Nello stuolo infinito (e crescente) di cose che non sopporto della mia città, ce ne sono alcune che fortunatamente ancora riescono a trasmettermi calma, tranquillità e a stimolare la mia curiosità. Con Roma non è facile avere un rapporto sereno e conciliante. Non lo è lei, non lo sono i suoi abitanti. Non lo si può essere in prima persona, probabilmente. Una Capitale dai mille volti, la maggior parte neanche visibili o immaginabili dal di fuori. Inutile dire che quando ci si nasce e ci si cresce, questa non è solo la città dell’Impero, dei monumenti millenari, della luce calda e passionale che la bacia nei tramonti primaverili ed estivi o della pioggia che poche volte la bagna in inverno, ma quando lo fa ne risalta i tratti magnifici dei palazzi cinquecenteschi e disseta i suoi giardini, le sue ville e le sue tenute. Chiaramente, dietro questa visione idilliaca e romantica, c’è tutta un’altra Roma, che si estende verso fuori e che dei suoi problemi fa croce e delizia. Lontano dai rioni, all’interno delle Borgate. Quelle tanto vituperate, ancora oggi, dai Brumotti di turno. Quelle additate come l’epicentro dello spaccio, del malessere e del male endemico. Forse perché spauracchio per una società che deve apparire perfetta e che sempre più preferisce stendere il tappetto al mascalzone in giacca e cravatta, anziché comprendere le ragioni della fasce meno abbienti e più problematiche. Creare il mostro e sbatterlo in prima pagina è sempre più facile!
È una domenica mattina di metà primavera. Fa moderatamente caldo e il vento spazza via foglie e residui del sabato sera. Inforco la bicicletta e in una ventina di minuti sono a pochi metri dal campo del Pro Roma, su Via Prenestina, una delle dodici strade consolari romane. Curioso il destino: quando, tredici anni fa, ho preso la tessera stampa, questo era uno dei luoghi che battevo di più per raccontare le mitiche e imperdibili gesta di Esordienti, Giovanissimi e Juniores. A dire il vero era anche uno dei miei preferiti. Sia per la vicinanza a casa che per il costante passaggio dei treni sullo sfondo, dove la mitica quanto obsoleta ferrovia Roma-Pescara la fa da padrone incontrastato. Nel baretto in cui si radunano i ragazzi con le sciarpe granata al collo c’è già un discreto numero di persone, benché manchino quasi due ore al fischio d’inizio. Chi beve caffè, chi apre il giro degli aperitivi di buon ora a suon di Campari e chi addenta un cornetto. L’aria è quella della periferia romana, quella in cui sono cresciuto. Ci sono gli anziani che leggono il giornale e parlano di Roma e Lazio, i ragazzetti ancora storditi dalle notta brava e gli adulti convogliati qua dal cuore della Borgata Gordiani, che si staglia proprio alle spalle di questo scenario. L’abuso del termine “popolare” – un po’ come di “romanticismo” – mi farebbe desistere nell’utilizzarlo per descrivere l’aria che si respira, però, oggettivamente, non saprei proprio usare un sinonimo in grado di rendere appieno l’idea.
Del resto qua è innanzitutto l’edilizia a essere popolare, come voluto in origine dal Regime, che tra il 1928 e il 1930 “spostò” qui parte dei cittadini che all’epoca abitavano in determinate zone del Centro Storico (in particolar modo dove oggi insiste Via dei Fori Imperiali), rase poi completamente al suolo in seguito dal nuovo piano urbanistico. Diciamo pure che si definì popolare un qualcosa che, in realtà, era ai limiti del degradato e della vivibilità. Basti pensare che l’originale Borgata Gordiani – costruita a ridosso del parco di Villa Gordiani, dove oggi ancora resistono i resti dell’abitazione della famiglia imperiale Gordiani del III secolo – era caratterizzata da casette a un piano (facciamo finta di non chiamarle baracche), generalmente senza servizi (i bagni erano costituiti da latrine pubbliche, dotate di canali di scolo a cielo aperto, mentre l’acqua veniva presa dalle fontanelle, che da noi sono meglio conosciute come “nasoni”) e collegate da strade in terra. Ovviamente la zona (come tutte le zone dove queste baraccopoli venivano erette) non era certo come oggi: urbanizzata, viva, quasi civilizzata. All’epoca c’erano grandi distese di prato e il nulla totale. Tanto che chi, malauguratamente (visti i tempi di percorrenza di almeno un’ora e mezza) doveva andare in centro, al suo ritorno era solito dire: “So’ stato a Roma”. Rende molto l’idea della distanza mentale, fisica e sociale. Circa cinquemila persone “vivevano” in quest’area. Negli anni ottanta, in seguito a feroci proteste della popolazione, la borgata venne parzialmente abbattuta e i suoi abitanti trasferiti nelle case del nuovo quartiere, ancor più periferico, di Tor Bella Monaca (per la serie: “Più siete poveri, più vi allontaniamo dalla città!). Le strutture restanti vennero occupate e il Comune provvide a fornire i servizi più basici. Anche se una vera e proprio bonifica arriverà soltanto dagli anni novanta in poi. In tutto questo, com’è ben noto, sono tre le cose che in qualsiasi paese/quartiere non mancano mai: la scuola, la chiesa e il campo da calcio. Quest’ultimo, in particolar modo, sorgeva nella suggestiva cornice del parco di Villa Gordiani, incastonato tra i ruderi romani, il verde e la borgata. Va utilizzato, purtroppo, l’imperfetto, dato che nel 2019 è stato demolito per volere della giunta municipale. Ma andiamo con ordine.
Se è vero che alcuni dei club di questa zona sono ben conosciuti in ambito capitolino, grazie all’ottimo lavoro svolto con le giovanili (Savio e Collatino su tutti), è altrettanto vero che in passato diversi sodalizi si sono avvicendati sul pittoresco campo in terra, citato anche da Francesco Totti nel film sulla sua biografia, dove si può vedere un rigore realizzato dall’ex capitano della Roma (all’epoca con la maglia della Lodigiani) in una delle due porte del suddetto terreno di gioco, con il pubblico assiepato sulle collinette circostanti. Come detto lo storico campo è stato demolito nel 2019, a distanza di due anni dall’ultimo club utilizzatore, l’Antel Villa Gordiani. La motivazione? Secondo la giunta allora in carica, calcio e monumenti storici non potevano più convivere e, inoltre, segreteria e spogliatoi in eternit andavano immediatamente abbattuti. Inutili gli sforzi della cittadinanza, nettamente contraria all’abbattimento e che ripetutamente ha tentato di mediare con il presidente, anche attraverso il comitato “Riportiamo il calcio a Villa Gordiani”. A sei anni di distanza lo spazio dove per decenni si sono disputate partite e la vita sociale del quartiere ha gravitato, vede la melanconica presenza di una porta – rimasta in piedi quasi come un feticcio – e una distesa infinita di erba incolta. Insomma, una classica “italianata” che per l’ennesima volta mette in evidenza la totale non lungimiranza di buon parte della classe politica, nonché una sorta di “cattiveria” verso i più giovani, ai quali vengono sistematicamente negati anche gli spazi più basilari. Del resto la storia di questa Borgata – come quelle di tante altre – è stata scritta in nome della “mancanza”. Mancanza di servizi, di spazi e spesso di umanità. Ed è proprio sul termine “mancanza” che nasce la storia sportiva e aggregativa della Borgata Gordiani del pallone.
Nel 2017 viene creata l’ASD Villa Gordiani, dove il comitato “Riportiamo il calcio a Villa Gordiani” – in un certo senso “progetto precursore” di tutto ciò – confluisce. Vengono scelti i colori biancorossi (che erano quelli dell’Antel) e il bulldog come simbolo – a rimarcare come il cucciolo di cane che campeggiava sulle maglie della Juniores dell’Antel, ultima categoria sopravvissuta prima della chiusura del club, fosse cresciuto -, sovrastato dalla Tor de’ Schiavi (una delle tante torri di guardia sparse nelle periferie romane). L’obiettivo è, per l’appunto, quello di restituire all’area una squadra in cui riconoscersi, facendo crescere un progetto dal basso. Per il calcio, per il quartiere e per dare un segno forte anche alla scellerata politica di disintegrazione di ogni spazio sociale. In una città come Roma simili progetti non sono mai facili. Sebbene la base comune ci sia, rimane pur sempre una metropoli divisiva e spesso avversa a ogni forma di costruzione lungimirante. Ma anche la protagonista perfetta per dare il la a scontri ideologici e nel modus operandi. Sta di fatto che il primo anno di Terza Categoria segna l’immediata scissione interna, con la maggior parte dei protagonisti che si distaccano dando vita alla Borgata Gordiani, che sin da subito adotta i colori granata e, l’anno successivo, si ritrova di fronte nientepopodimeno che il Villa Gordiani, in un inedito quanto teso derby sul campo del Pro Roma, dove i sostenitori granata sono peraltro in netta maggioranza. Da sottolineare come, in questo periodo, le due entità, malgrado la separazione, cotinuino a cercare un dialogo con le istituzioni municipali, tenendo un’assemblea molto partecipata presso la bocciofila all’interno del parco.
E qua possiamo ricollegarci all’appuntamento della domenica mattina al Bar “da Giovanni”. Quello dei Campari, dei vecchietti che leggono il giornale e dei ragazzi con motorini, sciarpe e magliette che si aggregano lentamente. Mi rendo conto di non poter vivere un’esistenza priva del contatto con l’entusiasmo che gli spalti danno nella loro versione “collaterale”, in tutto quello che creano fuori e anche nella pittoresca trasversalità che mi hanno inculcato in tanti anni di partite e situazioni bizzarre. Ammetto che ho sempre avuto e ho tutt’oggi un certo scetticismo verso progetti che si autodefiniscono custodi del “calcio popolare”. O almeno verso un certo tipo: quelli dove si mette in primo piano l’appartenenza politica e lo si fa in modo forzato, andando poi a ledere quel ruolo un po’ liturgico e un po’ formativo a cui lo stadio assurge, almeno dal mio punto di vista . Comprendo che in talune situazioni la politica funga da collante, ma credo sempre che quando supera e offusca la militanza curvaiola, allora il discorso esuli dall’essere ultras, almeno per come lo concepisco dal mio modesto punto di vista. Intendiamoci: non che i ragazzi della Borgata si professino apolitici o rimangano nell’ambiguità della questione. Però è chiaro come il loro intento sia innanzitutto unire e parlare al quartiere, in tutte le sue anime. Sappiamo bene che quando si nasce in contesti “difficili” o comunque periferici, spesso non si nasce “imparati” (questo privilegio preferiamo lasciarlo a sedicenti salotti buoni della città) e per accogliere ragazzi e avvicinarli a questo genere di ambienti bisogna innanzitutto avere rispetto per il contesto da cui vengono. C’è un abisso tra chi spesso utilizza gruppi o addirittura squadre di calcio come un proprio giocattolino, dove nessuno può metter bocca e l’unica prerogativa è un ambiente chiuso e limitato, dove chi non la pensa uguale al “padrone” di turno non può entrare e chi, invece, decide di mettersi in discussione e guardare anche la “diversità” come ricchezza o come forma per crescere e far crescere. Nei nostri quartieri, nelle nostre periferie, ci si perde spesso. Più di quanto si creda. Perché troppe volte non si hanno punti cardine, né luoghi dove passare il proprio tempo. Ecco perché l’idea di questi ragazzi, oltre a essere meritevole, ha un qualcosa di diverso alla base rispetto ad altri progetti simili ma settari, destinati a fallire sin dall’inizio.
Poi, chiaramente, la mia opinione sul “calcio popolare” espressa nel paragrafo precedente, riguarda più che altro l’aspetto del tifo, del sostegno attivo. Se parliamo di gestione della società, organizzazione interna e tutto quello che serve per mandare avanti anche il più piccolo dei club sportivi, appoggio appieno chiunque si sobbarchi tale esperienza e lo faccia per pure passione, rimettendoci quasi sempre tempo, pazienza e denaro. Soprattutto in un contesto cittadino e regionale come quello dove vivo, in cui di affaristi, mascalzoni e millantatori è pieno l’intero movimento calcistico, testimoni ne sono gli innumerevoli esempi di società che puntualmente cambiano nome, colori, sede, stadio e simboli. Solo per il “gusto” di farlo e gonfiare i propri portafogli, spesso in maniera nebulosa. Altro aspetto che apprezzo molto, nel caso di fattispecie, è l’iniziale rifiuto per qualsiasi sponsor, salvo poi aprire le porte al Mercato Rionale – col chiaro intento di rimanere ancorati al territorio – e al bar succitato. In pratica da queste parti “bisogna meritare” di essere sponsor!
In questa mattinata l’avversario di turno è un sodalizio, nel suo piccolo, storico del calcio dilettantistico romano: il Pibe de Oro, squadra dal nome esotico che in realtà ha sede nel quartiere Torre Angela, nel quadrante sud-est. La sfida assume un’importanza fondamentale per la Borgata Gordiani, dato che un successo le permetterebbe di rimanere il secondo anno consecutivo in Prima Categoria, un traguardo conquistato grazie alla programmazione e alla forza di volontà di tutto l’ambiente, basti pensare che al termine del primo anno di attività la società rifiutò la proposta di ripescaggio in Seconda Categoria proveniente dalla Lega, questo perché si voleva ottenere una vittoria sul campo. E là, peraltro, ci vanno quasi tutti giocatori nati e cresciuti a Villa Gordiani, restituendo quell’idea di quartiere portato sul rettangolo verde che è parte integrante e fondamentale di questa storia. A tal merito va menzionato uno dei giocatori dell’attuale rosa, nipote della signora che ha gestito il bar nel vecchio campo demolito nel 2019. Un esempio di continuità. Uno dei tanti. Per giunta da ricordare l’avvio, da quest’anno, dell’attività per il settore femminile, mentre l’intenzione futura è quella di avere un campo di propria gestione per poter creare anche un settore giovanile e fare un importante upgrade, sportivo ed economico. Considerati i terreni di gioco in stato di abbandono nelle periferie capitoline, questa ipotesi non sembra così peregrina.
Quando manca un quarto d’ora al fischio d’inizio sono in campo: reflex in mano e una discreta curiosità di vedere all’opera il tifo organizzato. Dietro la reti vengono affisse diverse pezze, tra cui quella con il codice di avviamento postale di zona (una cosa che mi è sempre piaciuta di Roma – come delle altre grandi città – è l’avere, oltre al CAP unico, altre decine di CAP per ogni zona, un modo di identificare il proprio “territorio”) sovrastata dalla bandiera palestinese. Il materiale è di ottima fattura e già da questo si capisce che sulle gradinate non ci sono propriamente degli sprovveduti, ma ragazzi che hanno una loro storia e una loro idea di stadio. Le prime movenze lo confermano, i novanta minuti successivi lo sottolineeranno. Nel frattempo il settorino va sempre più riempiendosi, con persone estranee allo “zoccolo duro” ma chiaramente coinvolte dal buon lavoro che questo ha fatto nel tempo, divenendo davvero un corpo riconosciuto nella Borgata, anche grazie alle tante iniziative realizzate durante l’anno e alla sede, aperta all’interno di quella che inizialmente fu la Posta, per poi venire abbandonata e cadere nel degrado. Non un qualcosa di estemporaneo se si pensa che anche in trasferta, per la categoria, le presenze sono sempre buone e, soprattutto, di stampo ultras. E pure qua: nascere a Roma vuol dire, quasi sempre, dividersi tra le due squadre che la rappresentano e non è facile, crescendo, dare priorità a un progetto di quartiere, ma è necessario affinché questo resista, cresca e si affermi. Inoltre – ricollegandomi a un concetto espresso poc’anzi – la coscienza di portare del materiale e la consapevolezza che potenzialmente nessuna trasferta sia una passeggiata o una gita, credo sia alla base di ogni discorso di tifo. Dalla Serie A alla Terza Categoria. Da un punto di vista prettamente canoro, invece, la performance è buona e l’aspetto più bello è constatare come dentro al settore ci si diverta, tra cori, torce, fumogeni e birre in vetro bevute tranquillamente, senza che qualche proibizionista del caso arrivi pretendendo il bicchiere in plastica e la birra analcolica.
In campo arriva la consacrazione di questa mattinata, con i granata che la spuntano nettamente, conquistando la salvezza. Al triplice fischio scoppia la festa, con giocatori e tifosi a saltare insieme. Tutto così semplice e a portata d’uomo che per qualche minuto fa dimenticare anche la “normalità” di un football che vorrebbe sempre più distante la sua parte emozionale e quella di chi indossa le casacche o si prodiga in nome della società. Realizzo le ultime foto e gli ultimi video. Un treno ancora passa alle mie spalle. Aspetto sia scomparso l’odore acre di una torcia, che per tutta la vita mi inebrierà sempre allo stesso modo. Ora posso cominciare ad andare via. Ripassando per le vie che lambiscono la Borgata, dove non c’è nessuno perché tutti stanno andando a pranzo. Il pranzo della domenica, un classico dell’Italia popolare e familiare. Un classico talmente trasversale, che sono certo riguardasse anche quelle cinquemila anime disgraziate e affamate, che quasi cent’anni fa misero per la prima volta piede qua. Do i primi colpi ai pedali, perché questo tratto di Prenestina è leggermente in salita. Il campo del Pro Roma si allontana. Ma quantomeno adesso so meglio di cosa si tratta. Come si persegue l’idea e la concezione di calcio, popolo e quartiere da parte dei ragazzi che ho visto all’opera. Loro sognano di far nuovamente riecheggiare grida e cori all’interno del parco, dove il tempio per la sfera di cuoio era al posto suo. Non so se il futuro potrà mai restituirglielo, di sicuro posso dire che nel contesto asettico e disimpegnato in cui viviamo, è importante che queste situazioni esistano e abbiano il supporto della loro comunità. Il tram mi sorpassa, mentre evito le buche che dilaniano la ciclabile e qualcuno pensa bene di suonare il clacson pensando che gli stia andando addosso. Tutto molto romano. Tutto molto periferico. Ma in realtà centrale per la vita di questa città.
“…per dormire ci pensò il Lenzetta. Dietro alla Borgata Gordiani, in una prateria da dove si vedeva tutta la periferia con le borgate, da Centocelle a Tiburtino, in fondo ad un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi bidoni arruzzoniti, abbandonati lì insieme a altri ferrivecchi, in un recinto”. Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di Vita.
Simone Meloni





















































