meriti della loro compagine o dei loro predecessori che per meriti propri).

Le parole sono molto importanti e spesso pesanti al punto da far male: le cose vanno chiamate con il loro nome, come per esempio l’associazione mafiosa che non può essere tale se non c’è (e non c’è!) partecipazione diffusa della tifoseria che realizza in blocco spaccio e altri malaffari come se stesse realizzando una coreografia.

Discorso analogo per l’associazione a delinquere che non può esistere se non c’è programmazione, continua nello spazio e nel tempo e nelle persone coinvolte. La violenza allo stadio è spesso fine a sé stessa, è l’acme (magari anche insano per chi non lo condivide) di una passione, è spesso assolutamente simbolica e non reale (come comprovati studi sociologici dimostrano, al contrario delle chiacchiere da bar dei giornalisti sportivi) e in ragione di questo si manifesta in maniera epidermica, disordinata, con il necessario concorso di cause esterne (eccessi di forza o lacune nell’espletamento del servizio d’ordine che mettono a contatto tifoserie rivali).

È dai tempi del processo alle Brigate di Verona che ci provano con questo assurdo tentativo di far passare il concetto di associazione a delinquere applicato al tifo, spesso cavillando con speculazioni filosofiche a tratti grottesche, quando più banalmente dovrebbero focalizzare i loro processi su violenza aggravata, lesioni personali, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale o reati di tale risma. Forse meno roboanti, forse non utili a stabilire precedenti giuridici su cui innestare ulteriori giri di vite e cacce alle streghe.

Chi si rende colpevole per una rissa allo stadio, come in discoteca, come ovunque, dovrebbe pagare strettamente per quella. E la localizzazione specifica del fatto o l’appartenenza ad una categoria non può essere una pregiudiziale. Le parole sono importanti e le cose vanno chiamate con il loro nome. Ognuno dovrebbe pagare poi per le proprie colpe, ma mai nessuno dovrebbe essere usato come cavia giuridica e pagare per qualcosa che non ha compiuto o più di quel che ha compiuto.

Matteo Falcone.