Quando Cantù, gli Eagles e la tifoseria canturina traslocarono al PalaDesio per una “sistemazione provvisoria” nel 2016, e, contro la Reyer Venezia fu esposto dalla curva uno striscione scritto in cirillico per augurare buon compleanno al presidente Gerasimenko (con tanto di jingle sparato a palla dagli altoparlanti), confesso che ebbi una brutta sensazione.
A parte il fatto in sé, pensai, per l’ennesima volta, quant’è delicato il futuro di una qualsiasi società sportiva quando arrivano, ai nostri lidi, presidenti dai nomi vagamente esotici.
Cosa poteva entrarci Gerasimenko, gerarca russo di origine ucraina, imprenditore nei rami dell’acciaio e del gas, con Cantù? A parte la passione per la palla a spicchi e degli interessi economici contingenti nella zona insubrica, zero.
C’è chi l’ha difeso a spada tratta e lo difende tuttora. Chi dice che, se non entrava Gerasimenko, Cantù sarebbe già saltata per aria.
Magari sarà un mio pregiudizio, ma secondo me il rischio che questi magnati arrivati da diversi meridiani più in là trasformino un club nel loro giocattolo, è estremamente forte. Non c’è un legame affettivo pregresso, e nessuna garanzia in caso che questi faccia il botto.
E così è successo. Un mese fa la sua acciaieria di Volgograd è stata dichiarata fallita e, di rimando, Gerasimenko ha detto: “Mi dispiace, non ho più soldi. Cedo gratuitamente la società”. Che, nel frattempo, ha accumulato debiti ancora da quantificare.
Sebbene più di qualcuno abbia avuto già da tempo il sentore che qualcosa non andasse per il verso giusto, ora le peggiori ipotesi stanno diventando materia tangibile.
Oggi Cantù naviga a vista, e non si sa se di qui a tre settimane riuscirà a scendere in campo. Gli Eagles, con un comunicato, hanno chiesto di riempire, in questo lunedì sera contro Pesaro, il PalaDesio per compattare il popolo biancoblu e per dare prova di orgoglio.
Cantù non è un club qualunque. Nella sua città è un’istituzione sacra. Me ne resi conto la prima volta che provai ad entrare al Pianella, per un playoff contro Varese. Ormai sono passati quasi sette anni.
Il palazzetto era esaurito. Modi più o meno leciti di entrare andarono a vuoto. Io e la mia compagna ci ritrovammo così a fare un giro in un centro storico deserto. I bar aperti trasmettevano tutti la diretta di Raisport.
Però, sia chiaro, Cantù rappresenta anche un territorio ampio tra la Brianza che non tifa Olimpia e tutto l’arco Lariano. Chi è di Como e ama il basket tifa Cantù. Su tutta l’ampia sponda del lago caro a Manzoni si tifa Cantù. Non parliamo di tutta quella zona tra Mariano Comasco e Lissone, forse persino un po’ più in là.
Cantù è un simbolo, e per questo, comunque vada, non morirà. Ultimo esempio di attaccamento dei suoi tifosi, il club appena costituito a Tremezzina, non propriamente a due passi dal Pianella. E questo nel momento forse più buio della società.
Insomma, è chiaro che la partita oggi passa in secondo piano. Che si vinca o si perda non conta più niente, visto che, se non succede qualche miracolo, la Lega Pallacanestro potrebbe presto sospendere i biancoblu dalla competizione.
Oggi i canturini mostrano i muscoli. Vogliono dare un segnale sia ai corresponsabili di questo dramma (sarebbe molto miope addossare tutte le colpe a Gerasimenko, comunque arrivato in un momento già di crisi), sia a chi verrà dopo.
Cantù è i suoi tifosi. Cantù è un’idea di basket. Cantù è gli Eagles. Appartiene a loro e a nessun altro. Questo è l’unico senso possibile per una serata dai tratti un po’ surreali.
Di Pesaro conservo ancora il ricordo di qualche trasferta al Palaeur tantissimi anni fa e di una Final Eight a Forlì. C’era ancora l’Inferno Biancorosso e, secondo me a ragione, quella biancorossa era riconosciuta tra le migliori tifoserie del basket italiano.
Certo, i successi targati Scavolini sono lontani anni luce. Certo, l’Inferno era l’Inferno. Ma la sensazione che, negli anni, a Pesaro si sia perso qualcosa è veramente forte.
La curva, raggruppata dietro la sigla “Pesaro 1946”, in termini di numeri ha perso tanto, anche a causa di campionati sempre al limite della retrocessione. Per me questa è l’occasione di rivedere all’opera questa tifoseria, sebbene sappia già con anticipo che il match al lunedì sera renderà i numeri estremamente ridotti.
Come capita spesso quando gioca Cantù, l’uscita per Desio della SS35 è letteralmente congestionata.
Arrivo a ridosso della palla a due e mi salva il privilegio del parcheggio riservato alla stampa. Grazie al mio pass posso posizionarmi velocemente in una posizione ottimale per non farmi sfuggire nulla sugli spalti e in campo.
Purtroppo, leggendo successivamente le notizie online, mi sono perso il corteo dei comaschi – ormai più che saldi amici – fuori al PalaDesio per mostrare vicinanza e solidarietà al popolo canturino. D’altronde, a Como ben si sa cosa portano personaggi improbabili (Lady Essien docet), e la paura che ciò si ripeta, a pochi chilometri di distanza, è forte.
Il primo colpo d’occhio è per la presenza pesarese: 16 unità nel settore ospiti – se ho contato bene – e una ventina aggiuntiva in un lato della tribuna, notata alle esultanze.
Gli strascichi dell’amicizia che legava Eagles e Inferno Biancorosso sono ancora evidenti: nel settore ospiti noto un paio di sciarpe biancazzurre e, soprattutto, è eloquente lo striscione che i marchigiani dedicano ai dirimpettai: “Nessun serpente potrà mai uccidere un’aquila”, con la parola “serpente” casualmente a tinte russe.
È l’unico insulto della serata diretto verso il presidente canturino, poiché, su sponda biancazzurra, si sceglie la linea dell’orgoglio e dell’attesa. Il messaggio iniziale della curva chiede un gesto al pubblico (“Tutti in piedi per la nostra storia”) che ottiene il consenso desiderato. Poco più in basso, in balaustra, ecco un “La gente come noi non molla mai”.
Il bandierone copricurva degli Eagles fa calare il sipario sul prepartita.
Su sponda ospite non mi dilungherò molto: i ragazzi pesaresi assistono alla gara spesso in silenzio, rotto da qualche coro sporadico. Da segnalare un paio di cori per Cantù. Alla fine faranno festa per una vittoria sofferta ma significativa (87-90 il punteggio finale).
Per quanto riguarda i canturini, non dovrei sorprendermi di nulla, visto che la fama li ha sempre preceduti e non è la prima volta che li vedo all’azione.
Ma, stasera, per loro, è una serata speciale, e si sente: tutto l’anello della curva è pieno, in piedi e compatto. L’effetto “palazzetto greco” viene ottenuto nella maggior parte del gioco, persino quando i lombardi vanno sotto di 15.
Quando il palazzo intero appoggia la curva, i boati sono fortissimi e il coinvolgimento totale. In tutto ciò nemmeno un coro di contestazione o una nota dissonante: solo sostegno e amore per la maglia.
Da segnalare uno striscione che polemizza per il derby contro Varese fissato il giorno di Natale: una scelta pilotata per la curva e a cui, ragion pura alla mano, è difficile dar torto.
Resto praticamente fino alla fine con gli occhi puntati verso la curva: i bandieroni che sventolano di fronte a mani alzate e sciarpe tirate sono uno di quegli spettacoli – ahimé sempre più rari – che mi ricordano perché, tanti anni fa, ho adottato questo mondo.
Chissà che fine farà Cantù e se riusciremo a vedere i derby con Milano e Varese. Personalmente, vedendo il calo di livello del tifo nella palla a spicchi, penso che la Serie A1 non possa permettersi di perdere una piazza così importante.
Pertanto, pur non essendo tifoso canturino, mi associo a chi spera ancora in un miracolo. Spettacoli come quelli di oggi non possono trasformarsi in dramma.
Stefano Severi