La vecchia motrice si avvicina esausta alla banchina, sbuffando in maniera stridente con i freni che quasi smorzano il grido dei tifosi amarantocelesti. La stazione di Rieti è il centro. Perché “centro” è un termine che ricorre spesso da queste parti. Il “Centro d’Italia” (inteso come luogo geografico ancor prima che come stadio). Il centro di un’antica linea ferroviaria. Quella Terni-Rieti-L’Aquila-Sulmona vecchia quasi quanto l’Unità d’Italia e custode di un territorio a tratti mozzafiato, che tra una galleria e l’altra sa mostrarsi quasi in maniera unica.

Per una tifoseria che di rado può utilizzare il treno per gli spostamenti, cosa c’è di meglio? Raggiungere L’Aquila su rotaia. Arrivare là in alto, a Sella di Corno, per poi ridiscendere verso l’Abruzzo. Dove due regioni si fondono, dove tutte le sciagure e i disastri di cui questo territorio è stato protagonista negli ultimi sei mesi, sembrano per qualche ora sopirsi e lasciare spazio ai sogni di ragazzi che romanticamente vanno a seguire la propria squadra, a bordo di quella ferraglia dimenticata da Dio.

Doveva giocarsi lo scorso 22 gennaio questa partita. Ma poi c’è stato il terremoto. L’ennesimo. Quattro scosse che hanno fatto vibrare pesantemente persino il mio letto. A novanta chilometri dall’epicentro. Immagino cosa possa aver provato chi il tremore l’ha vissuto appieno. Chi da mesi vive ormai sotto la botta della natura. Il nuovo stadio aquilano è stato tramutato in rifugio e due squadre di due province così tristemente rappresentate negli eventi sismici degli ultimi dieci anni, non potevano che alzare le mani e fermarsi.

Si potrebbe fare tanta di quella retorica pietistica sul terremoto, sui terremotati e sulle “kolpe dello Stato” da riempirci un libro, ma mi fermo qui. Perché in fondo questa giornata doveva strappare un sorriso, delle ore di spensieratezza e delle emozioni legate allo sport e alle gradinate. E così è stato.

Prima di partire dal capoluogo sabino, un manipolo di ultras reatini ha ben pensato di sfilare per le strade della città con un piccolo corteo, fino alla stazione. Una volante della polizia si avvicina loro, senza tuttavia batter ciglio. Il clima è quello disteso, ed è giusto sia così. Penso ai cordoni, ai controlli asfissianti e alla repressione che esiste oggi attorno ai tifosi e in particolar modo alle loro partenze in treno. Stazioni blindate e trasformate in campi militari. E poi guardo queste realtà, ancora avulse dal contesto mainstream e spesso vessante del calcio professionistico. Le invidio, profondamente, non ne faccio mistero. Inoltre è il contesto che ti circonda a riportarti indietro di qualche decennio. La ferrovia non elettrificata, il treno trasformato per un’oretta in una simpatica Comune, con il controllore pronto a scherzare e assecondare ragazzi che hanno la sola voglia di seguire la propria squadra e rappresentare i propri colori. Ecco, questo spirito negli anni avrebbe evitato tanti problemi e aiutato a stemperare situazioni portate invece appositamente allo stremo, per creare il mostro e poter dire: “Eccoli, sono loro!”.

E poi scorrono davanti agli occhi le immagini di una città ancora scricchiolante e ferita nell’anima. Macerie, lavori, gru in ogni dove e tanta gente in giro nel tentativo di cancellare quel terribile 2009. Ma se L’Aquila per la mia generazione è forse uno dei massimi esempi di quante metastasi compongano questo Paese, tra gestori raffazzonati, ingordi e ladri, dall’altra è anche una delle poche città italiane che ha saputo dotarsi di un nuovo impianto per il calcio. Perché a L’Aquila il calcio ha significato tanto dopo il terremoto. Sono stati proprio i tifosi a rimboccarsi le maniche, a raccogliere fondi, a realizzare un’area giochi assieme alle altre curve d’Italia e a contribuire a far restar vivo quel senso di appartenenza che hanno stampato sulle loro bandiere e scandito nei loro cori.

Emblematico che un vecchio impianto comunale costruito negli anni ottanta e mai terminato, sia divenuto la base su cui costruire il nuovo stadio, immediatamente ribattezzato “Gran Sasso – Italo Acconcia” (dal nome di una vecchia gloria del calcio locale) in seguito a un referendum indetto dall’associazione “L’Aquila bella me'” e inaugurato quest’anno. Bello, c’è da dirlo. Funzionale. Cento volte meglio di quelle orribili impalcature e di quegli osceni tubi Innocenti che ormai un po’ dappertutto costituirebbero (a furor di popolo) le “bellissime tribune a ridosso del campo”. Per me sono un po’ come le settantenni che si riempiono il seno di botulino: a volte ha più fascino il segno dell’età sulla pelle rispetto alla finta e inanimata plastica. Questione di gusti.

A proposito di buon gusto, anche in questa tranquilla giornata di fine gennaio qualcuno non perde l’opportuità per prenderne le distanze. L’Aquila-Rieti è un’occasione troppo grande per qualcuno. Una chance ghiotta per fare il pieno di consensi e di retorica. Per farsi vedere clemente e caritatevole nel momento del bisogno. Ovviamente a debita distanza da dove servirebbe. Un’occasione per far scrivere bene di sé ai giornali (quelli mirati, scelti sapientemente dal cappello, sfruttando i loro menestrelli più arguti e possenti) e per farsi immortalare tronfi in mezzo al campo con magliette celebrative e dichiarazioni di facciata. Ben lontani da dove si spala e si lavora ormai a tempo ininterrotto.

Parliamo del presidente federale Carlo Tavecchio e del nuovo presidente della Lega Nazionale Dilettanti Cosimo Sibilia. Venuti in queste lande per “testimoniare la nostra presenza e vicinanza alla città dell’Aquila e all’Abruzzo, a tutti quelli che hanno avuto questa grande tragedia”. E guarda caso subissati di fischi da tutto lo stadio. Per buona pace di perbenisti a cui non va proprio giù l’idea che i cittadini si possano sentir presi per i fondelli da tali siparietti artefatti. Soprattutto se a compierli ci sono personaggi alquanto discutibili, che nel recente passato tutto hanno dimostrato tranne che la sensibilità e la solidarietà nei confronti di chi se la passa peggio.

Ci pensa il fischio d’inizio a far cessare tali discorsi extra calcistici. E con esso le due tifoserie che cominciano a darsi battaglia. Rimango un pochino spiazzato dagli ultras aquilani: a differenza delle ultime volte in cui avevo avuto modo di vederli, oggi espongono soltanto una pezza per i diffidati in balaustra e non fanno sfoggio dei classici bandieroni. Non so onestamente a cosa sia dovuta questa scelta, su due piedi ho pensato a qualche problema con la Questura locale, ma non conoscendo eventuali accadimenti non posso dilungarmi in giudizi. Sta di fatto che il nucleo centrale tifa comunque tutta la partita, pur non essendo in gran numero. Tanti i battimani e come sempre belli i diversi cori che da qualche anno spopolano su You Tube (perdonatemi la citazione “marchettara” ma non saprei dare un titolo alle diverse “hit” lanciate dai rossoblu), gli stessi che hanno reso gli ultras abruzzesi celebri persino in palcoscenici nazionali, dove spesso i giornalisti non conoscono neanche il colore delle maglie indossate dalla squadra della propria città (a meno che non la debbano seguire per lavoro).

Dall’altra parte i supporter reatini si concentrano nella parte alta del settore, facendo un largo uso di battimani e cori a rispondere. Diverse le sbandierate durante l’incontro e un supporto canoro che si dimostra molto buono. Sicuramente, se la partita si fosse giocata di domenica sarebbero riusciti a coinvolgere anche un maggior numero di tifosi. Comunque allo zoccolo duro dei sabini va dato atto di aver con il tempo consolidato il proprio progetto, divenendo una realtà costante e assidua nel Lazio. Questo non è poco per una regione che storicamente ha visto gruppi e gruppuscoli nascere per poi morire qualche mese dopo. Non saranno moltissimi (ma di questi tempi mi chiedo anche chi lo sia effettivamente?) ma seguire la Rieti in un girone come questo (con la maggior parte di squadre provenienti dalla Sardegna) non è propriamente la cosa più agevole ed economica.

In campo sono i padroni di casa ad avere la meglio, grazie a un destro secco di Russo dalla media distanza. Una vittoria che mischia ancor più le carte in vetta al girone. Ora sono almeno cinque le squadre accreditate a contendersi la prima piazza, con i laziali che di fatto perdono ufficialmente la vetta.

Fanno festa i giocatori rossoblu sotto la curva, “ai piedi del Gran Sasso”, come dice un coro dei loro tifosi, dopo le ultime scaramucce consumatesi a centrocampo con gli avversari. Il freddo sta calando in maniera perentoria su L’Aquila e i tempi per tornare a casa stringono. Stavolta il buio nasconderà le cime innevate e i binari immersi tra le rocce dell’Appennino. Ci sono voluti vent’anni per rivedere di fronte rossoblu e amarantocelesti, divisi dalle montagne e uniti da una storica ferrovia.

Simone Meloni.