La competizione forse più ambita ed agognata da appassionati, addetti ai lavori e protagonisti, chiamati ad allietare spalti e platee televisive (?!), è giunta al termine, nella maniera forse maggiormente auspicata e pronosticata, almeno dal punto di vista prettamente sportivo: il Mondiale 2014 capitola con la Germania trionfante, le dottrine di Löw incensate parimenti ad un dogma religioso, il modello teutonico assurto ad emblema di voluminosa organizzazione e magniloquente efficacia e la metamorfosi per una notte anche della paventata e politicamente dispotica Angela Merkel in un vessillo incommensurabile di gioia e di incondizionato sostegno. 

Peccato però che oltre il folclore ed il folgore delle psichedeliche festosità brasiliane si celi un’orda di intricate questioni e incombenze assortite, volte ad emancipare macabramente il calcio dalla sua risorsa principale e fondamentale, ossia il tifoso; che ora non si presentino moraleggianti e catecumenali gli starnazzanti becchi predicanti consuetudini e andazzi sedimentanti nel corso della storia della manifestazione sportiva per antonomasia, perché il nascondersi dietro alla fittizia ed astratta convinzione che una celebrazione non possa essere condivisa e respirata dai popoli solo per la distanza del suo epicentro, è appunto insensato e fuori da ogni logica.

Proseguiamo per ordine, dato che la radice della nostra analisi parta da molto lontano e si radica dai vertici alle fondamenta e viceversa: che la compagine tedesca si prenda gli onori delle cronache e salga alla ribalta dei rotocalchi di mezzo globo, è cosa buona e giusta ed è la sacrosanta nota di merito, però sarebbe bene che apparato mediatico e stampa in generis approfondissero il piano della FIFA e delle varie e subalterne associazioni di categoria, dedito alla deturpazione del patrimonio emotivo e passionale detenuto dalla frangia sempre ampia – seppur vituperata – dei sostenitori. La federazione internazionale ha tutto il vantaggio di non contribuire alla diffusione di un ripristino dell’atavico accostamento allo sport più bello del pianeta, che ammaliava mediante la sacralità dei suoi appuntamenti e il misticismo delle sue norme, con lo stadio adibito alle funzioni di aggregatore sociale e di cornice per uno spettacolo unico; i Blatter & C. di turno invece odiernamente ingegnano e fomentano la logica della mercificazione del sentimentalismo, ove le arene assumano sembianze di fucine contenenti sonanti e lauti denari e ove tutto possa essere accessibile, a patto che si saldi un conto esoso, quale quello dell’esautorazione del proprio ego irrazionale, platonico, canoro, impavido, e ci si prostri belanti alle dinamiche della massimizzazione dei profitti, a discapito dell’abnegazione alla causa, dell’amore disinteressato e mai corrisposto, della fiamma radicale ed ardente rifulgente per un abbinamento cromatico, qualunque esso sia.

Pay-tv e affini sono i garanti di questo avanspettacolo dell’assurdo, in cui l’ovvio (abbandonarsi al coinvolgimento di una partita dagli spalti) è sinonimo di sovversivo e l’inconcepibile (palinsesti e programmazioni a pagamento) è dispensato alla stregua di una verità assoluta: gli introiti sono l’unica preoccupazione da enumerare, gli utili finanziari prevalgono anche sugli indigenti delle favelas e sulle situazioni socioeconomiche e sembra quasi che ormai assistere infantilmente estasiati ad una sfera rotolante su un rettangolo verde, al naturale o in sintetico, sia diventato un’esclusività elitaria e si sia denudato della veste di privilegio collettivo.

Alla base dell’oligarchica piramide, persiste la perfetta sintesi e trasposizione in diverso settore del principio economico del bottom up, ossia di un approccio dal basso verso l’alto, in quanto i genialoidi della società civile del XXI secolo, piuttosto che boicottare una kermesse quadriennale a cagione della perdizione dei suoi registi, ritengono che quel tanto conclamato patriottismo sia perseguibile e sentito soltanto se espresso (aggiungeremmo, in termini molto minimali ed esageratamente superficiali) tenendo per la propria rappresentativa nazionale, fregandosene di qualsivoglia matrice ideologica ed idealista. Massì, che ci importa?! Era tanto sfiziosa Angelina con quella giacca rossa…”.

Alex Angel D’Addio.