Chi ormai inizia a vedere gli effetti della battaglia che i capelli bianchi stanno vincendo a discapito di quelli neri è accomunato da un ricordo, ormai lontano e un poco sbiadito, che riguarda il “nostro” calcio e che ci è stato tramandato dai nostri genitori: le partite di calcio la domenica alle 15.00. Abbiamo avuto il piacere di essere stati partecipi di quell’ultimo gradevole periodo di stadi pieni e orari ben definiti.

A dire il vero, le partite non erano sempre e solo alle quindici neppure allora. Si iniziava con le prime e si finiva con le ultime giornate alle ore 16.00, passando per il periodo invernale dove, per una manciata di settimane, l’inizio era fissato alle ore 14.30, per sfruttare al massimo le poche ore di sole che i pomeriggi invernali concedevano; e perché no, anche per evitare il completo assideramento di coloro che erano la motrice economica di questo fantastico sport: i tifosi.

Già, perché per quanto assurdo possa sembrare oggi, alla voce “entrate”, era la vendita di biglietti e di abbonamenti quella che aveva la maggior incidenza. E quindi, nell’interesse di tutto il movimento, il tifoso era quantomeno preso in considerazione, ovviamente sempre in maniera congrua con i bisogni del tempo. Già, i bisogni di QUEL tempo. Quando non fregava a nessuno di avere l’acqua calda nei CESSI dello stadio. “Cessi” volutamente in maiuscolo, perché allora non ricordo qualcuno che abbia mai detto “i bagni dello stadio”. Oggi i bisogni sono cambiati, i cessi sono diventati bagni o toilette e il baracchino che vendeva le bottigliette d’acqua dietro una grata è diventato un vero e proprio ristorante; il campionato è suddiviso, quando va bene, in ben tre giorni: il sabato ci sono tre partite, alle 15, 18 e 20.30. La domenica si gioca alle 12.30, qualche partita alle 15 e una alle 20.30. Il lunedì una partita alle 20.30. Tutti questi orari strampalati giustificati dall’abietta frase: “il prodotto calcio così si vende meglio”; e ancora: “se il calcio italiano vale di più, ci guadagnano tutti”. Eh no, cari signori. Ci guadagnano tutti un paio di palle. Vorrei capire in che modo io, tifoso di una squadra di provincia che difficilmente viene considerata in trasmissioni televisive o sulla carta stampata, posso guadagnarci con una partita giocata il lunedì sera. Che guadagno posso avere nel dover, quando è possibile, perdere un’ora di lavoro, fare tutto di corsa ed affrontare il traffico per arrivare allo stadio. Che guadagno posso avere nell’arrivare a casa il lunedì sera dopo la partita, anche qui quando va bene, intorno alla mezzanotte, perdendo pure qualche ora di sonno. In quale momento della giornata la vostra mente perversa ha partorito l’idea che giocare la domenica alle 12.30 per favorire i telespettatori cinesi possa in qualche modo giovarmi, o giovare al movimento?

Il paragone che avete creato non si regge in piedi. Più visibilità=più soldi=calcio italiano più forte; questa è la vostra teoria. In osservanza a questa equazione che non ci siamo nemmeno qualificati per i mondiali di calcio? Mi pare che chi ci guadagna non siano i tifosi, ma ancora una volta i pochi eletti che per proprio tornaconto personale hanno rovinato la passione più bella per un italiano: tifare per una squadra di calcio. La PROPRIA squadra di calcio e buttarsi anima e corpo per nutrire questa passione.

Rispetto per i tifosi, trasferte libere senza assurde repressioni e orari decenti possono far tornare gli stadi pieni e far rinascere l’ardore di una passione popolare. Allora, e solo allora, quello che voi considerate “prodotto calcio” potrà davvero essere interessante agli occhi di tutti. Ma finché in nome del Dio Denaro verrà privilegiato il telespettatore distante 7.000 Km a detrimento del tifoso che siede sui gradoni di uno stadio, la vostra teoria rimarrà tale e destinata al fallimento.

Luigi Cantini