“Succederà, che torneremo in A”. Il cronometro segna nove secondi e un decimo. E i punti, per quanto il tempo nel basket sappia estendersi a dismisura, stavolta non lasciano dubbi, sono davvero troppi da recuperare in così pochi istanti. E allora gli Eagles finalmente possono lanciarsi in un coro liberatorio, stavolta senza tema di “portare sfiga”. Perché stavolta sanno che succederà davvero, che tra nove secondi e un decimo saranno promossi in Serie A, la categoria a cui un blasone come quello di Cantù appartiene.

Dalla retrocessione di quattro anni fa Cantù ne ha passate tante, e ha vissuto tante delusioni. Con una regolarità parossistica, la squadra era riuscita a mancare la promozione troppe volte. Due finali play-off perse, un’altra volta bloccati in semifinale. C’è il rischio di abituarsi, di dimenticarsi gli anni che furono, di rassegnarsi a essere una nobile decaduta.

Eppure le maglie che popolavano il PalaDesio erano maglie che ricordavano grandi fasti e grandi nomi: c’è una canotta con lo sponsor Forst, quello che aveva visto le prime due Coppe Korać e la prima stagione disputata nel leggendario Pianella. C’è il gialloverde della Polti Cantù, dell’ultima volta in cui la squadra aveva dovuto combattere per tornare in massima divisione. C’è chi ha sulla schiena il nome di Metta World Peace, o The Pandas Friend, o Ron Artest qual dir si voglia, l’ultima volta in cui i canturini si erano permessi di sognare davvero in grande.

La temperatura è alta, e non solo per la mancanza di aria condizionata che fa sudare a goccioloni, ma anche perché il PalaDesio è tutto esaurito e perché gli Eagles vogliono far dimenticare i chilometri che separano Desio da Cantù e chiudere gli occhi e immaginare di essere di nuovo lì, nel pandemonio del Pianella. O sognare, finalmente, di poter sostenere la propria squadra nella Cantù Arena in costruzione sul sito che fu di uno dei tanti scheletri di palazzetti promessi del passato.

Contro Rimini, Cantù ha vinto Gara 1 e Gara 2 fuori casa, peraltro senza il sostegno degli Eagles, che hanno spiccato per coerenza nella loro battaglia contro il biglietto nominativo per le trasferte e la soggettività con cui viene applicato. Uno dei leader della curva nei giorni precedenti aveva spiegato: “Tempo fa le curve esposero ‘Leggi speciali, oggi per gli ultrà, domani in tutte le città’ e la gente faceva spallucce. Adesso ci sono un sacco di leggi restrittive spesso ingiustificate, e la gente ‘normale’ se ne lamenta. Noi a ‘sta merda diciamo no”.

Ora è Gara 3, potenzialmente decisiva, stavolta è in casa e stavolta gli Eagles ci sono, in un palazzetto tutto esaurito, con le tribune tutte in maglietta bianca e il settore della curva invece colorato completamente di blu, con anche uno striscione copricurva con la scritta “La gente come noi non molla mai” srotolato prima della palla a due. 6.000 spettatori, più il settore ospiti di Rimini che continua a sgolarsi nonostante il frastuono degli Eagles sommerga ogni altro rumore.

La partita si gioca punto a punto, all’intervallo lungo è ancora 36-36. Poi nel terzo quarto il sogno sembra scivolare di mano un’altra volta, con Rimini che piazza un break che avrebbe spezzato le gambe a chiunque. All’ultimo intervallo l’incertezza comincia a serpeggiare sugli spalti, insieme agli incubi di troppi play-off mancati.

Poi l’ultimo quarto inizia con il fuoco alle polveri. Capitan Baldi Rossi suona la carica, sbraccia per incitare il pubblico, applaude i compagni di squadra e segna canestri determinanti per rimontare e riportare Cantù in vantaggio. Quando il cronometro segna meno di un minuto è 78-77, Cantù perde palla e Rimini potrebbe tentare il sorpasso. Invece Riisma ruba un pallone, si lancia in contropiede e viene fermato con un fallo antisportivo: è l’azione che chiude la partita, sui tiri liberi gli Eagles cominciano a intonare “Succederà”, e dopo quei nove secondi e un decimo può finalmente iniziare la festa di un popolo.

Il popolo di una città di 40.000 anime che non vuole scordarsi di essere stata una big europea, che rivendica a gran voce il titolo di “Città dei canestri”. Che alla sirena finale sgorga lacrime copiose. Che, incurante del caldo infernale e del sudore appiccicoso, si accalca pelle contro pelle per abbracciare un giocatore, per sfiorare la coppa, o anche solo per mettere piede sul parquet dove si è scritta la storia. Che canta, guidato da capitan Baldi Rossi adornato di retina del canestro al collo. Dopo aver ispirato la rimonta il capitano sale tra gli Eagles e brandisce il megafono, intonando: “Come cazzo si fa, a tifare Cantù”. Ecco, come cazzo si fa.

Damiano Benzoni