Che non sarebbe stata una trasferta agevole lo si sapeva già dallo scorso ottobre, quando circa quattrocento romanisti sbarcarono per la prima volta a Bodo in occasione del match disputato contro i norvegesi per la fase a gironi. Non la trasferta più a nord per la tifoseria giallorossa (il record spetta a chi presenziò a Tromso nel 2005/2006, per l’allora Coppa Uefa) ma sicuramente una delle più ardue da un punto di vista logistico ed economico.

Cominciamo infatti con il dire che anche nell’era delle lowcost e di posti sperduti divenuti accessibili grazie al crollo dei prezzi negli spostamenti aerei, oltrepassare il Circolo Polare Artico rischia ancora di trasformarsi in un bagno di sangue per il portafoglio. In tal senso il prezzo minimo per un’andata e ritorno completamente in aereo non scendeva sotto i 500 Euro. Facendo ovviamente diversi scali e dovendo giocoforza disporre di tempo libero, ferie e permessi al lavoro. Ultimo ma non meno importante, parliamo di zone in cui il costo della vita per noi italiani è del tutto inaffrontabile.

Dopo essermi crogiolato per qualche giorno davanti ai più disparati siti di compagnie aeree ed aver ipotizzato gli scali più improbabili, partorisco il mio personale capolavoro: doppio scalo sull’itinerario Roma-Cracovia-Oslo-Bodo all’andata e al ritorno treno fino a Goteborg (23 ore di viaggio, di cui buona parte sulle costa norvegese, potendo ammirare i fiordi e il paesaggio polare che ancora si preserva in questo periodo) e doppio scalo (prima a Danzica e poi a Cracovia) per tornare a casa. Questo itinerario cervellotico non solo mi ha permesso di risparmiare una cospicua somma, ma soprattutto mi ha dato l’opportunità di vedere meglio con i miei occhi posti e paesaggi che meritano a prescindere almeno una visita nella propria vita.

Se la domanda che vi state ponendo è su come ho fatto, però, a non farmi salassare su cibo e pernotto…beh, dico che oggigiorno se si vuole quasi tutto è possibile. Basta sapersi organizzare, cercare approfonditamente su internet e agire con una mentalità para militare quando si visitano determinate parti di Mondo. E vi assicuro che non mi è mancato nulla. Forse per qualche mese avrò solo il rifiuto per salmone e aringhe, ma ci sta!

Il fatto di affrontare un viaggio così lungo in solitaria mi rinfranca. Sembrerà masochista ma la difficoltà nel far coincidere tutti gli scali e le varie tappe mi dà un’ulteriore motivazione. Un po’ come se fosse una sfida, rappresentata dalla macchina organizzativa da me stesso approntata.

Quando l’ultimo aereo (quello che da Oslo mi porta a destinazione) sorvola il nord della Norvegia rimango incantato nel vedere dall’alto la frastagliata costa di questo lembo scandinavo, le tante isolette imbiancate dal ghiaccio e un timido sole che tenta di scaldarle. Il silenzio regna incredibile nell’aereo e come un fulmine mi tornano alla mente le lezioni di mitologia norrena, alle scuole medie. Quel mondo strano e dalle sfumature pagane che sembrava aprirsi davanti ai nostri occhi. Con il dio Thor che tanto aveva fatto breccia nel mio cuore. Thor, il fulmine. Uno strano connubio con l’aspetto calcistico del mio viaggio, dato che il suffisso Glimt significa proprio “fulmine”.

Quando fai un viaggio grande, diverso dal solito, pensi sempre che nulla sarà in grado di superarlo. E invece poi arriva sempre il momento in cui finisci per declassarlo in luogo della novità, in luogo della grandezza di ciò che ti si apre davanti agli occhi. Un po’ come tutte quelle isolette che lentamente si avvicinano, mentre l’aereo atterra – tutt’altro che dolcemente – sulla pista dell’aeroporto. Uno scalo aereo minuscolo, a pochi passi dal centro cittadino. Il primo segnale di un mondo molto diverso dal nostro. Di cui si percepisce la cordialità e la totale assenza di frenesia nelle persone che per strada ti sorridono, senza motivo e senza vena ironica. Semplicemente per darti il benvenuto intuendo il tuo essere forestiero.

La libertà di poter viaggiare, conoscere e fare esperienze lontane da casa è un qualcosa che non baratterei con nulla. È ciò che mi tiene in vita e che alimenta la fiammella della mia quotidianità. Me ne accorgo ogni volta che torno a casa, quando la mia mente è ancora sintonizzata su tutto ciò che ho vissuto. E attenzione, non parlo solo di avventure come questa, ma anche di “viaggetti” a poche centinaia di chilometri da me.

La neve che per giorni ha ricoperto la contea di Nordland (di cui Bodo è capoluogo) è ben disposta ai bordi delle strade, mentre per questi giorni il meteo si è ricordato della primavera entrante, regalandomi discreti raggi di sole e temperature che si aggirano tra i -5 e i 3 gradi. Assolutamente sostenibili se ben coperti, nulla a che vedere con il freddo martoriante che si può avvertire dove è l’umidità a farla da padrona. C’è poca gente in giro e dopo aver posato il mio bagaglio nella stanza presa in affitto mi concedo un bel tour, terminando la passeggiata sul pontile che affaccia proprio nella baia del porto. Dove ironicamente campeggia su un muretto la scritta “Forza Bodo Glimt”.

Sebbene non ci troviamo proprio all’estremo nord del Paese, da queste parti da dicembre a gennaio il sole non sorge mai, mentre tra maggio e luglio si può osservare il fenomeno del sole di mezzanotte, con il suddetto che non si spegne mai oltre l’orizzonte. In questo periodo le giornate hanno ripreso ad allungarsi sontuosamente, basti pensare che alle 21 in cielo c’è ancora luce e che l’alba è visibile già poco dopo le 5 del mattino. Non è un caso, infatti, che l’indomani decida di alzarmi presto e concedermi una lunga (lunghissima, a fine giornata il contapassi registrerà quasi 42 km) camminata fino a Lopshavn, piccolo porticciolo a 8km dalla città, raggiungibile con una lunga pista ciclabile/pedonale che offre vedute e scorci mozzafiato sul mare e sul suo contrasto con colline e cime ampiamente innevate. Un borghetto di case in cui trovano luogo famiglie di pescatori, del resto siamo in un’area che tra le più importanti per la pesca delle aringhe.

Per comprendere appieno la vocazione agricola del luogo basti pensare che l’attuale Bodo prende il nome dall’antica fattoria Bodøgård, da cui poi successivamente si è sviluppato il centro abitato, riconosciuto città a metà ottocento, con l’obiettivo di creare un centro alternativo a Bergen nel commercio del pesce. Il nome di Bodo, nel secolo scorso, è salito agli onori delle cronache per i bombardamenti della Luftwaffe che la rasero al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale e per l’aereo militare statunitense proveniente dal Pakistan abbattuto dall’Unione Sovietica nel 1960.

Ma ovviamente chi oggi viene da queste parti – salvo i malati mentali che lo fanno anche per il calcio – lo fa per tutto il contorno naturalistico e per la consapevolezza di trovarsi in una zona subpolare, con tutte le sue diversità e il suo fascino ancestrale. Chi ama gli estremi, i confini, i cambiamenti e ciò che questi ti lasciano, non può far a meno di scolpire nel cuore anche pochi giorni a queste latitudini. E una mente ampia e curiosa sa trovare appigli e nuove storie (oltre che piacere) in ogni zona del Pianeta Terra. Se poco popolata e in mano a Madre Natura, ovviamente, tanto di guadagnato.

Non voglio tirarla troppo per le lunghe, tramutando un semplice racconto in un diario di viaggio, ma il bello di queste occasioni è proprio accomunare due grandi passioni, farle sposare, e fonderle poi nell’ambito narrativo.

Quando torno in città comincio a notare le prime sciarpe giallorosse. Il grosso dei 350 supporter romanisti è giunto in charter, unica soluzione possibile per ottimizzare tempi e costi. La curiosità è che quando mi accorgo del loro arrivo mi trovo proprio di fronte a una bancarella che vende salame di orso, fegato di alce e l’immancabile salmone affumicato. Questo “contrasto” tra italiani intenti a capire come muoversi e il contadino norvegese impegnato a “spacciare” le sue leccornie mi crea non poco divertimento, soprattutto pensando alla faccia che molto probabilmente miei connazionali faranno quando si renderanno conto della mercanzia esposta. Non ho mai capito perché ci scandalizziamo tanto per alcune pietanze quando da noi è la norma divorare con gusto coratella, pajata e cervello fritto (e che nessuno ce li tocchi!).

Qualche folata di vento spiffera di tanto in tanto, rendendo assolutamente necessario il mio orribile ma efficace cappello alla peruviana. Ce l’ho dal 2004, anno in cui con la scuola andammo in gita a Praga. Me ne compiaccio ogni volta che lo indosso. La sua bruttezza è conclamata, però coincide in genere con viaggi “strani” e lontani. Proprio come questo. Lo metto pure per avviarmi verso lo stadio, quando il sole comincia un po’ a calare e per le strade di Bodo si intensificano anche sciarpe e cappelli gialloneri.

Il Glimt è ovviamente un’istituzione da queste parti e i recenti successi ne hanno accresciuto la fama, tanto che molti tifosi arrivano anche da fuori contea. Lo stadio Aspmyra è alquanto particolare: una piccola bomboniera da 8.000 posti (oggi sold-out) che all’interno di una delle proprie tribune annovera una scuola, un supermercato e abitazioni private. Non so neanche se definirlo un impianto moderno o uno stadio più simile a molti campi della nostra provincia con l’aggiunta di alcune migliorie e particolarità. Di certo i suoi ingressi in legno, le persone che si affacciano dalle finestre di casa durante la partita e un’anima davvero simil paesana mi restituiscono una bella sensazione. Non è il classico impianto senza un’anima e volto solo al profitto commerciale.

Del resto siamo in Norvegia e per quanto il calcio abbia un ottimo seguito resta sempre di un livello semi-amatoriale al di sotto dei club più blasonati (che poi storicamente sono quelli di Oslo e il Rosenborg di Trondheim). Pertanto gli impianti sono, sì, ben curati e vivibili, ma non certo a livello di altri Paesi nordici come Inghilterra e Germania.

Da queste parti – buon per loro – di mascherine e restrizioni ne hanno sempre sentito parlare poco. Non a caso nella mia permanenza norvegese ho potuto riporre la mia ffp2 per riprenderla solo al momento del ritorno in Italia. Della loro assenza di fobia in tema Covid me ne accorgo al momento dell’ingresso allo stadio, quando un’organizzazione a dire il vero alquanto discutibile lascia ammassare decine di persone su una scala, in attesa di entrare sulla tribuna. Se sulla loro rispettabile impavidità in fatto di virus mi viene da scherzare, al contempo lo stesso non si può dire sul reale pericolo che certe situazioni possono creare. In molti pensano che in queste zone d’Europa tutto sia perfettamente funzionante e se da una parte lo è, dall’altra è palese come siano poco abituati ad eventi di simile portata. Non è la prima volta che vedo ammassarsi pericolosamente e lungamente tifosi all’ingresso di stadi posti a nord del nostro continente.

Vale la pena raccontare brevemente la storia di questo club, uno dei tre della Norvegia Settentrionale (assieme a Tromso e Mjolner di Narvik) a prendere parte al massimo torneo nazionale (l’Eliteserien) e l’unico ad averne vinte ben due edizioni (nel 2020 e nel 2021). Due successi a dir poco storici in un contesto calcistico dove – soprattutto a partire dagli anni ’90 – il Rosenborg è stato sempre il vero e proprio padrone (26 titoli conseguiti su 57 campionati disputati) e in cui per le squadre poste al di sopra del Circolo Polare Artico è sempre più difficile primeggiare.

Il Bodo è capitato sulla strada di squadre italiane già tre volte in passato, fronteggiando Napoli, Inter e Milan, e venendo eliminato in tutti i casi.

Tante polemiche in casa Roma ha creato la conformazione del campo dello stadio Aspmyra, totalmente in erba sintetica. Se da una parte è senza dubbio vero che in una competizione europea tutti dovrebbero giocare sulla stessa tipologia di campo (la differenza tra erba naturale e sintetico c’è ed è sostanziale) è anche vero che mantenere un terreno di gioco naturale a queste latitudini non è affatto opera facile, oltre che perennemente rischioso per gli atleti. Sarebbe sufficiente andare a vedere alcune immagini delle partite disputate in passato dal Bodo ma anche dal Tromso per capire in che genere di pantano si riduceva il manto verde.

Venendo alla sfida di questa sera penso di poter asserire senza dubbi che chiunque aveva in mente lo stereotipo di uno stadio freddo come l’area geografica che lo ospita si sbagliava di grosso. Ok, non saranno ultras come li intendiamo noi, non potremmo parlarci di mentalità e non saranno sicuramente delle facce brutte e poco raccomandabili, ma di fondo hanno una passione che viene espressa in maniera davvero rumorosa. Fermo restando che il settore “adibito” al tifo – posto nella tribuna proprio davanti a me – non smette un secondo di cantare, c’è da dire che per quasi tutta la partita sono tutti i presenti a spingere i propri beniamini. Un clima ben diverso rispetto a quello più “moscio” osservato recentemente ad Arnhem. Tutto molto genuino ma non per questo da sminuire, complessivamente l’ambiente prodotto è davvero notevole. E non me lo sarei aspettato neanche io, sono onesto. Anche se dalle tante bandiere disseminate per la città c’era da attendersi uno stadio partecipativo, anche grazie all’appuntamento “storico” per il Glimt.

Permettetemi una battuta: avendo visto due volte dal vivo il famoso muro giallo del Borussia Dortmund potrei anche dire che…è molto più muro quello del Bodo!

Venendo al settore ospiti, i presenti si danno da fare per tutto il match, partendo con l’ormai classico “Roma, Roma, Roma” in cui vengono alzate le sciarpe e proseguendo con il sostengo incondizionato ai colori giallo ocra e rosso pompeiano. Non è ovviamente facile farsi sentire nella bolgia giallonera, benché il tifo resti l’unico modo per sopportare il vento gelido che di tanto in tanto spira sul settore ospiti, non dotato di copertura.

In campo dapprima la Roma trova il vantaggio con Pellegrini ma nel secondo tempo viene rimontata e superata a causa di due marchiani errori del portiere e della difesa. Un risultato non impossibile da recuperare, ma sicuramente tutt’altro che semplice considerata l’abilità dei norvegesi nell’affrontare le tre sfide giocate contro i capitolini sinora.

Il 2-1 produce l’euforia dei tifosi di casa, che a fine partita restano lungamente con la squadra a festeggiare il successo nel primo round di questo Quarto di Finale, in attesa della gara di ritorno che si giocherà proprio a ridosso di Pasqua all’Olimpico.

La mia serata non è ancora finita. È una notte polare ed è una notte di luci. Ma non di luci qualunque, bensì di Aurore. Avevo bramato di osservare questo fenomeno, conoscendo però le scarse chance. L’aurora boreale infatti trova il suo picco nel mese di febbraio, con poca luce e temperature più rigide. E inoltre, ovviamente, ha bisogno di un cielo limpido. Eppure mi sono voluto fidare dell’applicazione che me ne segnalava la possibile comparsa. Ed allontanandomi dal centro abitato, scovando le tenebre in riva al mare, mi è apparsa maestosa. Danzante tra le stelle, a pochi passi dalla luna. E ancora è tornata preminente la mitologia norrena. Ho rivisto i suoi personaggi misteriosi e li ho proiettati in quel firmamento che sinuoso fungeva da palcoscenico a un fascio di luce verdastro. Talmente suggestivo da mettere paura e lasciare a bocca aperta.

Per quanta bellezza si possa vedere nella vita ce n’è sempre un’infinita quantità a noi oscura, pronta a presentarsi davanti ai nostri occhi e comunicarci emozioni. Me ne vado a dormire con l’aurora negli occhi e la consapevolezza che la mattina dopo un treno che costeggerà oltre mille chilometri di Norvegia mi attende. Ma questa è un’altra storia, che dovrò trovar modo di raccontare. Perché se l’eternità non esiste, esistono i momenti che ti rimangono dentro a vita. Immagini, frammenti e sensazioni.

Il gioco vale sempre la candela!

Simone Meloni