Lontana, a Sud del Sud, con una storia calcistica importante e con una tifoseria che riesce ancora a portare numeri notevoli, malgrado le sciagure sportive dell’ultimo quarto di secolo. Impressa nella mia mente grazie al suo particolare stemma, quel serpente attorcigliato a un pino che ricordo sugli scudetti dell’album Panini con una nitidezza quasi impressionante, considerati gli anni passati. Casarano era una di quelle piazze che da tempo avevo puntato, attendendo il momento giusto per visitarla e conoscere più da vicino la sua storia. Un “obiettivo” non propriamente facile, considerati i numerosi divieti di questo periodo storico, la capienza ridotta del settore ospiti del Capozza che ha indotto varie tifoserie a boicottarlo e il percorso della tifoseria locale, spesso contraddistinto da divisioni interne.
Quando salgo sul pullman con direzione Lecce non ho dubbi sulla mia scelta e, come sempre, appena il torpedone si innesta sull’autostrada già sto dormendo, ingannando così le otto ore di viaggio. Il paradosso è che, in proporzione, ci vorrà meno a coprire i circa seicento chilometri che dividono la Capitale dal capoluogo salentino, che a percorrere i trenta chilometri scarsi tra lo stesso e Casarano. Beninteso: il sottoscritto, masochista, non si affiderà né al pullman, né tanto meno alla macchina. Ma alle immortali Ferrovie del Sud Est. Tempo netto un’ora e quaranta minuti. Ma vuoi mettere “sfrecciare” a quaranta all’ora tra uliveti e muretti a secco e godere appieno del clima primaverile, malgrado siamo a inizio novembre? La velocità non mi appartiene per natura, figuriamoci se non ho impegni stringenti e arrivo in un posto per raccontarlo. Quando il convoglio giunge a destinazione, scendo e mi fermo con curiosità per scattare le “solite” foto al fabbricato, agli orari e, ovviamente, al treno. Cosa che suscita l’irritazione da parte del personale di bordo, che con una certa eloquenza mi ricorda che è vietato fotografare treni e stazioni (sic!). L’ultima ammonizione di questo genere mi era capitata a Rionero in Vulture, tanto per dire come rimangano immortali nella mia mente simili gag!
Come già ampiamente raccontato dall’amico Sebastien lo scorso anno a margine dell’articolo sulla sfida tra i locali e l’Altamura, Casarano deve il suo nome a un soldato romano di nome Cesare, a cui come compenso fu assegnato un appezzamento di terra sul quale, successivamente, sorse il centro abitato. Testimonianze della presenza romana si hanno nella chiesa di Santa Maria della Croce, conosciuta anche come Chiesa di Casaranello, eretta nel VI secolo come basilica paleocristiana. Personalmente ciò che più mi affascina di questa zone – volendo unire storia e geografia – sono i sei secoli di dominazione bizantina. Un’egemonia che è arrivata a oggi attraverso alcuni aspetti fondamentali della nostra cultura: il cibo, il dialetto e l’esistenza di alcune comunità ellenofone sia nel Salento che in Calabria, due zone d’Italia legate proprio da questa dominazione. Non è un caso riscontrare, quindi, la profonda diversità del dialetto salentino rispetto al resto della Puglia, al contrario di parole e modi di dire che talvolta somigliano a quelli comuni sia su suolo calabro che nella parte più orientale della Sicilia.
Mi inoltro nelle stradine del centro storico, tra i palazzi in stile barocco, alcune viuzze sembrano non portare a nulla e l’orario di pranzo, in una domenica così mite e soleggiata, fa sì che quasi tutti siano di ritorno dai bar, dalle chiese e dalla passeggiatina giornaliera, per mettere la forchetta nel piatto e passare in famiglia il classico “giorno del riposo”. In questi casi penso sempre come la “mia” normalità domenicale sia a dir poco “strana” per la maggior parte delle persone. Ma fondamentalmente è proprio da questa stranezza che nasce la curiosità e la voglia di voler visitare, imparare e conoscere. Negli anni, sia per il calcio che da semplice turista, mi è capitato di conoscere disparati paesi della zona e devo dire Casarano ha un qualcosa di differente. Qui non si percepisce quell’aria di mescolanza con il turismo che da anni ha “invaso” la provincia e per certi versi persone, odori, suoni e case sono rimaste molto più fedeli a quell’Italia che oggi viene rappresentata negli stereotipi tanto cari agli stranieri, ma che nei fatti ha ceduto il passo ad una modernità fagocitante e omologante.
Sta di fatto che Casarano, oggi, con i suoi ventimila abitanti è il paese più grande di tutta la provincia, sebbene – come avrò modo di dire – anche quello più “avulso” dalla stessa, soprattutto dal capoluogo, verso cui esiste una datata e forte rivalità. Una rivalità che, riflessa nel calcio, ha senza dubbio contribuito a far tramandare di generazione in generazione il senso di appartenenza e l’amore per il proprio gonfalone, anche oltre le gradinate. E per quanto, agli occhi esterni e lontani da questa porzione d’Italia, possa sembrare assurdo tale astio tra una tifoseria ormai abituata alla Serie A, al confronto con le grandi metropoli, e una realtà che da venticinque anni si barcamena nel dilettantismo; mettendo piede in loco e respirando l’aria del posto, si carpisce bene il retroterra storico che l’ha alimentato, il collante che ancora oggi fa sì che, anche presso molte persone che il calcio non lo vivono con passione spasmodica, si riconoscano nei colori rossazzurri e nel serpente che sormonta le maglie del club cittadino. Un simbolo che, peraltro, apre lo scenario su una curiosità del tutto “araldica”: la sacàra (i salentini chiamano così questo rettile, che in italiano è conosciuto come cervone) è infatti protagonista di numerose leggende: si narra beva il latte materno per ottenere l’immortalità. Per nutrirsi morde il seno delle giovani madri o lecca le labbra ancora bagnate dei neonati, che indispettiti lo scalciano via. Durante la sua metamorfosi un corno compare sul suo muso, mentre piume sgargianti adornano la sommità del suo capo e riesca a confondere le sue prede imparando a imitare rumori degli amanti o risate di compagnia. La caratteristica legata a questa terra è che, sempre la leggenda, lo voglia strisciare tra gli alberi d’ulivo e i muretti a secco.
Tornando al calcio e ai suoi seguaci, oggi per i rossazzurri è una giornata importante. Oltre alla sfida sul manto verde, fondamentale per mantenere il contatto con la vetta della classifica, al Capozza arrivano gli angresi, con cui ormai da tantissimi anni esiste uno schietto rapporto di stima. Rispetto nato dalla comune esperienza al seguito della Nazionale e coltivato nel corso dei decenni, anche grazie al supporto logistico garantito dai campani in occasione di alcune udienze tenute a nella loro zona dai casaranesi. Peccato che ormai da diverse stagioni ai supporter salentini non sia più concessa la trasferta al Novi. Vittime di una delle tante ipocondrie dei (non) gestori dell’ordine pubblico, abituati ormai a compiere il massimo sforzo firmando veline e cartacce, adducendo la scusa della troppa vicinanza con Nocera. Sempre per questo genere di cronaca: anche oggi ai tifosi grigiorossi verranno concessi soltanto centoventi biglietti, al cospetto di un settore che può contenere oltre mille persone. Sulla motivazione neanche ci sarebbe bisogno di scrivere, basterebbe archiviare il tutto all’ormai diffuso delirio di onnipotenza che permette a Osservatori, Questori, Prefetti e Commissariati di non svolgere nemmeno il più semplice ed elementare servizio d’ordine. Tuttavia val la pena rammentare che tale limitazione sussiste dal dopo Covid e nessuno (di dovere) sembra intenzionato a tornare indietro. Mi chiedo se un giorno il Casarano dovesse salire in Serie C, come si comporteranno lor signori? Già, ma dimenticavo che con una semplice Bic possono interdire l’accesso in un luogo pubblico in base alla loro proverbiale discriminazione territoriale e utilizzando la scusa (perché sì, nella maggior parte dei casi di questo parliamo) della sicurezza.
A proposito di stadio: davvero bello il Capozza. Un rettangolo all’inglese, con gli spalti attaccati al campo e una conformazione perfetta per il calcio. I lavori di ristrutturazione che lo hanno riguardato nel 2007, sono stati salvifici per un impianto che all’epoca evidenziava alcune parti in decadenza. Affascinante, poi, il fatto che sia letteralmente incastonato tra le case e, va detto, non faciliti la gestione dei tifosi ospiti a causa degli spazi limitati. Non è un caso se ormai da qualche anno più di qualcuno vorrebbe che gli ultras cambiassero settore, permettendo così l’ingresso degli ospiti in Nord, meglio posizionata in fatto di viabilità in uscita dal paese. “Ovviamente” al momento la capienza è limitata a 6.500 spettatori, ma per dare l’idea delle sue potenzialità va citato il derby con il Lecce, giocato in Serie C nell’ottobre del 1995, quando all’evento presero parte ben diecimila tifosi (compresi gli ospiti, bei tempi eh?). Da sottolineare la presenza di un negozio che vende artifizi pirotecnici, proprio di fronte alla Gradinata. Un qualcosa di goliardico e tragicomico se si pensa al terrorismo psicologico esistente nei confronti di torce e fumogeni da ormai diversi anni. Fatta quest’ultima, sarcastica, annotazione, posso cominciare a portarmi verso gli ingressi. Proprio mentre vedo entrare i gruppi di casa con il materiale sotto braccio.
La prima cosa che risalta agli occhi, dopo aver messo piede sul campo, è la presenza di numerosi striscioni anche nella Gradinata. Si tratta di club, vero, ma considerato che parliamo pur sempre di un paese di ventimila abitanti, che sportivamente da anni non conosce gloria, questo dà l’idea di quanto detto qualche paragrafo fa: a Casarano l’attaccamento alla squadra di calcio non è affatto un qualcosa di secondario. Vero che vent’anni consecutivi di Serie C – tra gli ’80 e i ’90 – hanno lasciato un segno indelebile, ma è altrettanto vero che di generazioni ne sono passate davvero molte e, soprattutto, il sentimento anti-leccese dei casaranesi ha fatto sì che nel tempo non fossero particolarmente apprezzati dal circondario. Quindi, salvo qualche eccezione (peraltro decifrabile proprio dai club presenti) l’obbligo è sempre rimasto quello di brillare di luce propria. Perché ci tengo a sottolineare ciò? Perché la cultura calcistica, mischiata al senso di appartenenza, non si crea dall’oggi al domani e se, sicuramente, in Italia abbiamo la fortuna di avere innumerevoli esempi dove queste “virtù” marciano di pari passo, è altrettanto veritiero che ci siano anche piazze dove senza gli ultras, gli stadi sarebbero veramente cattedrali nel deserto. Ecco, probabilmente, uno degli elementi in cui sussiste la differenza tra una grande piazza e una buona piazza. Lo scaglione è dato dal popolo. E il popolo, checché se ne voglia dire, segue gli ultras, ma si infervora anche in tribuna, spaparanzato durante i novanta minuti ma al contempo “ignorante” e greve all’occorrenza. Un grande classico dei tifosi italiani, quello che assieme al tifo organizzato ci ha reso per ampi tratti della storia del secolo scorso, i migliori per distacco.
La stagione corrente, oltre che per un Casarano competitivo e volenteroso di cominciare a raccogliere i frutti degli ultimi investimenti (l’attuale proprietà, peraltro, è legata a quella che mantenne i rossazzurri nel professionismo fino al termine degli anni novanta), è importante anche perché vede il ritorno in Curva Nord da parte di tutte le entità ultras, fino allo scorso anno separate in due settori differenti. Inutile dire che in realtà piccole come queste, più che mai l’unione fa la forza e pur capendo i tanti e diversi modi che ci possono essere nel concepire lo stadio e la militanza, ritengo che, ove possibile, la scelta di marciare tutti nella stessa direzione – pur mantenendo la propria identità – sia a dir poco vitale nel 2024. Peraltro, mi si passi l’analisi spiccia, non posso esimermi dal notare come le prime linee presenti in Nord siano davvero un bel mix tra nuove leve e personaggi “stagionati” di tutto rispetto, che nei modi di fare e di porsi richiamano appieno alle generazioni con cui mi sono avvicinato alle gradinate. Quelle che, per intenderci, erano sì pronte al dialogo con il “forestiero”, ma non così aperte e preparate al contatto col mondo esterno di oggi (e in certi casi questo non è necessariamente un aspetto negativo), dove tutto va al triplo della velocità. E questo melting pot non può che riscontrare la mia profonda curiosità, oltre alla speranza che (facendo un discorso ad ampio spettro) si possa davvero convivere tra vecchi e giovani, sfruttando l’uno le conoscenze e le forze dell’altro. Almeno per dare ancora un po’ di vita a questo movimento che da qualche tempo è tornato sotto attacco da parte di diversi fuochi, ormai anche nelle sue categorie più infime.
La Nord di quest’anno, dunque, si presenta con lo striscione Caesaranum Superbia Nostra (utilizzato anche lo scorso anno da Street Mentality e Vecchio Stile – quest’ultimo non più esistente oggi – i gruppi che erano rimasti in curva) alla mia sinistra, con quello metà rosso e metà blu recante il solo nome della città (utilizzato lo scorso anno in Gradinata da CUSP, Casarano 1927, Portici Skonvolti ed Ich liebe dich a rappresentanza del progetto Casarano scelta di vita) e da una pezzetta di quello che, senza dubbio, resta il nome più iconico di tutta la storia del tifo rossazzurra: il Commando Ultrà Sao Paulo. Un gruppo che da queste parti si può considerare il padre di tutto ciò che è successivamente nato in ambito curvaiolo e che anche nel panorama italiano rappresentava, all’epoca, qualcosa di originale. Personalmente non posso dimenticare la celebre foto uscita inizialmente su Supertifo e riapparsa a più riprese sia sullo stesso giornale che in altre testate di “settore”, relativa alla coreografia nel derby con il Lecce del 1995, quando il suddetto gruppo compose, con centinaia di cartoncini, dapprima la bandiera brasiliana con i colori canonici, trasformandola poi in uno spettacolo che esaltava la cromia ufficiale del club. Uno spettacolo veramente grande e ingegnoso se si pensa agli anni (e anche alle difficoltà) in cui venne fatto. Poter osservare da vicino questo piccolo pezzo di storia è un onore per il sottoscritto, nonché il segno tangibile di quanto – malgrado le frequenti divisioni della piazza – il CUSP ancora oggi rappresenti l’anima salda per chiunque si avvicini allo stadio. Certo, questo non vuol dire che non ci siano differenze, anzi. Ogni gruppo, ogni compagnia, ha un suo modo di concepire le gradinate ma anche la vita di tutti i giorni, sebbene nel complesso Casarano resti una piazza senza troppi fronzoli, che anche oggi dimostrerà di badare molto più alla sostanza che alla forma. Inoltre io penso sempre che le differenze (quando possibile e se relative solo a un fattore “ideologico”) debbano fungere da arricchimento, da stimolo in più per fare meglio, dando vita a una sano confronto interno in grado di generare migliorie e novità che portino giovamento all’intera tifoseria.
Fattivamente, la ritrovata unione dei casaranesi, si tradurrà in una gran bella prestazione, supportata e premiata anche dalla vittoria della propria squadra. I salentini si mettono in mostra con un tifo di chiaro stampo italiano, fatto di tante manate, cori tenuti a lungo, una sciarpata nel finale e bandieroni sempre al vento. Alcuni stendardi esposti hanno palesemente visto anche gli anni belli del Casarano, e questo è sempre molto affascinante. Così come carico di significato è notare al megafono sia giovanissimi che “anziani”. Nel corso della gara viene esposto uno striscione che conferma la stima esistente nei confronti degli angresi, che a loro volta rispondono con il classico “rispettiamo chi ci rispetta”. Sempre tornando in zona Gradinata, non sfugge alla mia vista la sciarpa dell’Opposta Fazione messa sullo striscione del Casarano Club Collepasso, paese a una manciata di chilometri da qui. Ricordo con una certa lucidità questo gruppo di rottura nato nel 98 che ora si ritrovano in curva sotto la sigla Padri di famiglia.. Uno dei pochi (sicuramente assieme a juventini, nocerini e ceccanesi, scusate se dimentico qualcun altro) a prendere spunto dal celebre striscione romanista. La conferma, inoltre, dello stretto rapporto tra tutte le entità del tifo locale. Paradossalmente spesso divise, ma sempre unite dalla fede e dalla “riverenza” dei confronti della componente ultras.
Per quanto riguarda il settore ospiti, i campani si presentano nel tacco d’Italia in un centinaio scarso, numeri tutt’altro che negativi se si pensa alla distanza, al campionato mediocre finora disputato dalla loro squadra e dal particolare periodo che stanno vivendo dal punto di vista della repressione. Gli angresi sono una di quelle tifoserie su cui c’è sempre poco da appuntare per quanto riguarda la performance canora: lo zoccolo duro forma un bel blocco al centro della curva e sostiene il cavallino rampante dal primo all’ultimo minuto di recupero, sciorinando il classico repertorio fatto di cori secchi e a rispondere. Qualche canto più “in voga” viene tenuto per diversi minuti e, in particolar modo, molto bello è quando dopo il 2-0 subito (sarà il risultato finale) alzano ancor più i decibel, mettendo in evidenza tutto l’orgoglio per il gruppo e per i propri colori, ancor prima del verdetto maturato sul campo. Nel corso degli anni Angri, a più riprese, ha mostrato tutto il proprio valore, non abbassando mai la testa e ripartendo con sacrifici e orgoglio dai bassifondi del calcio campano, popolando spesso con grandi numeri anche campetti polverosi del circondario, nonché le gradinate del Novi. La conferma di quanto la loro storia non abbia mai cessato di scrivere nuove pagine e di quanto in città si sia sempre fatta aggregazione in nome del pallone, malgrado siano cambiate le generazioni e il modo di stare sulle gradinate. Se è vero che nessuna categoria spetta per grazia ricevuta, è altrettanto vero che per questi ragazzi la Serie D è senza dubbio un livello consono, anche per la possibilità di confrontarsi con altre valide piazze.
Al triplice fischio arriva l’ovazione dello stadio per i rossazzurri. Una vittoria che conferma gli obiettivi stagionali e tiene saldamente i salentini ancorati alle prime posizioni, a pochi punti dalla Nocerina capolista. La squadra corre sotto alla Nord ricevendo l’abbraccio del pubblico e saltellando al ritmo dei tamburi e dei cori scanditi dai casaranesi. Ci sono applausi d’incoraggiamento anche per l’Angri, da parte di una tifoseria conscia dei propri limiti sportivi e del fatto che non fosse oggi la giornata in cui cercare punti per la classifica. Rimango ancora un po’ sul terreno di gioco, osservando il pubblico defluire e concedendomi le ultime foto con gli spalti vuoti e riscaldati dalle luci del tramonto. Dopodiché riconsegno la pettorina e mi porto all’esterno, dove le forze dell’ordine non stanno lasciando spazio all’ultimo, pacifico, saluto tra le due fazioni, accelerando nervosamente e senza motivo la ripartenza dei supporter grigiorossi. Un atteggiamento davvero privo di ogni logica, che ancora una volta lascia intendere quanto dalle stanze di questi asettici burocrati, spesso provengano ordini e diktat figli di una totale ignoranza nell’argomento trattato e gestito. Ma tant’è.
Questa lunga e intensa giornata sta volgendo al termine. Le tenebre sono ormai calate su Casarano e prima di andarmene definitivamente via posso concedermi un ultimo giro per la città, che ora mostra tutta la sua vivacità notturna. Tantissimi adesivi di stampo ultras sono disseminati per le strade, marcando ossessivamente il territorio e confermando quel forte legame tra squadra, curva e tessuto sociale di cui ho ampiamente parlato in precedenza. C’è un evidente richiamo a ciò che siamo stati, in fatto di stadio, negli anni novanta, che si mischia con il rispetto dei più giovani nei confronti delle vecchie generazioni, ma anche con la voglia di portare avanti il discorso ultras in un luogo che, dal punto di vista giovanile, forse offre poco e a qualcuno non permette di programmare il proprio futuro, costringendo a dire addio alla terra natia e doversi adattare. Eppure, come mi è capitato spesso in questi anni, anche quando a distanza di centinaia di chilometri ti diranno di essere casaranesi, con tutta probabilità nel discorso uscirà fuori l’attaccamento ai colori sociali e alla sacàra. Un tratto distintivo per chiunque venga da queste strade e da questo paese. Mi attendono altre otto ore di pullman, stavolta a ritroso, verso Roma. Dopo aver raggiunto Lecce, camminando fino a Piazza Carmelo Bene mi ritrovo di fronte al rosso torpedone Itabus. Qua ufficialmente finisce la mia giornata e ricomincia il sonno interrotto al termine del viaggio d’andata. Me ne vado soddisfatto, ma con un po’ di inquieta nostalgia che da qualche tempo mi pervade alla fine di ogni giornata trascorso sui campi. I segnali che il nostro Mondo possa essere stavolta davvero agli sgoccioli, stritolato da tanti fattori esterni (ma sì, ovviamente, in parte, anche da numerosi autogol), malgrado gli ultimi tre anni di rinnovato movimento e popolamento dei settori (forse proprio per questo, anzi!), ci sono tutti. Così ogni occasione da vivere sembra fondamentale, perché potrebbe non tornare più. E ogni occasione persa può trasformarsi repentinamente in un rimpianto insanabile. Quindi vivo alla giornata e come fosse sempre l’ultima volta, nella speranza di poter dire di aver vissuto fino all’ultima goccia di emozioni. Malgrado tutto e tutti… viva gli ultras!
Simone Meloni