Internet e più specificatamente Facebook sono stati vettori di contaminazione positiva, hanno contribuito in maniera importante a dare corpo, credito e nuovi campi di sperimentazione e confronto alla narrativa calcistica. Questo è il lato positivo. Il lato negativo è che tutti si credono di essere Buffa anche se sono solo possessori di una connessione alla rete. L’ipertrofia di blog e pagine calcistiche ha poi elevato a rango di eroi rivoluzionari anche gli ultimi terzinacci di provincia: a sentir questi improbabili cantori, persino il fallo laterale con capriola di Risto Kallaste ha avuto un ruolo centrale nella Rivoluzione Cantata con cui i paesi Baltici hanno rivendicato ed ottenuto la loro autonomia dall’Unione Sovietica. E poi c’è la colpa più vergognosa di tutte, che non potrà essere lavata via nemmeno con tutto il sangue di tutti i più stupidi figli della blogosfera, gli stessi che hanno fatto da concime (essendo più o meno della stessa consistenza del meno nobile e più famoso dei concimi) per la proliferazione della retorica vomitevole che include nostalgia, romanticismobomberismo o ignoranza. Il crepuscolo di ogni società civile inizia proprio laddove l’ignoranza diventa una virtù e non più una vergogna. Mettere mano alla pistola quando qualcuno associa uno di questi termini al calcio dovrebbe essere un diritto e non un reato.

Ecco, “Calcio (poco) romantico” di Federico Greco e Daniele Felicetti è bello proprio per questo: perché è un libro anti-retorico nell’approccio, nella scelta delle storie e nello stile narrativo, più prossimo al giornalismo, per capacità di approfondimento e analisi, che non al moderno “storytelling” (altro “filone” per il quale invocare penne stilografiche piantate nel cuore a mo’ di paletti di frassino). Non che non siano ben narrate le storie, anzi, però colpiscono maggiormente per la costante ricerca di una verità storico-oggettiva anziché appagarsi e fermarsi al primo mito in merito.

In sedici capitoli vengono narrate tante storie belle ed interessanti, alcune abbastanza note per appartenere all’immaginario comune, dai “Leoni di Highbury” alla sfida che ispirò il film “Fuga per la vittoria” con Sylvester Stallone e Michael Caine. Ma ci sono tante altre vere e proprie chicche da veri intenditori e i riferimenti bibliografici a margine del libro, sono lì a dimostrare che davvero nulla è stato lasciato al caso, nonostante si tratti di un libro più romanzato che storico: potevano prendersi qualche licenza, i due autori, in nome di questo registro più favoleggiato che impegnato, ma alla fine sono stati rigorosi ed impeccabili anche nel metodo, esattamente come lo sono stati nel rifuggire la retorica stucchevole di cui sopra.

Se ne deduce che il tema centrale è marcatamente calcistico, ma nel capitolo “New disorder” (ibrida citazione del gruppo musicale dei “New Order” e del “Pubblic order act”, cioè la legge del 1986 che poi aprì la strada al più specifico “Football Spectators act” del 1989), si affronta uno dei miti più ridondanti e falsi che ogni buon frequentatore degli stadi deve ciclicamente sorbirsi da chi invece di stadi non ne capisce niente. Bisogna prendere a modello quello che fece l’Inghilterra thatcheriana con gli hooligan, secondo certuni, invece Greco e Felicetti cercano di guardare più indietro cause ed effetti per comprendere questa realtà specifica. Non per niente, in questo capitolo parlano di “entropia”, prendendo cioè a prestito la fisica per sfuggire letture banalotte e moralistiche, ricollegandosi alle bande giovanili di epoca vittoriana, all’emarginazione della Rivoluzione Industriale, alle sottoculture figlie della working class e le ondate di moral panic borghese, le stesse che ancora oggi si ripresentano immutate.

Anche tecnicamente il libro è ben fatto. Bella la copertina, in linea con la recente inversione grafica della “Urbone Publishing” che ha coinvolto anche il loro logo. Ottimo il lavoro di revisione delle bozze: per deformazione l’occhio mi cade su ogni minimo errore e qui non ne ho scorto nemmeno uno. Negli ultimi anni è evidente ed innegabile il miglioramento qualitativo di questa casa editrice, proprio da tutti questi aspetti: dopo “Il Brasile d’Europa” di Paolo Carelli, questo è un altro libro davvero azzeccato e che si può consigliare a cuor leggero a chiunque. Bravissimi prima di tutto gli autori, ci mancherebbe, bravo però anche l’editore che ha affinato e migliorato la sua selezione, dopo i primi anni in cui aveva pubblicato anche libri dal valore non di certo eccelso, che sembravano scritti con Wikipedia come fonte bibliografica unica.

Il ne faut pas toucher aux idoles: la dorure nous enreste aux doigts. Non bisognerebbe mai toccare gli idoli, come ammoniscono in apertura Greco e Felicetti prendendo a prestito le parole di Flaubert. È invece proprio toccandoli da vicino come fanno loro, anche spogliandoli di questa patina luccicante, che se ne apprezza maggiormente il loro lato umano e popolare, lo stesso che aveva portato una nazione intera ad innamorarsi follemente di questo sport fra gli anni ’70 e ’80, non perché fosse un’età romantica ma solo perché cotanta retorica ancora non c’aveva stuprato.

Matteo Falcone.