wp-1453412184819.jpegQuesto libro, “Campo di calcio campo di battaglia”, non è propriamente una novità letteraria, visto che è stato pubblicato nel 1999 (e scritto da Ivan Colovic). In realtà lo stesso consta di parti riprese da tre suoi libri ulteriormente precedenti, scritti nell’arco di dodici anni, tra il 1985 e il 1987. Mi ci sono imbattuto durante una sessione di studio ed approfondimento a seguito della devastante lettura di un superficialissimo libro su Arkan. La tempistica di questa recensione non brillerà in termini di attualità, ma non mancano gli spunti di interesse che crediamo possano essere graditi ai tanti appassionati del calcio e del tifo Balcanico.

In sostanza, questo è un saggio che si muove sul crinale fra l’analisi del linguaggio nella letteratura giornalistico-calcistica e l’indagine sociologica del mondo a cui essa fa riferimento, ossia quello dei tifosi e quello del potere che da sempre usa questo sport come veicolo di propaganda o controllo sociale. Cos’era la Jugoslavia, come è cambiata, quanto è cambiata lo si cerca di dedurlo dall’analisi del linguaggio usato nel giornalismo sportivo e di cosa, come e quanto è cambiato in esso.
L’arco temporale che abbraccia questa analisi è molto ampio, dal regime di Tito si arriva infatti fino alla successiva dissoluzione della Federazione Jugoslava. Con tutti i cambiamenti intercorsi, anche la letteratura sportiva ha mutato il suo approccio alla materia narrata, assumendo forme poliedriche: da un racconto prettamente mitico, incentrato sulla contrapposizione di forze fra “noi” e “loro”, fra il bene e il male, si passa poi alla critica e a tracciare le distanze interne in termini etnico-sociologici quando, dopo la morte del Maresciallo Tito, emersero le varie istanze indipendentiste nazionali.

Curiosa è la scoperta di un cavallo di battaglia che in Italia rese famoso l’allenatore Vujadin Boskov, quel “Rigore è quando arbitro fischia” di fatto coniato dal giornalista sportivo Vukadinovic, una sorta di corrispettivo jugoslavo di Gianni Brera; da un punto di vista sociale, parallelamente all’insorgere dei primi focolai di guerra, si nota una maggiore attenzione giornalistica per i fenomeni violenti correlati al calcio, che però si tendono a stigmatizzare o minimizzare a seconda del fatto che i coinvolti o a parlarne siano serbi piuttosto che croati.

Anche qui salta immancabilmente (anche se solo marginalmente) fuori Arkan: da questa parte dell’Adriatico, la futura “tigre” viene descritta con più aderenza al suo ruolo reale ricoperto nella Stella Rossa, ossia di “commissario dei tifosi”, per citare testualmente. Arkan, secondo questa versione, non era un capo-ultras, ma una sorta di SLO ante-litteram delegato dalla società a ricucire i rapporti che, con una parte della tifoseria, si erano deteriorati in maniera pericolosa. Quanti cavalcano “giornalisticamente” il luogo comune della corruzione morale degli ultras, che avrebbe fatto da humus per l’ascesa di Arkan, non tengono (in buona o in cattiva fede?) in conto che la sua figura non arrivò dal basso della base ultras per scalare la società calcistica e politica belgradese, ma fu calata al contrario dall’alto verso il basso, ufficialmenter per “arginare la deriva dell’ubriachezza politica soprattutto di carattere cetnico”. Il che striderebbe poi fortemente con le basi ideologiche della sua successiva milizia paramilitare, oppure collimerebbe con uno dei suoi profili psicologici, che lo tratteggia come una mente diabolica in cui l’ideologia non era altro che una delle strategie per usare la gente come pedine del suo scacchiere. Il sottotesto leggendario vuole addirittura la nomina imposta da Milosevic, per intercettare a proprio favore un potenziale bacino di violenza da riversare poi sul fronte di guerra: “In tempo di pace, nei paesi che registrano una crescita di aggressività dei gruppi delle tifoserie, si cercano adeguate misure che siano in grado di affrontare e contrapporsi all’aggressività. L’episodio della trasformazione in combattenti dei ‘Delije’, invece, mostra come in un paese dove il teppismo di sostenitori era platealmente presente, in un periodo contrassegnato dalla guerra, l’aggressività dei tifosi diventa per lo Stato un prezioso capitale di odio”.

La prima parte contiene diversi passaggi nella sociologia del tifo, alcuni arcinoti agli amanti del genere, altri interessanti nella loro applicazione ai Balcani, qualcuna veramente assurda nel suo pregiudizio politico allorquando sostiene che “lo sport sia profondamente compenetrato di fascismo” e lo confermerebbero “la glorificazione della competizione e della selezione fra uomini, l’apologia della sofferenza e dell’eroismo, l’attesa del rinnovamento di un corpo sociale minacciato dalla decadenza, l’antintelletualismo, il culto dei capi e lo sciovinismo, le parate e i requisiti simili a quelli militari, la manipolazione delle masse e degli sportivi, il richiamo e la vocazione all’irrazionale”. Classica visione da salotto politico borghese che nemmeno meriterebbe di stare in un saggio, che si smentisce quasi automaticamente con i richiami allo sport, uguali e contrari, che invece ne hanno fatto nella propaganda di parte avversa: la competizione che si vince con l’uguaglianza e la forza del collettivo, l’apologia del divertimento del gioco e degli anti-eroi che battono i giganti, l’intellettualismo calcistico dei Camus, Sartre, Pasolini, il culto dei capi annientato nella democrazia Corinthiana, ecc.

Andando oltre certe piccolezze banalizzanti, l’altro punto a sfavore riguarda la traduzione che in certi passaggi è talmente agghiacciante da sembrare fatta con “Google Transaltor”, e non sono refusi ma errori gravi e insistiti, da “vorward” a “goal getter” passando per “chiché”.

Nella seconda parte il libro poi (mi avrà preso per stanchezza o sarà effettivamente così…), risulta perdere di forza fino a divenire in certi punti quasi ridondante, eccezion fatta per qualche piccolo e gustoso aneddoto calcistico in epoca di Guerra Fredda, come l’incontro Bearzot-Kubala-Miljanic. Il tema “tifosi” lascia lentamente ed inesorabilmente il campo ai rapporti giornalismo-calcio-potere: se da una parte si può arrivare a capire come cambia il calcio al cambiare della società, a capire come cambia il linguaggio del giornalismo al mutare del calcio, a come diventino più subdole le forme di controllo del potere sul calcio e più sottile l’uso propagandistico dello stesso; risulta invece mortificante constatare che il linguaggio del giornalismo diventa pura “lingua”, nel senso fisico del termine, atta a languire la mano dei padroni senza alcuna “vis” polemica, senza alcuna capacità critica, senza alcuna dignità. D’altronde, la visione del giornalismo spina nel fianco del potere è una romanticheria idealista che non esiste, se non appunto negli ideali e nelle eccezioni, notoriamente, e non fa che confermare la regola della più ampia mancanza di midollo della categoria.

In ultima analisi, direi che il libro arriva ad un 6 diplomatico per certi angoli bui messi in luce, per la particolarità dell’idea di base, ossia denudare il linguaggio che racconta il connubio calcio-potere e, parallelamente, denudare calcio e politica attraverso il linguaggio che li racconta, a cavallo poi di un periodo storico interessantissimo che va dalla Jugoslava di Tito fino alle guerre che ne decretarono lo smembramento. D’altro canto non si riesce ad andare oltre la sufficienza stiracchiata, pur avendone appieno le potenzialità, perché la traduzione è davvero fatta male, gli errori sono tanti e in certi tratti il discorso si barcamena tra il forzato ed il ripetitivo. Mi sentirei di consigliarne la lettura solo agli amanti della saggistica o dei Balcani, mentre a chi preferisce la leggerezza romanzata direi di starsene a distanza.
Chiudo con l’appendice di dati utili a chi volesse acquistarlo: “Campo di calcio campo di battaglia”, autore Ivan Colovic, edito da “Mesogea”, ISBN 88-469-2004-X, pagine 160; da una ricerca veloce, il prezzo più conveniente trovato è di € 9,69 su Ibs, Feltrinelli o Mondadori online.

Matteo Falcone.
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BEST QUOTES:

pag. 11: Questi testi paraletterari sono concentrati su un solo tema: sul rapporto di forze fra Noi e Loro.

 

12: Nella nostra mitica storia calcistica l’uomo e i suoi valori sono rappresentati dai calciatori locali e dal loro gioco.
È chiaro che la logica di questa storia attribuisce alla squadra straniera e ai membri che la compongono il ruolo di incarnazione delle caratteristiche umane negative.

 

23: Una delle possibili conclusioni di questa storia: la vittoria delle tribù degli hooligans e la fondazione di una nuova aristocrazia di provenienza vandalico-guerresca.

 

25: I giornalisti partono dall’idea per loro incontrovertibile che lo sport sia “una delle più alte conquiste della creatività umana, della comprensione e della comunicazione tra gli uomini”.

 

27: La principale occasione di denuncia allarmata a proposito dei “demoni del male” e del “bestiale abuso dell’odio”, di regola viene individuata nel comportamento di tifosi di centri esterni alla Serbia;

 

29: Gli “irresponsabili” fra i tifosi del Partizan andrebbero dalle 150 alle 200 persone.

Quando fra i “nostri” sostenitori si manifestano degenerazioni nazionalistiche, allora si tratta di provocatori “aizzati dagli altri” che poi attribuiscono a noi “quella specie di tifoseria”, ovvero di “una parte estremista di tifosi”.

 

39: Colpisce il carattere asociale di questi tifosi-hooligans, il loro rapporto ostile verso la società e i suoi rappresentanti ufficiali, che si estende, il più delle volte, anche verso la dirigenza delle squadre.

[…] Il vero obiettivo delle provocazioni dei tifosi-hooligans è in primo luogo l’autorità di governo. Quando sono aggressivi verso i sostenitori delle squadre ospiti, lo fanno anzitutto per provocare i responsabili morali a livello locale e gli organi di tutela dell’ordine.

 

42: I tifosi vivono l’andata allo stadio e il tifo come una fuga dall’obbedienza ad una disciplina e a una norma.

 

46: Ad un certo Zeljko Raznatovic Arkan si attribuisce il merito di aver riconciliato la direzione della Stella Rossa con una parte di tifosi disubbidienti.

47: Con l’arrivo di Razanatovic fra i Delije viene a cessare il pericolo della comparsa fra le loro file dell’“ubriachezza politica soprattutto di carattere cetnico”.

48: Ad un determinato momento si era arrivati a rapporti tesi tra frange di gioventù traviata e allettata e la direzione della Stella.

 

52: In tempo di pace, nei paesi che registrano una crescita di aggressività dei gruppi delle tifoserie, si cercano adeguate misure che siano in grado di affrontare e contrapporsi all’aggressività.

L’episodio della trasformazione in combattenti dei Delije, invece, mostra come in un paese dove il teppismo di sostenitori era platealmente presente, in un periodo contrassegnato dalla guerra, l’aggressività dei tifosi diventa per lo Stato un prezioso capitale di odio.

 

53: “La guerra è tutto sommato solo uno sport, una grande competizione sportiva di scontro fra due nazioni” (Henri Degranges, creatore del Tour de France).

 

54: Michel Caillat nel libro L’ideologia dello sport in Francia dice di essere “profondamente convinto che lo sport sia compenetrato di fascismo”. I tratti che confermerebbero, secondo la sua opinione, tale giudizio, sono la glorificazione della competizione e della selezione fra uomini, l’apologia della sofferenza e dell’eroismo, l’attesa del rinnovamento di un corpo sociale minacciato dalla decadenza, l’antintelletualismo, il culto dei capi e lo sciovinismo, le parate e i requisiti simili a quelli militari, la manipolazione delle masse e degli sportivi, il richiamo e la vocazione all’irrazionale.

55: Questi fascisti hanno capito subito che il calcio è l’attività più simile alla guerra e gli si abbandonano con entusiasmo. Ogni domenica gli stadi sono pieni di potenziali fascisti, tanto lo spettacolo si basa sull’odio verso l’altro. Assistere ad una grande partita significa offrirsi due ore di fascismo ordinario e legale. L’estrema destra, a quanto pare, ha capito il problema del ‘tifo’ meglio dei moralisti delle istituzioni sportive. Il calcio è una guerra e gli stadi di calcio sono terreno di allenamento per i piccoli nazisti che sognano spazi più ampi.

 

58: Grazie a certe nuove ricerche sociologiche ed etnologiche, oggi sappiamo che nel mondo apparentemente sfasciato, caotico dei tifosi estremisti regna l’ordine. Il loro comportamento in verità è pieno di regole non scritte, di codici, di protocolli, di gerarchia e di disciplina.

 

59: Gli autori richiedono di operare un distinguo fra le manifestazioni rituali, simboliche, carnevalesche o spettacolari della violenza e l’“effettivo comportamento violento”, in relazione al fatto che spiegano con la versione dell’incidente e della situazione comportamentale estrema i momenti e i fatti in cui la violenza dei sostenitori diventa effettiva. Sulla base di questa interpretazione, le gare sportive, e in particolar modo le partite di calcio, grazie al fatto che consentono di trasferire su un piano simbolico il manifestarsi dell’aggressività di massa e lo trasformano in spettacolo, in rituale, in immagine di violenza, posseggono la profilattica funzione di catarsi. La partita di calcio resta una guerra, ma una “guerra ritualizzata”, e questo non solo per il fatto che i giornalisti la descrivono servendosi di un vocabolario di guerra, ma anche perché i requisiti del tifo, le bandiere, i tamburi, le divise ci dicono che si tratta di una specie di guerra simbolica. Secondo l’opinione di Alain Ehremberg, siamo solo in presenza di “desiderio di manifestare le cose”.

 

60: Eruzioni ritualizzate della violenza nello sport “servono a evitare che il corpo sociale nella sua interezza venga contaminato dall’aggressività che nel fanatismo e in altre forme di integrismo assume un indirizzo pericoloso.

A differenza della società premoderna, militaristica, quella moderna si configura per la costante trasformazione della violenza aperta e incontrollata in violenza regolamentata e controllata.

Si giunge alla conclusione che la violenza nello sport compaia proprio in questa forma moderna, controllata, ritualizzata, che si tratti dunque di illusione della violenza, di violenza apparente.

 

70: Lo sport è nella sua sostanza archeologia dei miti.

Il ruolo sociale di base dello sport consiste nel fatto che esso offre all’uomo di oggi una mitica soluzione dello scontro fra vita e morte che le rappresentazioni sportive sono palcoscenico “di una morte rituale e simbolica” e “dell’eterno ritorno alla vita”.

 

77: “La palla è rotonda e il rigore è rigore solo quando l’arbitro lo decreta” (frase coniata dal giornalista jugoslavo Vukadinovic).

Utilizzare lo sport come strumento di propaganda politica. Questa tendenza provocò la penetrazione di una nuova retorica patriottica e politica nel giornalismo sportivo.

 

81: Il linguaggio di questi modi di raccontare, pur essendo sottoposto a vari influssi e avendo la sua componente specifica tecnico-sportiva, tende ad una sua sorta di mitica originarietà e creatività, come se non interpretasse un peraltro periferico segmento della realtà, ma evocasse invece un mondo di valori umani universali, stabilisse una trama drammatica eterna, rappresentata dalla lotta per realizzarli. Di qui deriva alla letteratura sportiva una connaturata ripulsa di qualsiasi capacità di prendere le distanze rispetto alle cose, sia che si tratti di una distanza per così dire estetica, sia essa piuttosto ideologica o persino umoristica.

 

84: Se tuttavia leggiamo gli articoli anche come composizioni letterarie, i cui significati sono ad un tempo più profondi e più torbidi, “metafisici” o, più esattamente, “metasportivi”, con ciò stesso non ci collochiamo da un punto di vista ingenuo ed esclusivo, non gli attribuiamo una chiave con cui questi articoli non intendono fare i conti. Per contro, essi ci stimolano anche a questo tipo di lettura tramite la loro evidente, per quanto anonima, letterarietà selvaggia.

 

105: L’esempio ripreso da “Sport” del 6 novembre 1981 che dedicò la prima pagina e altri otto articoli alla partita giocata il giorno precedente fra la Stella Rossa e la squadra cecoslovacca del Banjik, ma in nessun posto veniva pubblicato il dato essenziale – il risultato dell’incontro (3-0)!

 

106: il modello della favola calcistica mitica si realizza solo nell’aspetto di frammentarie ed effimere varianti, in articoli la cui forma è meta giornalistica e metà letteraria.

 

107: Al centro dunque della favola calcistica mitica c’è lo scontro che “ci” contrappone a loro. Si pone da principio una domanda a prima vista assolutamente superflua: chi siamo in questo caso “noi”, e chi sono in effetti “loro”.

 

114: Gli autori degli articoli giornalistici sono abbastanza inclini a spiegare il modo in cui si gioca al calcio nei vari paesi come espressione di una mentalità nazionale.

 

118: La favola mitica del calcio ha bisogno di un’accentuata, inequivocabile differenza fra noi e loro, fra ciò che è umano e umano non è, fra il bene e il male.

 

121: Come il mito di Prometeo, la favola del calcio deve finire bene: gli uomini – cioè noi, gli Azzurri, gli Jugoslavi, i nostri ragazzi – devono vincere.

Per questa ragione la favola calcistica ha due compiti fondamentali, collegati fra loro: quello di trasformare ogni sconfitta dei nostri calciatori – perché anch’essi sovente perdono – in vittoria e di innalzare ogni loro vittoria a livello di impresa.