Il contrasto del turchese e dell’azzurro che compongono il mare di Tangeri sembra improvvisamente essere inghiottito da una fitta nebbia che, lentamente, si appropria della costa marocchina provenendo dalla dirimpettaia Spagna. Pare che qualcuno abbia soffiato questo fumo denso da Tarifa o da Algeciras, con il chiaro intento di rendere giustizia a quella storia che narra di navi e pirati scomparsi poco dopo le Bocche d’Ercole. Donne con il tradizionale hijab (il velo islamico che copre testa e spalle) e uomini impegnati a correre sul lungomare mi vengono incontro, mentre con gli occhi incollati sulla costa mi avvio verso la medina, centro mercantile della città.

Sono passate quarantotto ore dal fischio finale di Betis-Roma e la mia trasferta non è ancora finita. Fare scalo in Marocco non è stato solo un modo per risparmiare in maniera consistente, ma mi ha anche dato l’opportunità di metter piede in un luogo così vicino geograficamente ma così lontano dalla nostra quotidianità. Fare il bagno nell’Oceano Atlantico in pieno ottobre, nelle sue acque fredde e cristalline, è un modo per depurarsi momentaneamente dalla superficialità con cui noi europei vediamo e viviamo il nostro territorio. E per affogare tutta una masnada di pregiudizi figli di un colonialismo mai mentalmente morto, con cui senza renderci conto ci beiamo di tanto in tanto. Declassando a “terzo mondo” tutto quello che abbiamo in precedenza schiavizzato, oppresso e rovinato. E che oggi vogliamo ancora controllare e manipolare.

Ci penso profondamente in questo luogo di frontiera. Tangeri è un crocevia di genti, lingue e culture, di trafficanti e di speranze. Di poveracci e ricchi da far schifo, che qua provano a investire i loro averi. Mentre ai bordi della strada che porta all’aeroporto un’orda di ragazzini si diletta dietro a un pallone, in mezzo alle macerie della periferia che sembra assumere contorni drammatici. Ben diversi dallo splendore pittoresco della medina e della kasbah, dove solo un fesso può provare disagio anziché entusiasmarsi per l’onda di umanità che arriva da botteghe e vicoli che assumono il blu come colore predominante, riflettendo il mare e restituendo un’idea di immensità. Impossibile restare indifferenti nel cuore del suk, dove uomini, donne e una miriade di gatti lavorano in maniera certosina carne, pesce e frutta.

Dev’essere innanzitutto per ciò che ho scelto questo arzigogolato itinerario. Forse ancor prima del risparmio ho dato precedenza all’introspezione, e alla voglia di vedere con i miei occhi un qualcosa di nuovo e diverso. Ma anche un qualcosa con cui la mia civiltà è profondamente legata. E anche se può sembrare incredibile che tutto giri attorno a una “semplice” partita di calcio, è in realtà naturale per il sottoscritto. Magari può apparire una soluzione da disperato, o peggio ancora da perditempo che dovrebbe dedicarsi ad altro. Ma quando la sola idea di affrontare alcuni giorni lontano da casa, disperso su aerei, spiagge, città e gradinate, ti comunica tanto entusiasmo e tanta voglia di vivere…perché rinunciarvi?

E allora quando la parola “booked” appare sul mio dispositivo mobile non posso che gioire. Roma-Tangeri-Malaga-Siviglia all’andata. Siviglia-Tangeri-Roma al ritorno. Pochi Euro regalati a Ryanair, tanto in cambio sul piano umano e delle esperienze.

Malaga prima e Siviglia poi fungono da perfetto specchio alla mia tappa marocchina. Città eleganti, vive, marchi di fabbrica per quell’Andalucia arabeggiante, che persino nelle sue cattedrali e nelle sue chiese sembra riverberare il solleone d’Africa. Che non a caso in questo lembo di Europa ancora regala temperature ben oltre i trenta gradi. Quando dalla spassosa spiaggia de La Malagueta mi dirigo verso la stazione dei pullman e salgo sul mio torpedone per Siviglia non posso fare a meno di imbattermi in tre signore inglesi di mezza età, che sembrano saper vivere il gusto dell’attimo, mettendosi in fondo al pullman e non smettendo un solo istante di parlare. Nel frattempo l’autostrada si inoltra tra le collinette desertiche, bruciate dal sole e in cui l’uomo non ha esagerato con la sua urbanizzazione. Un paio d’ore e sono a destinazione.

Con le maniche corte d’uopo e la consapevolezza di sudare più che nel mese di agosto, conquisto dapprima la strada per il mio ostello e poi mi involo a piedi verso il Benito Villamarin, nientepopodimeno che la casa del Betis Siviglia. Gli oltre quattro chilometri a piedi danno l’opportunità di passare proprio nel cuore della città. Non scopro certo io la sua bellezza e non è un caso che sia una delle più visitate del Paese. E questa è l’unica cosa che non mi fa impazzire, rendendola giocoforza presa d’assalto dal turista medio. Da tempo sono ormai diventato oltranzista sull’argomento, quindi ho dovuto fare training autogeno sapendo dove mi stavo recando.

Il Guadalquivir scorre imponente, dividendo in due la città: da una parte il centro storico, con la sua cattedrale di Santa Maria de la Sede, le sue viuzze, l’Alcazar, la Torre della Giralda e la magnifica Plaza de España (che con la sua posizione punta idealmente alla strada che porta in America e nelle sue raffigurazioni celebra tutte le 48 province spagnole) a fare da contraltare all’altra sponda del fiume, dove sorge la Triana, il quartiere gitano. Forse più autentico perché meno turistico e un tempo centro di produzione delle azulejas, bellissime piastrelle di ceramica colorate che ornano gran parte della città. Ma Siviglia è anche cibo e vino in quantità industriali, all’interno dei suoi localetti che sfornano tapas a ogni ora, accompagnate da vino e sangria. Peraltro il tutto a prezzi modici e per una qualità più che discreta, cose che ormai in Italia abbiamo dimenticato da tempo immemore!

Ma il Guadalquivir assume un valore simbolico fondamentale anche nel racconto di questa partita. Betis (Baetis a essere precisi), infatti, era il nome con cui i romani chiamavano il fiume e con cui nel 1907 venne fondata l’omonima squadra di calcio (Real Betis Balompié per esteso), che oggi ospiterà la Roma per la quarta giornata di Europa League.

Quarta città di Spagna e centro più importante d’Andalucia, Siviglia negli ultimi venti anni ha conosciuto la ribalta calcistica grazie all’altro club cittadino, il Sevilla FC, in grado di conquistare ben sei Europa League e diverse Coppe del Re. Uno spazio temporale in cui invece, il Betis, ha “assaggiato” più di una retrocessione in Segunda Division e che ha sicuramente forgiato diverse generazioni di nuovi tifosi biancorossi. Sebbene per numero di seguaci i Béticos rappresentino tutt’oggi la quarta tifoseria del Paese, con il quarto stadio per grandezza (60.720).

In origine Municipal de Heliópolis, il Benito Villamarin (intitolato allo storico presidente che guidò il club negli anni cinquanta e sessanta) si presenta come un classico stadio spagnolo. C’è un filo conduttore che lega tifosi, stadi e modo di intendere il calcio da queste parti: il forte parallelismo con la corrida. La conformazione degli impianti, infatti, rimanda vagamente alle classiche Plazas des Toros e il modo con cui si fa il tifo in determinati momenti appare più riferirsi ai movimenti del toro anziché a quelli dei giocatori. Basti pensare agli “olè” dispensati anche sul vantaggio striminzito o alle esultanze in caso di sombreri o palleggi funambolici. Non mi fa impazzire come modus vivendi, lo dico onestamente, ma è innegabile che contribuisca a creare un ambiente tutto loro.

A prescindere da ciò, devo dire che ho sempre guardato con un certo scetticismo al movimento ultras spagnolo. Come accennato nel resoconto della partita disputata all’Olimpico, in terra iberica il mondo curvaiolo non è mai riuscito a radicarsi in maniera capillare e forte. È vero, esistono realtà di tutto rispetto, ma complessivamente parliamo di gruppi che spesso e volentieri “bucano” le trasferte (e la scusa delle enormi distanze spagnole direi che è ormai accantonabile) e hanno una maniera di approcciare allo stadio molto rudimentale. Di concerto non va mai dimenticato l’atteggiamento che Policia Nacional e Guardia Civil hanno a queste latitudini: senza dubbio la forza pubblica meno accondiscendente e più violenta d’Europa. A farne le spese sono puntualmente le varie tifoserie che si avvicendano nei settori ospiti. Difficile da dimenticare – in tal senso – una trasferta romanista di qualche anno fa al Mestalla di Valencia, finita con varie teste spaccate per questioni di lana caprina. Ma gli esempi sarebbero tanti e vari. E non solo in ambito stadio.

Pertanto il solito teatrino indegno della polizia iberica, andato in onda oggi, è persino da considerarsi morigerato. Dopo aver concentrato il tifo organizzato romanista a diversi chilometri dallo stadio, si è ritenuto opportuno non mettere a disposizione autobus o mezzi alternativi, costringendo i presenti a un’ora di camminata sotto il cocente sole pomeridiano. Risultato: diversa gente costretta a fermarsi, rischiando seriamente qualche malore e atteggiamenti provocatori da parte degli agenti verso chi provava a uscire dal serpentone. Ciliegina sulla torta, in un settore contenente almeno quattromila persone, gli ultras sono stati stipati in un angoletto non comunicante col resto dei romanisti e sorvegliati a vista da decine di poliziotti. Il tutto senza che fosse successo qualcosa per giustificare un simile comportamento. Ma è la Spagna, as usual!

Quando arrivo nei pressi dello stadio decido di fare un giretto attorno al suo perimetro, giusto per capire che aria tiri. Apparentemente di ultras non ci sono tracce. Né scritte, né volantini, ma soprattutto nessun ritrovo. Siviglia può “vantare” due delle curve più navigate del Paese, con i Biris Norte su sponda biancorossa e i Gol Sur su fronte biancoverde a recitare il ruolo di tifoserie tra le più calde e organizzate della Nazione. Una rivalità che peraltro si articola anche su posizione politiche diametralmente opposte. Eppure anche qui riesco a capire ben poco su quanto e come gli ultras siano radicati in città. Quello che invece mi impressiona è la “dotazione” degli steward: manganello e manette. E modi poco amichevoli.

Non che una volta entrato allo stadio i miei dubbi vengano fugati: come da costume spagnolo l’impianto si riempirà solo a pochi minuti dal fischio d’inizio e nella zona occupata dagli ultras di casa non campeggia alcuno striscione o insegna minimamente riconducibile a essi. E così rimarrà per tutta la serata, fatta eccezione per il drappo 1907 mostrato di tanto in tanto. Non sapendo come funziona la regolamentazione sull’ingresso del materiale mi astengo dal dare giudizi, non mi sorprenderebbe se fosse tutt’altro che semplice introdurre anche un semplice stendardo.

Del resto nel settore ospiti – ovviamente direi – l’accesso degli striscioni non è affatto tranquillo. Con discussioni e problemi creati dai sempre ottusi agenti spagnoli. Un modo di fare che tradisce una formazione evidentemente arcaica e poco modellata alle diverse situazioni da affrontare. Se spesso e volentieri mi sono trovato a criticare l’operato della polizia italiana, va detto il confronto con i locali non regge. Da queste parti risulta problematico anche domandare un’informazione agli ineffabili agenti. La reazione è solo un continuativo “no, no, no”. Viva il dialogo!

Quando il direttore di gara dà l’avvio alle ostilità, le due tifoserie cominciano il confronto. Complessivamente l’ambiente dello stadio è rumoroso, molto partecipativo. Benché il pubblico non sembri prettamente legato ai cori coordinati dalla curva. Peraltro oltre al tamburo non noto presenza di megafoni o amplificatori. Un paio di ragazzi si occupano di far cantare i presenti. Pure là, bisognerebbe capire come funzionano le cose. Sicuramente apprezzabile il fatto che tutti i sessantamila indossino la maglia del Betis, dando un tocco di colore davvero importante!

La performance romanista è ovviamente influenzata dalla posizione infelice cui sono confinati gli ultras. La Sud formato trasferta prova comunque sia a coordinare tutti i presenti, in un settore che oltre a essere grande è dispersivo e lontano dal campo. In linea con tutti i settori ospiti spagnoli, che oserei descrivere veramente come “sgradevoli”. Fatto sta che i romanisti si mettono in mostra con numerose manate e un coro a rispondere che per qualche secondo ammutolisce il chiassoso pubblico verderones.

In campo le due squadre si aggiudicano un punto a testa in virtù dell’1-1 maturato con i gol di Canales e Belotti. Un risultato che praticamente consegna la qualificazione al Betis, mentre per la Roma ci sarà da soffrire (e vincere le ultime due gare) per accedere al turno successivo. Da segnalare i diversi cori astiosi indirizzati dai supporter capitolini nei confronti di un pubblico di casa che sembra recepirli in maniera alquanto inerme. Stranezza tutta sivigliana, evidentemente, dopo il baldanzoso atteggiamento di sfida dell’andata.

All’uscita il pubblico sfolla veloce e stavolta la polizia spagnola non si prodiga in nessuna “finezza”, lasciando defluire i romanisti abbastanza velocemente.

Per me ci sono altri quattro chilometri a piedi da fare. E un giorno di riposo in città prima del ritorno via Tangeri. Il calcio e il tifo spagnolo m lasciano sempre quella sensazione agrodolce in bocca. Un perenne “vorrei ma non posso” che non lascia spazio a lunghe considerazioni su come – fatta eccezione per l’Inghilterra, che è un caso a parte – tra i grandi campionati, quello ispanico è sicuramente il meno accattivante da un punto di vista ultras. E anche oggi il volersi confrontare con le tifoserie italiane appare alquanto azzardato.

Di nuovo dall’altra parte del mare, di nuovo con la possibilità di osservare in maniera interrogativa l’Europa. Le mie ultime considerazioni sono in terra di Marocco. Da un balcone che affaccia sull’Oceano, all’ingresso della kasbah. Il vento comincia a soffiare e porta via rumori e sensazioni. Lasciando soave il sapore del viaggio. È ora di tornare definitivamente in aeroporto.

Simone Meloni

TANGERI