Dicono che Dino sia stato uno che amava solfeggiare a tempo perso l’inno dei Fedayn Roma.

“…e quanno moro io, nun vojo Gesù Cristi, ma solo gajardetti dei Fedayn teppisti…”.

Lo faceva con quella spensieratezza che ha contraddistinto la sua generazione. Quella che gli stadi li ha riempiti a prescindere. Quella che aveva poco altro al di fuori delle gradinate e che sulle gradinate ha costruito la propria gioventù.

Dino era uno che i vecchi Fedayn – quelli di Cassino – li aveva vissuti e li viveva tutt’oggi. Con il loro spirito anni ’80, con il loro amore ancestrale e zingaresco per la squadra. Quel modus vivendi che ti regala giocoforza l’immortalità. Perché anche nel porgerti l’estremo saluto ogni lacrima scesa sulle gote è corrisposta a un pensiero bello e positivo. Teso con un filo a unire tante generazioni di cassinati. Quelle che sui gradoni vetusti della Laterale Sud si sono avvicendati tramandandosi nella mente e nel cuore l’amore per la propria città e i propri colori.

Dicono che Dino domenica abbia esultato per la vittoria contro il Latina ed è uscito dal Salveti con un sorriso a trentadue denti, continuando a cantare i cori di un settore tornato a essere il dodicesimo uomo. Con bandiere, tamburi, striscioni e un ritrovato fomento vecchio stampo. Di quello semplice. Di quello che i vecchi frequentatori degli stadi possono rivedere guardandosi indietro.

Lasciare questo mondo dopo aver visto la propria squadra vincere un derby. Lasciarlo dopo aver cantato per lei e dopo aver contribuito a vincere. Dino ha voluto farlo così, camminando nel cuore della sua città. Di quella Cassino che vive ai piedi dell’Abbazia ed ha saputo rialzarsi dai bombardamenti, dalla distruzione e dalla miseria. Probabilmente il paradigma di un ragazzone che del sorriso ha fatto sempre il suo scudo. Che nello sport – nel calcio – ha voluto riporre la propria anima a vita.

No. Non si può e non sarebbe giusto raccontare questo Cassino-Latina come una partita normale. Ma forse non è giusto neanche farlo in tinte nere e funeree. Perché personaggi come Dino sono i classici guasconi del nostro mondo che pure da lassù ti direbbero: “Se mi vuoi salutare l’ultima volta fallo scherzando, con un sorriso, con un fumogeno e con un coro”.

Io Dino non lo conoscevo di persona, quindi non voglio impormi in una prosa sentimentalista per accalappiare qualche lettore in più. Però l’ho visto tante volte in questi anni, quello sì. Da quando ho ricominciato a scattare sui campo, con il calcio e gli ultras che mi mancavano come il pane, Cassino è diventato uno dei campi più battuti. Più per una pertinenza regionale che per una vicinanza geografica. Più per inoltrarmi in un modo tutto sommato strano, pieno di contraddizioni e piacevoli stranezze come quello del Basso Lazio. Questa zona di eterni confini cambiati, contesi e discussi, eterni contrasti campanilistici ed eterne montagne che lentamente scendono al mare.

Dino ci ha lasciato con le esultanze dei suoi ragazzi negli occhi e i canti della sua curva nel cuore. Vigilerà per sempre su ciò che ha amato e di tanto in tanto farà sortire la sua testa sulla cima di Montecassino, a vegliare la città e il campo da gioco. Ricorderà a tutti come anche nelle disgrazie bisogna saper restare sobri e continuare a sorridere, mantenendosi leggeri.

Ricorderà a tutti i ragazzini di Cassino che la squadra cittadina è un’istituzione da salvaguardare e mantenere viva per sempre.

In quella strada del centro dove lui ha salutato i suoi ricordi, il suo passato e il suo presente cresceranno altre generazioni di ragazzi pronti a succedergli. Pronti a ricordare questo Cassino-Latina. Sempre col sorriso in faccia e quella gioia nel cuore per aver vinto una delle partite più attese dell’anno.

Riposa in pace vecchio Fedayn!

Simone Meloni.