Sono stato per la prima volta a Catanzaro lo scorso anno. In occasione della partita di Coppa Italia contro il Padova. Una giornata particolare per “esordire” al Ceravolo. Si stava lentamente uscendo dalla pandemia, il ritorno negli stadi era avvenuto da poco e non ancora totalmente. E l’orario della sfida non permise certo il pubblico delle grandi occasioni. Un match di nicchia, per certi versi, del quale però vado fiero. Se vuoi conoscere una piazza, se ne vuoi saggiare lo spirito e l’anima, cerca di vederla in una giornata “ordinaria”.
Anche oggi arrivo in treno, costeggiando il Tirreno fino a Lamezia e godendo di ampi sprazzi primaverili lungo questa parte di Stivale. So bene che troverò un clima ben diverso rispetto all’ultima volta. Le Aquile stanno disputando un campionato sensazionale e giornata dopo giornata, quella B che manca da ben diciassette anni sembra materializzarsi inesorabile. La città, che in questi anni non ha mai abbandonato la sua squadra, sta rispondendo alla grande e il connubio creato tra tutte le componenti è ovviamente granitico. Fondamentale per riportare allo stadio anche chi si è un po’ defilato. Perché poi, non ci mentiamo, i risultati sportivi alla lunga contano eccome. Anche se hai una tradizione consolidata. Per rendere l’idea di quanto il tifo per il Magico sia radicato in quest’area, è sufficiente pensare che la quasi totalità dei paesi della provincia sono già imbandierati e pronti a festeggiare, così come molti centri posti sotto l’egida comunale di Crotone.
In tal senso suona davvero ridicolo il divieto imposto ai tifosi catanzaresi in vista del match dello Scida. Se è vero che ormai non ci sorprendiamo più di nulla quando a pronunciarsi sono gli organi deputati, d’altro canto è palese la situazione di illogicità e incongruenza che gli stessi alimentano. Un tifoso giallorosso residente nella provincia di Crotone potrà regolarmente acquistare un tagliando e presenziare in tutti i settori, fuorché in quello destinato agli ospiti. Ciò significa promiscuità e serio rischio di problemi. Il fatto che questi signori possano agire indisturbati e partorire settimanalmente tali scempi è la perfetta cartina al tornasole di un Paese morto e sepolto da un punto di vista gestionale e mentale.
Una morte che riflette lo stupro totale di una Penisola che per millenni ha coltivato e cresciuto importanti embrioni di cultura e sviluppo. Ci penso spesso viaggiando all’interno dell’Italia. Mi chiedo sempre con quale percorso si sia arrivati a realizzare le città che visito o a mantenere intatti territori e panorami invidiabili (quando, ovviamente, la longa manus di appalti e architetti criminali non ha ben pensato di rovinare tutto con una colata di cemento). E lo faccio anche oggi, risalendo dalla nuova stazione di Germaneto fino in città, su quello sperone posto a 320 metri s.l.m. chiamato Trivonà, dove il capoluogo della Calabria sorge, eretto su tre colli: San Trifone, Del Vescovato e Del Castello.
Leggenda vuole che l’origine di questo centro urbano sia dovuta a Cattaro e Zaro, due militari bizantini a cui si fa risalire la fondazione di Rocca Niceforo (l’attuale Catanzaro). Secondo la leggenda, per sfuggire alle incursioni saracene, i due condussero la popolazione rivierasca di Scolacium (Squillace) prima sul colle Zarapotamo e poi successivamente sul Trivonà. Va detto che questo spostamento, tuttavia, avvenne veramente – come succedeva spesso per difendersi dagli assalti dei saraceni – ed è tradizionalmente attribuito al generale bizantino Niceforo Foca. Successivamente la fortezza si sviluppò, divenendo centro urbano, venendo incastellato e assumendo il nome di Katantzárion, che dovrebbe derivare dalla fusione tra la parola greca Kata (sotto) e l’arabo/dialettale Anzàru (pianoro), volto a indicare la posizione geografica della città.
Una posizione ulteriormente strategica in virtù della difesa naturale offerta dalle profondissime valli in cui scorre la Fiumarella, una delle tante fiumare che attraversano il territorio calabro. Un particolare corso d’acqua, secco e bruciato dal sole in estate, portentoso e caratterizzato dalla furia idrica nelle stagioni piovose. Da amante dei treni, peraltro, non posso evitare di menzionare il grave incidente ferroviario a cui la stessa ha dato il nome e dove nel 1961 morirono 71 persone, a causa di un vagone delle Ferrovie Calabro Lucane precipitato da un viadotto, poco dopo aver abbandonato la stazione di Soveria Mannelli.
Ma Catanzaro è conosciuta anche come città dei due mari, potendo dominare l’istmo (il più stretto d’Italia) a cui dà il nome e da cui, maestosamente, si possono ammirare da una parte lo Jonio e dall’altra il Tirreno. Fa sempre un certo effetto immergersi nel paesaggio aspro della Calabria. Una suggestione importante per chi, come il sottoscritto, spesso cerca il riverbero della natura selvaggia per trovare tranquillità. Una suggestione che aderisce perfettamente anche a tutto l’aspetto storico che per millenni ha attraversato, formato e modellato alture, città e mari di queste latitudini. È ovviamente un legame grande e indissolubile per qualsiasi tifoso, che di norma ama innanzitutto la sua terra e di conseguenza si ritrova a rappresentarla in curva con striscioni, stendardi e sibillini richiami al passato e, dunque, alle proprie radici. In Italia abbiamo la fortuna di divulgare storia anche quando non ce ne rendiamo conto, anche quando parliamo e i nostri dialetti tradiscono dominazioni, influssi e brevi passaggi di culture e popoli a noi apparentemente lontani.
Mi viene in mente la pezza con cui si riconosce la vecchia guardia degli UC ’73: Antichi Tessitori. Un chiaro riferimento alla natura setaiola della città (che peraltro in passato era detta “delle tre V” – vento, velluto, San Vitaliano, il patrono -, tanto che la sigla VVV indicava nei mercati nazionali ed esteri, i velluti, i damaschi e i broccati provenienti da Catanzaro) che deve la dedizione a quest’arte al dominio normanno. Dominio che per la città è stato croce e delizia e dietro cui si cela una storia affascinante, che sicuramente rappresenta molto lo spirito cittadino. Catanzaro fu l’ultima città calabrese a cadere sotto l’egida normanna, che poi paradossalmente regalò alla città uno dei periodi più fiorenti della propria storia. Ciononostante alla fortezza è legata una delle ribellioni più cruente e significative degli autoctoni: nel XV secolo, tentando di sbarazzarsi del marchese Alfonso de Centelles (marito della regnante Enrichetta Ruffo) – reo di aver stremato la città a suon di tasse e balzelli -, la popolazione appiccò un incendio di proporzioni notevoli (sebbene alcune versioni sostengano che sia stato il marchese stesso a favorire le fiamme). Il vento, tuttavia, sospinse la vampata nel borgo sottostante, bruciando le abitazioni. Questa zona, infatti, oggi prende il nome di Case Arse. Un incredibile scherzo del destino (quasi dantesco, sic!) se si pensa che precedentemente a questi fatti il rione prendeva il nome di Paradiso. È un episodio importante per la storia cittadina, perché oltre a narrare una rivolta dal basso, diede vita a diversi anni di guerre intestine, con i seguaci di Centelles sistematicamente trucidati in pubblica piazza.
Visto che quando parliamo di ultras spesso narriamo di amori infiniti, tormentati e anche non corrisposti (e nel caso del Catanzaro c’è una sfilza di esempi) non si può non citare il caso di Rachele De Nobili e Saverio Marincola. Due innamorati facenti parte di famiglie nobili nemiche (i primi fedeli ai Borbone, i secondi bonapartisti), protagonisti di proibiti incontri d’amore presso il Palazzo De Nobili (oggi sede del Municipio) e osteggiati dalle rispettive parentele, a tal punto che una sera il ragazzo venne ucciso dai fratelli della pulzella, che poi si diedero alla macchia venendo condannati in contumacia. Latitanti a Corfù, per farsi perdonare dai Borbone svelarono a questi la spedizione dei Fratelli Bandiera, facilitando così la cattura e la fucilazione dei due patrioti.
Camminare per i vicoli di un centro storico risveglia sempre curiosità. Queste strette lingue di pietra che prendono il nome di rughe, oggi ospitano anche diversi locali, movimentati e vivacizzati dalla gioventù. Ovviamente non mancano tinte di giallorosso, che si scorgono all’interno degli esercizi e che quest’anno adornano finestre e palazzi. La città si prepara alla sfida con l’Avellino, in un revival delle vecchie partite della Serie A anni ’70-’80, tra due club che hanno molto passato in comune e che oggi, tuttavia, si ritrovano quasi agli antipodi da un punto di vista di fortune pallonare.
Ho avuto modo di parlare della bellezza del Ceravolo già in passato, eppure è un impianto da cui resto ancora una volta affascinato. Sarà perché è uno dei più vecchi d’Italia (fondato nel 1919 e conosciuto negli anni come Piazza d’Armi, Stadio Militare, Stadio Divisionale e Stadio Comunale. Intitolato dal 1989 allo storico presidente che guidò le Aquile dal 1958 al 1979), sarà perché la sua conformazione – incastonata tra le case – i suoi spalti e tutto quello che gli sta attorno, trasmettono un’idea unica di calcio e tifo. Ormai rara e troppe volte barattata con impianti moderni, privi di qualsiasi anima. I baretti che lo circondano strabordano di tifosi, mentre qua e là le bancarelle vendono a poco prezzo sciarpe e bandiere del Catanzaro. Uniche due pecche, se devo essere sincero, sono rappresentate dalla nuova tribuna in stile palazzo, installata da qualche anno sopra a quella destinata alle autorità e dall’abbattimento del pino marittimo che per anni ha stazionato orgogliosamente all’interno della Capraro. Sapere che non farò mai più in tempo a vederlo mi addolora e mi ricorda quanto sia importante cogliere gli attimi giusti nella vita!
Ricordare quanto gli ultras giallorossi abbiano sempre seguito fedelmente la causa, significa guardare con interesse tutto il retroterra umano e sottoculturale che questa città ha sempre espresso nel calcio. Un’aggregazione che ha tenuto in vita per ben cinquant’anni un gruppo storico come gli Ultras Catanzaro, e che ha permesso a intere generazioni di bypassare le pessime vicende calcistiche del club. Sì perché, a conti fatti, si può dire che se l’anno prossimo il Magico disputerà il campionato cadetto, per quasi tutti sarà una “prima volta”. I due tornei giocati a metà duemila sono ancora un triste e doloroso ricordo, due retrocessioni fragorose (inframezzate da un ripescaggio) e veloci che di certo non hanno aiutato a togliersi di dosso quella fama di tifoseria tosta, rognosa, presente ma perennemente sfortunata a livello calcistico.
Sì, è chiaro, il “sentimento” esistente attorno al Catanzaro, quello che travalica i confini cittadini e che tra i più grandi è riuscito a diffondersi anche in zone ostili della Calabria, nasce dagli anni della Serie A. È figlio della finale di Coppa Italia del 1966 persa solo ai supplementari contro una Fiorentina che due anni dopo si sarebbe laureata per la seconda volta campione d’Italia. Una finale raggiunta da Cenerentola della Serie B, eliminando nientepopodimeno che la Juventus in semifinale, a Torino. È figlia di quel sodalizio che per la prima volta riuscì a portare in massima divisione la Calabria e che negli anni settanta si guadagnò una certa simpatia risultando costantemente avverso – nel tifo – ai grandi club del Nord. Rimangono peraltro celebri i cruenti scontri andati in scena al Comunale di Torino nel 1976, quando durante la sfida tra la Juve (ancora lei) e i giallorossi (finita con un netto 3-0) una lite tra Franco Causio e Paolo Braca fece scattare la molla: dalle tribune ci fu una vera e propria rivolta messa in scena dagli ospiti presenti.
Tumulti che affondavano le radici in motivazioni ben distanti dal calcio (basti pensare proseguirono per ore fuori, vedendo impegnati anche pugliesi, campani e altri meridionali, che in quel momento volevano vendicare la posizione di emigrante irriso e sfruttato dal padrone sabaudo) e che, come spesso avviene, sulle gradinate trovarono il proprio sfogo. Peraltro quella fu la prima volta in cui venne comminata a una società la squalifica del campo per intemperanze dei propri tifosi.
Una curiosità: la prima vittoria del Catanzaro in A avvenne il 30 gennaio del 1972. Indovinate contro chi? La Juventus, ovviamente. Un successo storico firmato dal gol di Angelo Mammì, attaccante nato a Reggio Calabria ed eroe di quella giornata (nonché eroe della promozione in A, essendo l’autore della marcatura con cui l’anno prima permise alla sua squadra di battere il Bari nello spareggio di Napoli). Essere un reggino in maglia catanzarese negli anni ’70 poteva non rappresentare la migliore aspirazione per una vita tranquilla. Parliamo degli anni delle rivolte per Reggio capoluogo, dei moti fomentati da Ciccio Franco e dai “Boia chi molla”. Una caldera vera e propria, che con tutta probabilità ha incarnato una delle pagine più violente della recente storia meridionale e che, trasposta al calcio, costrinse a far giocare una sfida tra giallorossi e amaranto (1970) lontano dalla Calabria, lontanissimo: a Firenze.
E Firenze è un’altra città che torna sovente nella storia del tifo catanzarese. In particolar modo è ancora la Juve a lasciare il segno (stavolta indirettamente) tra i tifosi calabresi. La sfida del 16 maggio 1982 – con i bianconeri costretti a vincere per cucirsi il ventesimo tricolore e vanificare le speranze dei toscani, secondi – narra di un pubblico del Ceravolo nettamente schierato a favore dei viola e impegnato nella “caccia al gobbo” a partita finita, con la Juve Campione d’Italia grazie a un rigore siglato da Brady. Un atteggiamento che fu l’embrione del gemellaggio tutt’oggi esistente, sentito e vicendevole. Storie figlie di un calcio lontano quasi mezzo secolo, che però si sono tramandate con efficacia proprio grazie a quella cultura da stadio e a quel modo arcigno di seguire il Magico che contraddistingue i tifosi nati e cresciuti sui tre colli.
Ecco, questo per spiegare in piccola parte i diecimila giunti quest’oggi al Ceravolo. Ma anche quel manipolo che negli anni si è sobbarcato chilometri senza poter aspirare a chissà quale traguardo sportivo. Anzi, spesso e volentieri imbattendosi in spareggi persi e tifosi avversari intenti a festeggiare. In queste circostanze o si molla o ci si fortifica. E credo che se oggi una sigla come quella degli UC ’73 sia ancora là al proprio posto, abbia ancora determinate credenziali e sia riuscita a dar vita a un fondamentale ricambio generazionale, non sia casuale. Ricambio che poi nelle piazze del Sud è spesse volte difficile. Qui l’emigrazione ancora “colpisce” pesantemente e rimanere ancorati al proprio gruppo è una condizione talvolta impossibile quando si è distante migliaia di chilometri.
La Capraro negli anni ha visto varie sigle avvicendarsi, alcune importanti e incisive dal punto di vista della mentalità e della “formazione” (Tipsy, Brigata e Gruppo Stadio/QSC meritano assolutamente una menzione riferendosi agli anni ’90, i Volti Noti vanno certamente ricordati per la loro recente militanza), ma mai ha visto ammainare la bandiera del gruppo principale. Che poi il concetto di “gruppo portante” con gli anni è divenuto sempre più difficile da portare avanti. Tra chi è stato praticamente falcidiato dalla repressione, chi non è riuscito a formare nuove leve e chi ha traghettato il proprio leggendario nome verso deprecabili forme di guadagno o mitomania. Sicuramente anche gli UC hanno avuto i loro momenti critici, sarebbe impossibile il contrario, ma per come li ho visti oggi credo che la perfetta congiunzione astrale sia arrivata proprio nel momento giusto, a ridosso del ritorno al confronto con numerose piazze importanti e tutt’altro che amiche.
Peraltro credo che questa militanza inossidabile sia resa ancor più intergenerazionale dai vari movimenti sottoculturali che da sempre hanno caratterizzato gli ultras catanzaresi. All’interno della curva, infatti, hanno sempre trovato ampiamente spazio correnti Skin, Herbert e soprattutto Mod. Quest’ultima (a cui, peraltro, faceva capo anche il compianto Massimo Capraro) ha avuto due filoni importanti: il primo creatosi sul finire degli anni ottanta e il secondo nei primi duemila, prendendo talmente piede da permettere l’organizzazione di vari raduni nazionali in città. Insomma, quando la cultura da stadio amplia le proprie vedute e riesce a fondersi con altre subculture, scambiandosi nozioni, modi di vivere e ideologie, diventa giocoforza un perno centrale per i giovani e riesce a tramandarsi con una certa costanza.
Ecco diciamo che se dovessi descrivere la realtà catanzarese direi che ci troviamo di fronte a una curva che di fatto – per attaccamento, vitalità e voglia di confronto – non ha nulla da invidiare a tante grandi piazze italiane. E che se il fato calcistico la assisterà da qui ai prossimi anni, ha davvero l’opportunità di crescere a dismisura, facendo maturare una generazione che da qualche tempo ne ha preso in mano le redini, ben orchestrata dai più vecchi alle spalle.
Guadagno l’ingresso sulla pista d’atletica quando mancano una ventina di minuti al fischio d’inizio. Giove Pluvio ha ben pensato di aprire i suoi rubinetti proprio ora. Fortunatamente si tratta più che altro di una perturbazione passeggera, che donerà ancor più a questa sfida un’aria verace e genuina. Il tartan bagnato, su cui si riflettono fedeli le immagini delle tribune, lascia immaginare quanto sarebbe bello un utilizzo smodato della pirotecnica, con torce e fumogeni a levarsi pesanti tra l’umidità e a far iniziare con qualche minuto di ritardo la gara. Ma queste cose ormai sono fantascienza da noi, quindi bisogna guardare alla realtà. Che è comunque di gran livello in questo pomeriggio di marzo. La gradinata coperta e i tifosi con sciarpe e cappelli giallorossi sembrano ricalcare uno di quegli stadi inglesi degli anni ’70, mentre la curva comincia a scaldare i motori quando le due squadre fanno capolino dagli spogliatoi.
Ovviamente è una Capraro in grande spolvero, che sente l’obiettivo a un passo e che sin da subito mette le cose in chiaro facendo la voce grossa. Gli ultras calabresi indicano allo stadio la strada e i presenti – con il passare del tempo e la rimonta delle Aquile che dallo 0-1 iniziale finiscono per travolgere i campani con un impietoso 4-1 – non se lo fanno ripetere, finendo spesso e volentieri per divenire un tutt’uno con il tifo organizzato. Vengono realizzate due sciarpate, entrambe di pregevole fattura e nel finale il grido “Serie B, Serie B” non lascia nessuno spazio a riti apotropaici. I quattordici punti maturati sul Crotone (fermato nel pomeriggio sul pari dal Picerno) sono un bottino importante e neanche la sfida contro i pitagorici, a questo punto, sembra spaventare i catanzaresi.
Capitolo ospiti (perché poi le partite sono rese belle e uniche solo quando sugli spalti esiste una controparte): in Irpinia sono stati venduti 216 tagliandi. Un numero più che dignitoso se si pensa al campionato mediocre che i biancoverdi stanno disputando e al vespaio di polemiche in corso tra la tifoseria organizzata e una società che spesso e volentieri sembra operare senza un ordine di idee e un obiettivo preciso.
Gli avellinesi si sistemano al centro del loro settore dietro lo striscione 1912 e sostengono senza sosta il Lupo fino al 90′. Bandieroni sempre al vento, manate, stendardi e cori a rispondere. Davvero poco da rimproverare, anche pensando allo spettacolo (tutt’altro che edificante, per loro) che nel frattempo va in scena sul terreno di gioco. Io credo – e mi è capitato già di dirlo altre volte – che a una piazza del genere si possa rimproverare poco in fatto di passione per la propria squadra di calcio. Poi ognuno può avere un pensiero più o meno positivo sulla Curva Sud, possono piacere o meno gli ultras biancoverdi, ma una costante che storicamente hanno mantenuto – malgrado categorie e tragedie sportive – è l’attaccamento. Non è affatto scontato, soprattutto quando si pensa a chi contesta una squadra prima in classifica o reduce da ottime annate.
Per la cronaca: nulla da segnalare fra le due tifoserie.
Adesso la luna domina il Ceravolo, mentre gli ospiti vengono fatti uscire dalle gradinate e i catanzaresi restano nel loro settore ancora un po’, a festeggiare e intonare diversi cori in favore di alcuni che proprio nella giornata di oggi sono tornati dalla diffida. Un bel regalo che il destino gli ha voluto fare, in occasione di una partita che ha dato a tutto l’ambiente un’altra botta di entusiasmo. Lentamente anche loro finiscono per defluire e all’interno dello stadio rimaniamo io e pochi altri. Ho la solita sensazione di esser solo nel tempio deserto, e per questo lo ammiro e lo rimiro, girando e cercando di cogliere qualche particolare impossibile da vedere con i tifosi sugli spalti. Mi avventuro sulle gradinate e poi in curva, cogliendo la sacralità di quei seggiolini vuoti e notando con piacere come una volta tanto non ci siano steward ansiosi a cacciarmi via per chiudere i cancelli e porre fine alla loro infima giornata lavorativa. È l’ultimo atto di questo pomeriggio calcistico. E voglio godermelo appieno!
Mi aspetta un lungo rientro verso casa. Mi aspetta di nuovo un finestrino da cui intuire il mare, stavolta nascosto dalle tenebre. Entro in un bar, davanti alla stazione di Lamezia e sgranocchiando qualcosa mi imbatto in un avventore canterino, che dalle sue corde vocali sta facendo il verso ai Cugini di Campagna, interpretando magistralmente Anima Mia. Mi farebbe ridere in altre situazioni, stasera mi lascia un velo di tristezza. Forse per l’espressione mogia del ragazzo al banco, che mi dice: “Almeno mi tiene compagnia”. Lo scalo ferroviario lametino è un posto che non trasmette propriamente allegria e lascia intendere quante anime ci passino quotidianamente, molte lasciando in questa terra amori e legami per tentare altrove la fortuna. Molti altri per tornarvi, magari proprio al seguito della loro squadra del cuore.
Che in fondo resta uno dei legami più autentici e duraturi. Uno dei pochi in cui rifugiarsi quando ci si sente soli. Perché in virtù di quanto scritto, è nel vessillo da stadio che sovente si ritrovano le proprie radici e le storie di una vita. E questo vale per tutto il nostro squinternato e poco rassicurante Paese.
Simone Meloni







































































































































